Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

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mercoledì, maggio 21, 2025

Philip Glass...

Philip Glass (Baltimora, 31 gennaio 1937)
Philip Glass, uno dei maggiori rappresentanti di quella particolare corrente di musica contemporanea, ha tenuto due indimenticabili concerti a Milano presentando la sua ultima, lunghissima composizione "Music In 12 parts", scritta per la nuova formazione: Jon Ginson, Dickie Landry, Ritch Peck ai fiati, Glass, La Barbara, Michael Riesman alle tastiere. La nostra intervista.

Dopo Roma, che negli ultimi anni é diventata una tappa d’obbligo per i rappresentanti di quella corrente particolare della musica contemporanea che rinnova la tradizione occidentale assimilando lo spirito dell'Oriente (Terry Riley, La Monte Young, Charlemagne Palestine ecc.), anche Milano ha avuto finalmente un primo assaggio di questa validissima "avanguardia". Sono state due serate indimenticabili, nel biancore quasi accecante di un grande salone della galleria d’arte di Salvatore Ala, durante le quali Philip Glass con il suo gruppo ha presentato due terzi della sua ultima, lunghissima composizione, "Music In 12 Parts".
I concerti erano gratuiti, ad invito (anche se in realtà chiunque risultava poi il benvenuto), ed il pubblico ovviamente ridotto numericamente ma in compenso straordinariamente eterogeneo. Meno d’un centinaio di persone, a sufficienza comunque per riempire completamente il salone, tra cui musicisti, critici, artisti, signore in pelliccia e giovanissimi appassionati in eskimo e jeans. Le due esibizioni di Glass hanno costituito in pratica l'inaugurazione di una serie di iniziative culturali, nell'ambito della galleria, che promettono di suscitare un sempre più vasto interesse (e la musica dovrebbe essere degnamente rappresentata anche in futuro). Nella prima serata ci sono state proposte le prime quattro parti della composizione, più un accenno alla quinta; nella seconda, il gruppo ha proseguito fino all'ottava parte. In tutto, più di tre ore di musica: musica viva, affascinante, sempre godibile, in cui la ricchezza di riferimenti culturali non scade mai ad arido intellettualismo, a sterile compiacimento. E viene spontaneo chiedersi perchè mai i soloni della musica "seria" si rifiutino di prendere in considerazione una corrente così vitale e già matura: forse perchè essa sfugge a regole che i grandi artisti e critici "contemporanei" ritengono valide per l'eternità?
"Music In 12 Parts" si basa, come precedenti opere di Glass, sul principio del "processo additivo", di derivazione orientale, che assume come suo fondamento la ripetizione di certi elementi variandone progressivamente la struttura ritmica e il rapporto armonico. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ne risulta monotonia: la musica emana anzi un fascino particolarissimo sfruttando le minime sfumature e raggiunge il massimo della sua efficacia proprio nei passaggi di tonalità. da una parte alla seguente (sicché gli intervalli necessari per concedere un po' di riposo agli esecutori vengono fatti cadere verso la meta di una data parte. e non tra una parte e l'altra). Glass è un musicista che considera essenziale presentare la musica dal vivo (i dischi sono per lui un aspetto secondario della sua attività) e ovviamente le sue composizioni sono impostate secondo il criterio dell'esecuzione in concerto, con ampio spazio per variazioni o deviazioni magari impreviste, purché aderenti allo spirito dello spartito. “Music In 12 Parts" è stata scritta appositamente per il gruppo che l'ha eseguita a Milano e nella composizione non sono previste parti solistiche, neppure per l'autore: per tutta la durata del pezzo gli strumentisti lavorano contemporaneamente, e il diverso "colore" delle varie parti si affida all‘alternarsi della preminenza tra le due sezioni della formazione, i tre organi elettrici (Philip Glass, Joan La Barbara, Michael Riesman) e i tre fiati (Jon Gibson, Dickie Landry, Richard Peck). Sopra all'intricato tessuto ritmico fornito dai tre organi, i fiati tracciano svariati disegni, a seconda degli strumenti impiegati (Gibson usa flauto e sax soprano, Landry flauto, sax alto, soprano e tenore, Peck sax alto e tenore), mentre si inseriscono spesso, a duettare con essi, i delicati vocalizzi della La Barbara. L'effetto complessivo è dolcemente ipnotico, ma, come si è detto, mai monotono in quanto le differenze tra le varie parti, pur nell’unità dell'impostazione, sono chiaramente individuabili: per conto mio, ho trovato "sinfonica" la parte 3, "jazzistica" la 4, "romantica" la 6, "primitiva" la 8, ma sono consapevole che si tratta di impressioni personali e discutibili. Le riporto per far comprendere quanto la composizione sia varia, pur basandosi su una struttura costante.
Al termine della seconda serata, ho potuto incontrare Glass, che si e rivelato una persona gentilissima e ben disposta a discorrere della propria attività ed esperienza, senza alcun atteggiamento da “genio superiore". Poiché all’ingresso erano stati distribuiti dei volantini della Chatham Square, con l'elenco dei dischi realizzati da Philip e da membri del suo gruppo come Dickie Landry e Jon Gibson, ho iniziato la conversazione chiedendogli di spiegarmi di che etichetta si trattasse.
"E' un'etichetta indipendente, con sede a New York, che ho fondato io stesso tre anni fa, perché servisse da sbocco discografico per me e per i miei colleghi. Non avrei potuto trovare un compromesso con la mentalità delle grandi case discografiche, per le quali ciò che conta è soltanto il successo immediato. I miei dischi vendono regolarmente, in modo progressivamente sempre più cospicuo, nello spazio di anni. Ma le grandi Case ragionano in termini di mesi. Così mi sono messo per conto mio, mi sono legato ad un’organizzazione indipendente di distribuzione negli USA, e ho iniziato la nuova attività. Ora sto concludendo degli accordi per la distribuzione in Europa; fino a quando saranno definiti, continueremo ad accettare ordinazioni per corrispondenza. Una cosa è certa: la nostra musica diventerà, entro pochi anni, molto importante, ed è giusto che siano i musicisti stessi a gestire la produzione discografica".
Che genere di persone compongono il tuo pubblico?
"In media, giovani dai 20 ai 30 anni. Molti sono appassionati di rock, che hanno già sentito accenni di quel che facciamo noi in dischi di gruppi pop, come i Pink Floyd (strano che Philip non accenni a gente come Eno e Tangerine Dream; forse non li conosce - n.d.r.) e così sono già in parte preparati ad apprezzare la nostra musica. Per ora il nostro circuito abituale, negli Stati Uniti come in Europa, é stato quello delle gallerie d’arte, dei musei, delle associazioni culturali, ma ci stiamo organizzando per ampliare il discorso, usufruendo anche di altre possibilita".
Quali sono le più importanti influenze di cui risenti come compositore ed esecutore?
"Oh, sono tantissime, non saprei elencare neppure quelle veramente determinanti. Ti posso dire che ho studiato musica per vent'anni, in varie scuole, fino alla Julliard, ma tutto ciò che avevo imparato era la tradizione classica occidentale; a ventott'anni sono andato in vacanza nell'Africa Settentrionale e ho cominciato a scoprire che esistono tante altre musiche. Questo mi ha stimolato moltissimo. Ho conosciuto poi la cultura indiana e un po' alla volta queste influenze hanno cambiato il mio mudo di comporre, di concepire la musica".
Quali sono i musicisti cui ti senti più vicino?
"Conosco bene i miei coetanei, Steve Reich che fu mio compagno di scuola, La Monte Young ecc., e seguo con interesse il loro lavoro che si svolge in una direzione simile alla mia. Ma sono ben cosciente del fatto che ci sono oggi tantissimi musicisti molto giovani agli inizi e mi piacerebbe conoscerli meglio. Il punto fondamentale è che oggi è diventato facilissimo entrare in contatto con culture musicali diverse: viaggiare è cosa normale per i giovani, procurarsi dischi di folklore o di musica classica orientali o africani o, che so, polinesiani è ormai piuttosto semplice. Così questi nuovi musicisti possono partire con una base culturale più ampia atta a fornire nuove soluzioni e idee più avanzate".
Mi confermi che c'é una ragione precisa per far cadere gli intervalli verso la metà delle parti della tua composizione?
"Sì, è come dici tu: il cambiamento di tempo, di atmosfera è la cosa più importante. Per questo non possiamo smettere di suonare quando si passa da una parte all'altra: si perderebbero i momenti più significativi. Un‘altra cosa sarebbe presentare la composizione tutta di seguito; ma ciò avviene forzatamente solo in situazioni particolari. Eseguire "Music In 12 Parts" per intero richiede 5-6 ore di concerto. L'abbiamo fatto qualche volta, e abbiamo già in programma di riprovarci in giugno, a Parigi. Ma sono occasioni speciali. Nei concerti normali ricorro a questa divisione per non snaturare il senso della composizione".
"Music In 12 Parts" è il tuo ultimo lavoro?
“Si, le ultime parti, dalla 9 alla 12, sono state composte quest'anno. Ma è dal '71 che ci lavoro sopra. Alcune altre mie composizioni sono apparse su disco: "Music In Fifths" e "Music In Similar Motion", entrambe del 1969, e "Music With Changing Part" del 1970 che forma un album doppio. Altre ancora non le ho mai registrate: "Two Pages", "600 Lines" ecc.".
Suno stati, questi di Milano, gli unici due concerti italiani nell'ambito d'una breve tournée europea: Glass è immediatamente ripartito per Parigi, da cui avrebbe poi proseguito per New York. Ma ho l'impressione che lo rivedremo presto in Italia: l'interesse dimostrato per la sua musica prima dal pubblico romano ed ora da quello milanese sembra essergli stato molto gradito. "Sì, forse ci rivedremo in primavera"», s'è lasciato scappare prima di accomiatarsi.
Daniele Caroli
("Ciao 2001", 15 Dicembre 1974, N. 50, Anno VI)

lunedì, dicembre 16, 2019

In tourneé: Philip Glass e Powaqqatsi

Curiosa emozione, quella di Powaqqatsi: ti aggredisce, inesorabile, fin dalle prime immagini: e fin dalle prime immagini obbliga a un dubbio tagliente: bisogna difendersi o concedersi? Lasciare che quello spettacolo anomalo si beva cuore, cervello e tutto quanto o arroccarsi nel sospetto e schivare l’astuta impostura?
Per chi non l’ha visto e sentito, Powaqqatsi è uno spettacolo senza nome costruito dall’unione di un film di un’ora e mezza girato da Godfrey Reggio e di una suite musicale di un’ora e mezzo scritta da Philip Glass. I due elementi, quello visivo e quello sonoro, procedono come i due binari di un’unica ferrovia (una ferrovia per dove, questo è il problema). Powaqqatsi è parente di Koyaanisqatsi, nel senso che è la seconda tappa di una trilogia di cui è in fase di gestazione la terza e conclusiva parte. Rispetto a Koyaanisqatsi, presenta una parte cinematografica più curata, più "patinata", più ricca e più incisiva. La musica di Glass resta sempre quella, con intromissioni etniche su cui gli specialisti potrebbero essere più precisi. L’impressione è che il baricentro dell’emozione si sposti più sulle suggestioni visive, lasciando qualche passo indietro le invenzioni musicali.
Nel film non c'è una sola parola: solo immagini. E' stato girato in mezzo mondo: Egitto, India, Nepal, Hong Kong, Kenya, Perù, Brasile, ecc. Per riassumere la sua ambizione in una formuletta che può parere sproporzionata ma non lo è: è un film che racconta l’Uomo. Fa sorridere, ma è così. Il bello è che ci riesce. In un gran calderone di immagini in cui razze, culture e volti di mezzo mondo si mescolano nel profilo di un unico immenso villaggio globale, Reggio annota i gesti fondamentali dell’umano e il respiro del suo esistere (e resistere). Non c’è una vera e propria storia, ma le immagini sembrano raccogliersi intorno ad alcune "stazioni" fondamentali: il lavoro, la festa, il cibo, la preghiera. Questa regressione alla ricerca dei fondamenti, delle radici, dei gesti elementari e originali dell’umano e l’aspetto più significativo dell’operazione. C’è qualcosa, in quest’ambizione a pronunciare la sacralità dei fondamenti, che ricorda l’armonica sapienza di civiltà non più possibili. E' ormai lecito pensare che faccia parte del corredo destinale della modernità l’impossibilità di pronunciare, tout court, le parole originarie, i termini totem della creazione. La modernità pronuncia se stessa, e ciò significa che dà nome, soprattutto, alla lontananza dalle origini e dai fondamenti: la lingua della modernità è la lingua dell’esilio. Quando si affaccia la pretesa di cancellare questa distanza destinale dalle proprie radici per rispolverare la purezza dei nomi originari, immediato affiora il sospetto dell’impostura: e si profila il fascismo degli slogan a buon prezzo e della falsa autenticità.
Nel caso del film di Reggio, il sospetto è aggravato dagli strumenti con cui l’opera insegue la propria ambizione: cioè con tutto l'armamentario della più ruffiana seduzione cinematografica. Esempio: il film si apre con le miniere d’oro a cielo aperto del Brasile: veri formicai umani dove centinaia di lavoranti spremono da montagne di fango una ricchezza che mai sarà la loro. Condizioni di lavoro animalesche, facce derubate di qualsiasi espressione, vite senza più storia. Non esistono quasi attrezzi di lavoro: il rapporto con la terra è quasi senza mediazioni: un duello primitivo, con in gioco la sopravvivenza. E', davvero, la pronuncia di una categoria primordiale, il lavoro, nella sua forma più elementare e originaria.
Reggio complica però le cose scegliendo un linguaggio cinematografico altamente spettacolare: la fotografia è degna di Storaro, le inquadrature sono d’effetto, tutto è sciolto in un sacrale ralenti. Anche a voler dimenticare provvisoriamente le suggestioni della musica di Glass, resta un impianto rappresentativo che senza pudore insegue un preciso obiettivo: un’acuminata spettacolarità. E qui si apre la forbice del dubbio.
Lo smantellamento delle certezze borghesi ottocentesche ha, dalle avanguardie in poi, creato un luogo comune che è assurto a precetto: la parola che denuncia, la parola che smaschera e demistifica, dev’essere una parola scarna, austera, indigente. Tagliente perché sottile ed elementare. L’avara spettacolarità è diventata sigillo dell’autenticità, contrapposto a qualsiasi retorica d’effetto, sigillo dell’inautentico. Si potrebbe discutere a lungo se un simile precetto sia giusto o sbagliato: ma il punto non è ormai più questo.
Probabilmente quel precetto oggi è, più che giusto o sbagliato, decaduto. E' un precetto che appartiene al patrimonio genetico del novecento europeo e che oggi è rimesso in discussione dalla cultura americana. E' una cultura, quella, che intrattiene un rapporto con la spettacolarità completamente diverso: non sa demonizzarla, e anzi la sceglie come condizione della propria espressione. Per dirla senza mezzi termini: la cultura americana ha dimostrato che la spettacolarità non è, a priori, l’inautentico: ma che può essere veicolo e forma dell’autenticità. Da La folla di Vidor a Andy Wahrol è tracciata una linea che mescola le carte e non consente più di fermarsi all’equazione che vuole la demistificazione inesorabilmente vestita col saio.
La resistenza dell’intellettuale europeo a questa diversa prospettiva è riassunta bene nella trovata lessicale con cui l’esorcizza: un’americanata. Ma non è nell’astuzia di un’etichetta d’effetto che si ammutolisce quel che lì è pronunciato: cioè la maturata capacità di assorbire il potere mistificatorio della spettacolarità e di volgerlo al servizio della parola che saggia l’autentico. Di fronte a questa capacità la cultura europea vacilla: perché ancora non le appartiene pienamente e perché il timore di abdicare al proprio compito di vigilanza sulla menzogna è reale e giustificato. E' con un simile vacillamento che gioca Powaqqatsi: come il gatto col topo. Di fronte alle patinate immagini di un mondo ritratto con occhio arcaico e sacrale, la coscienza critica dell’Europa che pensa se ne sta lì a misurare l’efficacia straordinaria di tutto quello e la sua inesorabile puzza di Hollywood.
Al gioco partecipa, puntualmente, la musica di Glass. Anch’essa si fa forte di una impudica spettacolarità, anch’essa allestisce una regressione verso l’elementare che riesce ad avere il sapore di una nuova innocenza. Lascia per strada l’afasia della musica contemporanea e ritrova un’efficace comunicatività. Potrebbe sembrare, in effetti, una nuova frontiera. Ma ancora una volta sorge il dubbio, ineliminabile, che si tratti semplicemente di una "nuova banalità". Il confine fra la confezione astuta e un reale pensiero musicale rivoluzionario è, purtroppo, molto sottile. Così la si ascolta, quella
musica, e la reazione è ancora sempre quella: un’ostinata resistenza a concederlesi.
Si esce da Powaqqatsi senza sapere se si è stati incastrati in una mistificatoria fantasmagoria o se si è toccato con mano ciò che d’ora in poi potrebbe essere il linguaggio, senza cilici, di un’intelligenza nuova. Devo dire che non aiuta a propendere per l’ottimismo il riconoscere, all’uscita, il più schietto entusiasmo sui volti dei presenzialisti più ottusi e degli abbonati all’ultima moda, qualunque essa sia. E se incroci uno sguardo che sai intelligente viene istintivo scambiarsi la complicità di un sereno scetticismo. Anche questo, qualcosa, vorrà pur dire.
Alessandro Baricco
("Musica Viva", n. 6, Giugno 1991, Anno XV)

domenica, marzo 03, 2013

Philip Glass: il mio rock elettronico nasce dall'Oriente

Philip Glass (1937)
Dire che è un musicista significa fornire una definizione riduttiva: Philip Glass ha dimostrato che si può suonare per il mercato, per blandire il pubblico, per virtuosismo, per ricerca. Senza mai tradire se stessi. E' una specie di alieno, apparso 48 anni fa a Baltimora, una sorta di piccolo grande uomo in viaggio sul pentagramma, nuovo e diverso da tutti, capace di intersecare il suono classico con il rock passando per l'avanguardia, di raccogliere lo spettatore colto e quello più sensibile al genere di consumo.
All'ultimo Festival di Cannes è stato premiato per la colonna sonora di Mishima, il film di Paul Schrader e mentre quell'album sarà a disposizione solo a settembre inoltrato, è appena stato pubblicato un cofanetto di tre dischi derivato da Satyagraha che fa parte di una trilogia di opere iniziata con Einstein on the beach (1975) e chiusa con Akhnaten (1983). Ispirato alla figura di Gandhi è trascritto nell'adattamento dal Bhagavad-Gita, le sacre scritture indiane, Satyagraha è un lavoro complesso e articolato attraverso l'esecuzione di una grande orchestra di una sessantina di elementi e di un coro di oltre trenta unità, che si aggiungono ai nove cantanti protagonisti.
Già segnalato come esponente di punta del movimento minimalista e ripudiata quella qualifica, Glass, che preferisce parlare di musica a struttura ripetitiva, ha condotto il suo linguaggio a una rottura spirituale, con il mondo arido, atonale e in gran parte aritmico dei compositori d'avanguardia degli Anni Cinquanta e Sessanta. E per capire l'approccio intellettuale di Glass alla musica, può venire in soccorso il giornalista e studioso John Rockwell con il suo libro All american music - Composition in the late 20th Century. L'amplificazione — scrive Rockwell — generalmente aumentata a livelli che diventano per i non ascoltatori di rock letteralmente insopportabili è il punto di congiunzione tra Glass e il rock. Creando il suo stile Glass ha ulteriormente illuminato e chiarito la relazione che nella musica sussiste tra semplicità e complessità.
Abbiamo incontrato Glass, di passaggio in Italia.
Mr. Glass. lei è il padre riconosciuto di un'area musicale denominata "minimale": da perfetto alchimista però ha respinto la qualifica e il ruolo. Perchè?
"Perchè era inadatta e parziale, le etichette non servono più per identificare una musica. Dopo Einstein on the beach la musica è cambiata, non solo per una decisione personale: in quegli anni sono successe molte cose, negli Usa e in Europa, per certi versi sono cambiati l'ordine e le norme che regolavano il business. Mi riferisco alla generazione punk, che ha avuto riflessi sulla società e sui comportamenti culturali".
Quali sono i motivi artistici extramusicali che muovono il suo lavoro?
"C'è tutta una generazione di artisti tipicamente newyorkesi che hanno una tensione ideale comune e hanno sviluppato una pratica espressiva che non segue un modello accademico e nel teatro, nella musica, nel cinema, nelle arti figurative hanno trovato una sintesi di sperimentazione molto interessante, in cui mi riconosco: i contatti che ci possono essere con Bob Wilson, con Lucinda Chllds, con Meredith Monk o Laurie Anderson fanno parte di questo universo dalle suggestioni multiformi, Per quello che mi riguarda personalmente ho imparato molto dalla tecnica orientale: studiando con Ravi Shankar ho capito che esistevano tante musiche possibili e che la struttura ritmica poteva diventare il motore di un pezzo, governarlo e dargli vita in un processo di uguaglianza tra lo spazio ritmico e quello nielodicoarmonico. La musica orientale e additiva, prende piccole unità e costruisce da esse: così mi si sono aperte le porte".

Enzo Gentile ("La Stampa", 31/08/1985)

sabato, giugno 02, 2012

Philip Glass ed il Concerto per violino

Philip Glass
Philip Glass, rappresentante di punta, insieme a Terry Riley, Steve Reich, La Monte Young, John Adams, del cosiddetto movimento minimalista sorto negli Stati Uniti all’inizio degli anni Sessanta, affronta nel corso della sua lunga carriera diversi generi musicali, con una particolare propensione per la musica applicata ad altri territori testuali o narrativi o scenici. Va aggiunto che, dopo aver preso le mosse, con ruolo preminente, dal versante più spiccatamente permutativo e formalistico del linguaggio minimale, via via Glass si allarga, in particolare dagli anni Ottanta, a considerare atteggiamenti meno rigorosi, di più facile fruizione, cioè sempre meno riferibili ai paradigmi normativi ed estetici del minimalismo più autentico. Vi si ritrovano sì i dispositivi iterativi e ripetitivi, o le minime modificazioni di minimi pattern ritmico-melodici, come è alla base del minimalismo, ma al tempo stesso si riscontra una sensibile attenzione per le potenzialità espressive e comunicative della musica tonale, oltre che una evidente attrazione per le manifestazioni musicali delle culture extra-occidentali. Così, le sue progettazioni musicali assumono da un certo punto in poi atteggiamenti più flessibili, disponibili ad accogliere, aggiornandole, le vie della tradizione sinfonica e strumentale americana. Tra anni Settanta e Ottanta in particolare, Glass esplora in varie occasioni gli ambiti della musica applicata alla scena e della musica associata alle immagini, dunque musica per il teatro, per il balletto, per varie performance, e musica cinematografica. Nascono così tra anni Settanta e Ottanta lavori teatrali importanti come la trilogia Einstein on the beach (1975, Satyagraha (1980), Akhanten (1984), o ancora i diversi lavori su testi di Samuel Beckett, come The Last Ones (1975), Endgame (1984), Company (1984). E poi soprattutto, per la notorietà anche presso il grande pubblico, le realizzazioni cinematografiche, su tutte la celebre trilogia Qatsi in collaborazione con il regista Godfrey Reggio, iniziata con Koiaanysqatsi (1983) e Powaqqatsi (1988), e completata nel 2002 con Naqoyqatsi.
In questo quadro di sviluppo estetico e di produzione compositiva, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, Glass rivolge a un certo punto la propria attenzione verso forme più tradizionali di musica da concerto. È in questo scorcio di decennio, nel 1987, che prende forma il Concerto per violino e orchestra, un'opera paradigmatica del nuovo corso intrapreso dal musicista statunitense. Emerge, nei tre movimenti di questo lavoro, una particolare propensione a riconcepire antiche forme del passato come la Ciaccona, o a ricollegarsi con le matrici linguistiche preclassiche, in particolare barocche della tradizione colta occidentale, senza tuttavia perdere la specifica, caratteristica identità linguistica maturata da Glass nel solco del minimalismo. Si percepisce qui, come in altri lavori strumentali coevi, una nuova sensibilità poetica e un’inedita vena lirica. Ma benché questo Concerto segni l’avvio in qualche modo di una nuova stagione segnata dalla maggiore attenzione per le forme strumentali non finalizzate alla scena o alla rappresentazione, un filo lo collega saldamente alla precedente stagione performativa. Infatti, questo Concerto che potremmo definire neo-barocco, affronta la relazione interpersonale tra solista e orchestra secondo le stesse modalità di interplay viste nel rapporto suono-immagine: non di commento si tratta lì, infatti, bensì di contrappunto vicendevolmente rispettoso tra ciò che si sente e ciò che si vede. Il Concerto, con la sua evidente impronta stilistica, rimarca questo principio di relazione tra una figura e uno sfondo che dialetticamente procedono nel disegnare il tempo secondo le particolari disposizioni ritmiche e metriche stabilite da Philip Glass.

"Quando parlo di minimalismo, più dettagliatamente mi riferisco ad una strategia di lavoro, ad una tecnica di lavoro, non mi riferisco ad uno stile, o ad un linguaggio armonico, che non sono poi così importanti, perché io posso cambiare. Ecco perché penso assolutamente di aver scritto l’ultimo pezzo minimale nel ‘74. La funzione del compositore deve essere molto diretta. Questa è la lezione che ho appreso da Cage: questo è il mio modello e questo è il modello che offro io alle giovani generazioni, che cerco sempre di incoraggiare. Tornando al quesito “Per chi scriviamo la musica?” o “Chi è il pubblico?” sono domande importanti, che dobbiamo sempre porci. Così come: “In che modo il pubblico riscontra la qualitàdi quello che facciamo?”. Oggi c’è un forte movimento di giovani compositori, le cui inclinazioni sono molto diverse da quelle della mia generazione. Essi non hanno lo stesso conflitto ideologico che toccò a noi, non devono combattere per i valori del linguaggio. Quando noi eravamo giovani dovevamo fronteggiare la forte chiusura mentale dell’ambiente accademico allora dominante. I giovani compositori non hanno questo genere di problema, ma ne hanno un altro, che è quello di trovare da soli un proprio linguaggio, un linguaggio autentico." (Philip Glass)
 
Note del programma di Sala del Concerto tenuto in data 7/12/2012 presso il Teatro Municipale "Romolo Valli" di Reggio Emilia

domenica, maggio 29, 2011

Philip Glass: introduzione

"Una storia consapevole del proprio valore è sorretta dalla convinzione forse presuntuosa - che si possono sfruttare le esperienze del proprio tempo senza condividerne le cecità. (Carl Dahlhaus)

Nel Novecento il grande fermento culturale rappresentato dalle Avanguardie in Europa prima e negli Stati Uniti poi, ha prodotto espressioni artistiche che sempre più hanno teso - e tendono tutt'oggi ~ alla commistione di quei generi che si sono affermati e codificati nel secolo precedente (dal melodramma alla musica strumentale, dal teatro di prosa ai primi esperimenti cinematografici), creandone di nuovi (come l'happening, per esempio). Questa tendenza si evidenzia maggiormente in un ambito come quello teatrale, nel quale diverse forme artistiche concorrono a creare un'opera più o meno unitaria.
Proprio Philip Glass, esponente della corrente sperimentale denominata minimalísmo musicale, è stato - fra i musicisti appartenuti all'avanguardia degli anni Sessanta e Settanta - tra quelli che più hanno operato a stretto contatto con l'ambito teatrale nelle sue varie forme, facendone il nucleo della propria attività. Egli, inoltre, ha ottenuto un successo di pubblico decisamente raro se confrontato con la popolarità, in certi casi molto limitata, raccolta dai suoi colleghi di estrazione colta. Cresciuto e formatosi nell'ambiente culturale e artistico del quale, all'inizio di questo percorso, tracceremo le caratteristiche principali, Glass ha elaborato una propria estetica musicale, generalmente identificata con quella corrente chiamata appunto minimalista che, se da un lato è condivisa da altri compositori come La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich, dall'altro è il frutto delle personali esperienze che egli ha maturato proprio nell'ambito del teatro in generale, e di quello di prosa in particolare. La sua carriera, iniziata come compositore di musiche di scena, ha portato Glass ad ampliare successivamente la propria attività, operando anche in altri campi, come sottolinea lo stesso compositore: "Sono passati [quasi quarant'anni] da quando ho
cominciato a lavorare in teatro con la prima compagnia dei Mabou Mines, schierandomi decisamente dalla parte progressista del teatro sperimentale. Il punto cardine del mio lavoro è stato sempre la collaborazione, con una attività che a mano a mano si allargava ad includere il teatro musicale il cinema e la danza". A questi ambiti artistici vanno aggiunti i contatti con il mondo della letteratura - per esempio con Doris Lessing e con Allen Ginsberg (con il quale peraltro condivideva l'interesse per le filosofie orientali) - e con la popular music. Sono queste collaborazioni che hanno dato modo a Philip Glass di elaborare una personale estetica musicale, applicata in primo luogo alle musiche di scena composte per la stessa compagnia teatrale Mabou Mines; musiche che rappresentano nel loro insieme una sorta di campionario della concezione teatrale glassiana, utilizzate di volta in volta con funzioni che vanno dal semplice commento musicale (per esempio in Dressed Like an Egg), a elemento strutturale dell'intera, pièce (come in Red Horse Animation). Ancora, queste esperienze lo hanno portato a creare opere estremamente innovative, prima fra tutte Einstein on the Beach, apice della prima stagione della sua produzione, realizzato a quattro mani con Bob Wilson. Un lavoro, questo, difficilmente riconducibile al teatro musicale tradizionalmente inteso, anche perché rappresenta un'esperienza che non si può ascrivere - per stessa ammissione dell'autore - né all'ambito del melodramma né a quello del teatro di prosa, suggerendo addirittura "l'ipotesi di una nuova drammaturgia" per cui l'unico rimando che mi pare adeguato - ma solo da un punto di vista strutturale - è quello con la forma teatrale del melologo dove, come accade nell'Einstein, viene attuato un meccanismo che si basa sulla "lettura o la declamazione di un testo in poesia o in prosa alternato o sovrapposto a brani per orchestra o per singolo strumento". Ma il melologo - nella sua primigenia concezione - era, comunque, narrazione; aveva il fine di esprimere, raccontare, far comprendere al meglio, se vogliamo, la vicenda messa in scena, e l'equilibrio di unità artistica perseguito era finalizzato alla rappresentazione la più perfetta possibile di tutto questo. Nell'Einstein, come vedremo, lo scopo programmatico è proprio l'opposto, come gli stessi autori dichiarano a più riprese in fase di ideazione e realizzazione dell'opera, e l'opera stessa conferma in sede di rappresentazione. Il congelamento dello spazio, ottenuto con l'estrema lentezza dei gesti e l'incombente immobilità delle immagini, e soprattutto del tempo, dilatato dallo scorrere di una musica che ritorna sempre a se stessa, riporta direttamente ad una finalità concretata nella negazione narrativa messa in atto sulla scena teatrale. Un carattere, questo, che - alla luce non tanto di una rappresentazione quanto di un oggetto scenico, quale sembra essere quest'opera, sganciato da ogni logica di messa in scena dialettica - induce a pensare all'annullamento di ogni valenza comunicativa se non nell'ottica della sola espressione di sé. Tutto ciò, che può sembrare addirittura scontato, assume rilevanza quando questa estetica musicale nata ín e per il teatro, viene utilizzata per sperimentare incursioni nel territorio della popular music, oppure impiegata da Glass con funzioni analoghe in un ambito artistico come quello cinematografico caratterizzato, come sappiamo, da una propria e particolare natura tecnica. E appunto in ambito cinematografico egli ha applicato inoltre quelle soluzioni, legate alle tecnologie della riproduzione musicale maturate in studio di registrazione con il Philip Glass Ensemble, il gruppo strumentale con il quale il compositore svolge tuttora un'intensa attività concertistica e di ricerca strumentale. Anche questo interesse verso i possibili utilizzi delle nuove tecnologie in ambito musicale rimanda a significative affinità proprio con la musica pop e rock, con la quale Glass coltiva frequenti contatti, collaborando con artisti come David Byrne, David Bowie, Laurie Anderson e Brian Eno, la cui attività si è rivelata notevolmente affine all'estetica musicale glassiana. Questo molteplice dinamismo ha, quindi, permesso al musicista di sviluppare il suo linguaggio musicale adattandolo alle necessità legate alle varie collaborazioni. In questa continua ricerca di rinnovamento, Glass vuole comunque sfuggire ad una sorta di manierismo minimalista, come sottolinea lui stesso: "Fu l'impatto con l'Asia che mi permise di creare il mio linguaggio, ma in quello che faccio adesso questo non si sente più. Il rischio era di diventare prigioniero, di cambiare un sistema accademico per un altro". In sostanza Glass - dalla metà degli anni Sessanta - adotta strutture ritmiche orientali per poi, dopo l'esperienza di Einstein on the Beach, ritornare ad armonie occidentali, utilizzando, infine, dagli anni Ottanta in poi, soluzioni tecnologiche (come la registrazione digitale o la multimedialità) sia per la produzione teatrale sia per quella destinata ad altri impieghi. In questo percorso il compositore si avvicina, come già accennato, ad ambienti artistici i più differenti, riscuotendo un considerevole successo, anche discografico. Un aspetto, questo, che entra pienamente a far parte del profilo complessivo di un musicista che, artisticamente nato in ambito colto, mutua, elaborandole, le estetiche del teatro d'avanguardia da una parte e, dall'altra, di quell'arte orientale che tanto ha influito sull'ambiente culturale statunitense, per poi perseguire varie e feconde commistioni stilistiche. Una visibilità, anche commerciale, quella di Glass, che non manca naturalmente di generare critiche che portano la sua musica ad essere indicata quale esempio - nell'ampio panorama dell'arte del Novecento - dello "slittare di molte forme artistiche contemporanee verso il mediocre, il ripetitivo, il revivalistico".
Alla luce di queste sintetiche considerazioni nasce quindi l'esigenza di esplorare l'attività di questo compositore estremamente prolifico, il cui percorso artistico - iniziato a metà degli anni Sessanta e tuttora in corso - resta comunque ancora complessivamente poco analizzato (soprattutto in Italia) nonostante una prospettiva storica che occupa ormai un quarantennio. Da questo punto di vista mi pare di primaria iinportanza cercare di illustrare innanzitutto i caratteri della musica teatrale glassiana e le funzioni alle quali questo artista ríconduce le proprie composizioni in rapporto agli altri elementi drammatici. In secondo luogo pare utile verificare se e come determinati principi compositivi ed estetico-musicali vengano applicati dal compositore sia ad ambiti affini a quello teatrale, come quello cinematografico, sia ad ambiti apparentemente distanti, come quello della popular music. Alla fine di questo percorso, inoltre, saremo forse in grado di comprendere meglio in che misura la fortuna di Philip Glass sia da attribuire al suo peculiare modo di concepire il teatro e l'arte musicale in genere, e quanto questo successo - decisamente atipico per un compositore contemporaneo influisca sulla sua opera profondamente caratterizzata da un eclettismo di fondo che egli stesso riassume in questo modo: "Noi Americani siamo gente di frontiera. Ma, europei ed americani, abbiamo in comune le musiche del Ventesimo Secolo: tonale, dodecafonica, pop, rock, e tutte le altre. Dobbiamo guardarle tutte assieme dimenticando le gerarchie. Ecco che vedremo le cose in modo differente".

Alessandro Rigolli (introduzione a "Philip Glass", Ed.Auditorium, 2003)