Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, aprile 28, 2014

La pittura "sinfonica" di August Strindberg

August Strindberg (1849-1912), "Onde"
Nell'anno strindberghiano 2012, ci sono state non meno di tre importanti mostre pittoriche su Strindberg organizzate a Stoccolma, in particolare una personale con opere che appartengono a ricchi collezionisti stranieri.
 
Il 27 giugno 2007, fu venduto, dalla casa d'aste inglese Sotheby, il quadro svedese più costoso di sempre: "Alplandskap I" di August Strindberg. Il prezzo fu di 29,4 milioni di corone svedesi – il precedente quadro svedese più costoso era stato il dipinto di Strindberg "Underlandet" realizzato sempre nel 1894 in un piccolo cottage nella città di austrica di Dornach, entrambi esposti e venduti all'esposizione del circolo degli artisti a Stoccolma nel 1895. Nel 1990, il prezzo per "Underlandet", che ora si trova al museo nazionale, fu di 24 milioni di corone svedesi. A conferma di ciò, la galleria americana che acquistò "Alplandskap" immediatamente espose le tele della grande esposizione a Maastricht e ora chiede un prezzo considerevolmente più alto: 52 milioni di corone svedesi. Curiosamente, Strindberg è il pittore svedese che dal 1960 ha conosciuto la maggior parte di  personali presso prestigiosi musei d'arte moderna in Europa, inclusa la Biennale di Venezia. Come è possibile che i dipinti di un'artista svedese senza una vera e propria educazione artistica abbiano suscitato un così forte interesse internazionale? A lungo si è voluto spiegare il fenomeno con il suo status di celebrità come famoso drammaturgo, ma Ibsen è effettivamente più internazionalmente conosciuto e anch'egli dipinse anche delle tele, dipinti che tuttavia mai raggiunsero un pubblico più ampio di quello nazionale norvegese e che furono sempre valutati ad un prezzo relativamente basso. Dev'esserci una spiegazione più plausibile. La grandezza di Strindberg risiede soprattutto nella sua capacità di percorrere costantemente nuove strade in modo diverso rispetto ai suoi contemporanei, sperimentando qualcosa di completamente nuovo senza sbarazzarsi della tradizione artistica. Strindberg provò, di volta in volta, nuove soluzioni, anche se spesso tutto ciò lo portò in vicoli ciechi, come i suoi esperimenti di chimica.
Tipico è lo sviluppo riguardante uno dei suoi primi quadri, completati sull'isola di Kymmendö, suo amato paradiso estivo, nel 1873. L'anno prima, a 23 anni, aveva deciso di lasciare gli studi ad Uppsala per mantenersi come libero scrittore e artista in compagnia di giovani pittori come Per Ekström e Ernst Josephson. Il soggetto è la stazione balneare sull'isola: alcune rocce circondate da pini che si affacciano sul mare aperto. Per prima cosa, egli fa uno studio naturalistico del colore, seguito da un attento studio a matita degli alberi, che riporta su un nuovo pannello verniciato nel suo studio a casa. Per la prima volta, egli dipinge l'orizzonte basso del mare che sarebbe diventato in seguito il suo segno di riconoscimento, ma completò il dipinto usando uno stile post-romantico che era la regola per i suoi compagni pittori durante gli anni '70 del 1800. Il risultato lo lascia insoddisfatto – "quando lui usava lo studio a matita sulla tela aggiungendo i colori, il risultato era soltanto una macchia confusa" scrive nella sua autobiografia. Dopo aver incorniciato il dipinto, decide di fare una revisione completa. I tradizionali colori locali sono dipinti sopra il nero e il grigio e il cielo è coperto da minacciose nuvole di tempesta – allontanandosi dal luminoso studio estivo, si origina un'atmosfera pittorica anti-naturalistica totalmente diversa dalla pittura dell'epoca. Ritornato nell'arcipelago di Stoccolma nel 1892, Strindberg era finito in un vicolo cieco circa il  processo di creazione letteraria: i suoi nuovi drammi non venivano rappresentati, la luna di miele con il pubblico svedese che aveva vissuto prima del ritorno in terra natia sembrava giungere al termine. Una serie di processi e il divorzio dalla prima moglie Siri Von Essen lo resero nervoso e agitato. Da solo in una stuga presso il promontorio di Dalarö, inizia subito una febbrile produzione di dipinti: per prima cosa, dipinge su qualsiasi materiale ha a disposizione: copertine in cartone di libri e lastre di zinco, fino ad una batteria che usava per esperimenti scientifici. Degli oltre 30 famosi quadri dell'estate del 1892, tutti mostrano il motivo dell'arcipelago, più o meno astratto, tranne uno.
Quando inizia a lavorare su formati più grandi, gli sembra di aver lasciato lavorare da soli il materiale e i colori: egli abbandona ogni pretesa di rappresentazione naturalistica del cielo e del mare. I colori ad olio puri sono lavorati direttamente sul pannello o sulla tela, il lavoro evidente della spatola ha più importanza del motivo stesso. Nel luglio del 1892, inaugurò la  propria personale in una delle più piccole gallerie d'arte di Stoccolma, un'iniziativa coraggiosa che  pochi dei suoi colleghi pittori svedesi avevano intrapreso in quel periodo. Nell'ottobre 1892, Strindberg si trasferì a Berlino dove divenne più sedentario di quante avesse immaginato. Raccolse intorno a sé, alla taverna che aveva ribattezzato "Il maiale nero", un importante gruppo di scrittori e pittori scandinavi e tedeschi: tra di loro, vi era il giovane Munch. Munch, Strindberg e la loro cerchia, che, tra l'altro, contava la presenza dello scrittore polacco Stanislaw Przybyszewski, ebbero un ruolo decisivo per una nuova arte simbolista-espressionista di origine nordica.
Durante tutto il periodo tedesco, Strindberg non scrisse quasi nessun'opera narrativa. Si dedicò, invece, alla scienza e alla pittura. Tra i quadri del periodo berlinese, spiccano il grande "Vågen III" alla taverna "Il maiale nero" e il regalo di fidanzamento alla giovane nuova moglie Frida Uhl "Svartsjukans natt", entrambi cupamente espressivi, e la prima versione di "Den grönskande ön", Kymmendö come capovolgimento del famoso dipinto "L'isola dei morti" di Böcklin, "Livets högsommar" come Strindberg interpretò il suo dipinto nel 1894. Il dipinto più notevole è forse "Den ensamma giftsvampen", dove un solo naturalistico fungo velenoso estrae e condensa l'esperienza di infinito una libera parafrasi del panorama simbolista "Mönch am Meer" del 1810 del romantico Caspar David Friedrich. Insieme a Munch, espone a Berlino anche nella primavera del 1893. Strindberg dipinge la sua serie più importante di dipinti nel 1894 a Dornach presso Donau in Austria, in un piccolo cottage durante la gravidanza della sua seconda moglie. Lui descrive la tecnica pittorica nello stesso anno nel saggio "Om slumpen i det konstnärliga skapandet". Come gli spontaneisti degli anni 60 del '900, egli lascia crescere la propria pittura, con l'incontro tra i colori e il pannello, mai completamente astratta ma aperta alle interpretazioni della fantasia degli osservatori. Come Kandinsky, intensifica la forza espressiva dei colori e delle forme fino al punto in cui l'aderenza al principio delle immagini diventa irrilevante. Il suo attaccamento alla realtà è comunque così forte nella sua intera produzione da portare alla luce un nuovo naturalismo sia nella  pittura astratta che nelle linee casuali.
Nei dipinti di Dornach, dominano due motivi che sembrano averlo interessato a partire dal 1870: il motivo della grotta e quello dell'onda contro le rocce. Il motivo della grotta, la grotta di foglie sono descritti da Strindberg stesso, in una breve lettera del 1894 al suo amico Littmansson, come una fitta foresta al cui centro un passaggio si apre su un chiaro paesaggio ideale e su dell'acqua immobile un motivo naturalistico-romantico mutuato dalla scuola di Barbizon, ma che egli ha raffinato applicandolo ad un'arte quasi completamente astratta. Ora si aggiungono i grandi dipinti "Underlandet" e "Alplandskap I", ma anche la notevole e scura tela "Golgatha".
Nell'autunno del 1894, Strindberg si reca a Parigi per farsi un nome come scrittore e pittore. Un pittore e mercante d'arte franco-danese di dubbia reputazione, Willy Gretor, si offrì di lanciare Strindberg come pittore. Nel giro di pochi ed inquieti giorni, tra il 7 ed il 10 Settembre del 1894, Strindberg eseguì a Passy una serie dei suoi più raffinati dipinti. Coscientemente, egli scelse motivi più convenzionali e commerciali, ma la tecnica è ancora la sua, posseduta con grande maestria. Al gruppo di questi due dipinti appartengono due dei migliori studi del mare del 1800, "Marin" e "Strandparti", quasi simili ai dipinti di Carl Fredrik Hills.
Una crescente sfiducia nei confronti di Gretor portò Strindberg ad abbandonare subito la pittura. Prima di tutto questo, lui dipinse comunque un paio dei suoi quadri più notevoli: "Snöstorm på havet" e "Hög sjö". Il motivo in "Hög sjö" è, da un punto di vista formale, una tromba d'aria sul mare, ma l'immagine ha abbandonato tutte le pretese del naturalismo. Essa è costruita intorno ad un movimento a spirale che dà all'immagine la sua tensione. La cosa più interessante è tuttavia il trattamento del materiale che fa sì che anche i particolari diventino elementi di una pittura astratta. La pittura è eseguita con molto colore secco esclusivamente in grigio scuro e marrone-bianco, probabilmente con un miscuglio di gesso che conferisce uno spesso rilievo. Per ottenere l'effetto di fuliggine nera, l'immagine è stata  bruciata, probabilmente con l'ausilio di un bruciatore o di una lampada a petrolio. Con questo modo di dipingere, Strindberg aveva quasi completamente rotto con l'arte simbolista e naturalistica dominante; il passo successivo deve essere un'arte esclusivamente astratta. Strindberg si trovava al limite di una rivoluzione artistica me non fece il passo decisivo.
Con la sua fantasia visiva fortemente realistica, non poteva lasciar andare l'ultimo illusionismo. La pittura diventa quindi un vicolo cieco, un punto di arrivo della crescita pittorica di Strindberg.  Nel 1901, durante un momento di profonda crisi durante il suo terzo matrimonio (con Harriet Bosse), ritorna di nuovo in Svezia e nella sua città natale Stoccolma con il suo arcipelago, riprende  per l'ultima volta a dipingere, questa volta con una direzione fortemente simbolista. Durante tre diversi periodi, dipinge grandi, quasi espressionistiche scene naturali che danno l'impressione di un fondo teatrale. In molti dei dipinti, riprende il motivo della grotta, presente in "Infernotavlan" del 1901: l'acqua tranquilla è sostituita dal mare in tempesta. Questo è uno dei dipinti più rappresentativi/intimi: usando lo stesso sfondo, Richard Bergh in seguito dipinse il famoso ritratto dell'adorato amico. Un'altra variante è "Gula hösttavlan", dove il mare si è calmato e il fogliame della cornice di foglie (motivo della grotta) ha assunto i colori malinconici dell'autunno. Il motivo  più caratteristico, oltre quello della grotta, è la spaventosa e veloce "Vågen", ripetuta molte volte, con la schiuma bianca alla luce del tramonto sotto minacciose nuvole temporalesche. Quasi tutti i dipinti di Strindberg manifestano una marcata nota simbolica di morte e annientamento.  Nel 1905, sembra abbia dipinto per l'ultima volta. Alcuni anni dopo, riprese il suo vecchio punto di vista circa il dubbio valore dell'opera d'arte e si libera di tutti i suoi quadri, sia quelli dipinti da lui che quelli ricevuti dagli amici pittori. Strindberg conosceva il suo valore come pittore e, come nel suo famoso saggio su "Il caso nella creazione artistica" (Slumpen i det konstnärliga skapandet), poteva anche spiegare il  perché dipingeva in quel modo. Tuttavia, poteva mai immaginare che sarebbe diventato uno dei più conosciuti pittori svedesi nel mondo, l'unico svedese a cui è stata dedicata una personale della  prestigiosa Biennale di Venezia e, per terminare, l'artista svedese più quotato di sempre? Il valore artistico non si deve misurare solo con i soldi e il contributo di Strindberg come pittore non deve essere visto secondo tale prospettiva. Per Strindberg, era importante la comunicazione con il  pubblico, con l'osservatore, e nascondere un'opera d'arte in una cassaforte o nella collezione privata di un ricco collezionista equivale ad un omicidio spirituale. Pertanto, si potrebbe sospettare che egli vedrebbe, con sentimenti abbastanza contrastanti, la nuova importanza dei suoi quadri come oggetto di investimenti internazionali.

sabato, aprile 19, 2014

Sir John Gardiner: "Che il coro viaggi..."

Sir John Gardiner ed il suo Monteverdi Choir di nuovo in viaggio l'estate scorsa. Ma questa volta per il grande pellegrinaggio cattolico a Santiago.
 
Per Sir John Eliot Gardiner l'anno del millenario è coinciso con la celebrazione di una carriera musicale già ammirevole. Tia il Dicembre del 1999 e il Dicembre del 2000 lui ed il suo Monteverdi Choir, con gli English Baroque Soloists, hanno intrapreso un pellegrinaggio virtuale nelle cantate di Bach. In quei dodici mesi hanno eseguito tutte le centonovantotto cantate sacre di Bach in chiese principalmente della Germania del nord (con pochi viaggi di contorno in Gran Bretagna, a New York ed in Spagna) nelle domeniche per le quali le opere erano state specificatamente composte. Non solo é stata possibile la più intensa immersione nella musica di uno specifico compositore che un esecutore abbia mai potuto sperimentare negli ultimi anni, ma questa ha cambiato l'atteggiamento di Gardiner verso la musica dal vivo. "Sono uno che crede che c'è sempre stato più di un ritratto bidimensionale nella musica del passato. Essa deve sgorgare viva ed esprimere il suo pieno potenziale come un'esperienza che coinvolge sia l'interprete che l'ascoltatore. Deve essere proposta in un contesto storico o almeno vivace, che percepisca il modo in cui la gente osserva le costruzioni e la loro vita spirituale." Gardiner parlava nella sua fattoria nel Dorset in uno splendido giorno di primavera, quando la tentazione di essere un allevatore nel bel mezzo della stagione degli agnelli doveva attentare gentilmente al suo ruolo di studioso ed esecutore.
E' stato durante un concerto nella chiesa di San Domingo di Bonival a Santiago di Compostela, nel nord-ovest della Spagna, verso la fine del suo pellegrinaggio delle cantate di Bach, che egli ha avuto l'idea di un altro pellegrinaggio musicale: seguire la secolare rotta che portava i credenti dalla Francia allo spettacolare sito dove si dice che giacciano i resti di San Giacomo. E ancora una volta, questo sarebbe stato un pellegrinaggio nel nome della musica, con concerti lungo la strada.
Il "Camino de Santiago de Compostela" - o "la strada di San Giacomo" - è stato segnato nel decimo secolo, e da allora i pellegrini hanno intrapreso il lungo viaggio attraverso la Francia ed il nord della Spagna. Dopo un periodo di declino, il numero di pellegrini che camminano fino a Santiago per visitate il santuario di San Giacomo è in crescita: negli anni '80 solo un paio di migliaia di persone intraprendevano il cammino ogni anno, durante gli anni '90 la cifra è cresciuta fino a circa trentamila persone, ma negli Anni Santi - gli anni in cui il giorno in cui si celebra il Santo cade di Domenica - le cifre erano sostanziali (il 1993 ha visto 99.000 pellegrini ed il 1999 approssimativamente 155.000). Il 2004 è un altro Anno Santo e l'aspettativa è per un considerevole afflusso a Santiago.
Nel settimo e nell'ottavo secolo l'lslam si rivolse all'Europa dopo la caduta di Gerusalemme. La Spagna venne occupata nell'ottavo secolo e anche parte della Francia del sud conobbero l'invasore. Comunque, alla fine dell'ottavo secolo venne costituito un caposaldo cristiano nell'estremità nord-occidentale della Spagna, nell'attuale Galizia. Durante il regno di Alfonso venne scoperta la tomba dell'apostolo Giacomo presso Finisterre, ed in quanto evangelista della Spagna e apostolo, l'attrattiva di Giacomo innalzò Santiago al rango di destinazione di pellegrinaggio comparabile a Roma o Gerusalemme: molto presto venne costruita una cattedrale e numerose fondazioni religiose nacquero attorno ad essa.
Il pellegrinaggio di Gardiner a Santiago non è stato, come egli ammette senza remore, un atto veramente religioso. Come si potrebbe camminare per tutto il giorno e poi tenere un concerto alla sera? Ma l'iniziativa aveva comunque un significato. "Siamo un coro di ventidue elementi - niente strumenti, solo musica a cappella - e abbiamo camminato tutti i giorni. Cera un autobus che poteva raccogliere chi si stancava o chi non se la sentiva di affrontare il caldo. Iniziammo la marcia la mattina presto, poi il bus ci raccoglieva e ci portava al luogo scelto per il pranzo e il riposo pomeridiano. Quindi facevamo le prove e i concerti, e cosi via. E’ stara dura, fisicamente e psicologicamente. Ma non era come per chi percorre la via del pellegrinaggio, perchè noi dovevamo anche cantare."
I1 programma per i concerti rifletteva il progredire del pellegrinaggio; dunque, quando iniziammo - nel sud-ovest della Francia - c’era più musica francese e fiamminga. E mentre il viaggio proseguiva attraverso la Spagna, le rappresentazioni spagnole aumentavano. Per come la mette Gardiner, "era un'ode mobile, per cosi dire, che tagliava via alcuni pezzi e ne introduceva altri durame la strada." Era anche per certi versi un pellegrinaggio musicale nella gioventù di Gardiner quando, con la sua terrificante famiglia musicale, cantava musica di Morales e Victoria nella chiesa locale. E benché egli abbia imparando nuova musica per il pellegrinaggio, molta altra era in agguato nel suo subconscio, pronta ad essere riportata ancora una volta alla luce.
Uno dei brani lo riporta al periodo in cui studiava a Parigi con la formidabile Nadia Boulanger. "Quando studiavo con lei, fece cantare alla classe un salmo penitenziale, Hélas Mon Dieu di Claude Le Jeune. Non era una cosa raccomandabile da ascoltare - francamente era un'interpretazione spaventosa, perché la maggior parte della classe era composta da pianisti americani che non avevano per niente voce, e non riuscivano a tenere la linea. Ma in qualche modo lei ci tenne in riga. La Boulanger mi diede la sua trascrizione e io la copiai, poi andai alla Bibliothéque Nationale per verificare che fosse corretta. Naturalmente lo era, perché tutto ciò che lei faceva era impeccabile, Ne feci quindi la mia edizione, che Oxford University Press ha pubblicato alcuni anni fa, E' un pezzo meraviglioso, molto, molto cromatico, profondamente espressivo - in realtà protestante, non cattolico - ma assolutamente appropriate, credo, per questo tour."
Dopo tre concerti in Francia, nella cattedrale di Rodex, una spettacolare chiesa fortificata in cui lavorava il compositore Bouzignac, il pellegrinaggio tornò brevemente a Londra. Là, essi diedero un concerto l'otto Luglio in un luogo molto appropriato: il Luogo Spagnolo di San Giacomo, una meravigliosa chiesa neogotica dietro la Wallace Collection a Manchester Square. Poi il pellegrinaggio iniziò davvero. "Esso andava da Jaca, una città in Aragona proprio sopra i Pirenei, via via fino a Compostela. La maggiore densità di concerti era in Castilla y Leon. La regione aveva appoggiato il progetto fin dagli inizi.
Le regioni vicino ai confini sono state meno entusiaste per ragioni che non pretendo di capire, ma che hanno a che fare con la politica basca. Abbiamo terminato in Galizia, regione che è stata molto, molto entusiasta. ln totale, dunque, ci sono stati quindici o sedici concerti lungo tutto il cammino, abbiamo seguito quella che a tutti gli effetti è la rotta francese attraverso il nord della Spagna, e le sole grandi città che abbiamo traversato erano Burgos e Leon."
"Iniziammo con un po' di Josquin, Dufay e Clemens, e compositori francesi o fiamminghi che hanno lavorato in Spagna, come Philippe Rogier - un meraviglioso compositore - che ha lavorato a Madrid e a Siviglja, Lheritier, che andò a Roma - non credo che abbia lavorato in Spagna, ma c'erano tali contatti tra la Spagna e Roma... Quasi tutti i grandi compositori spagnoli hanno cantato nel Coro della Cappella Sistina o erano in contatto con Roma. Ovviamente Victoria e Morales, che era andato in Terrasanta ed era stato catturato dai pirati sulla via del ritorno - ebbe una vita molto movimentata." Tra gli altri compositori scelti mentre il pellegrinaggio proseguiva nella Spagna, citiamo Penalosa, Guerrero, Lobo, Di Vivanco ed il portoghese Manuel di Cardoso.
Per Gardiner ed il suo coro, il pellegrinaggio ha avuto un prologo durante le vacanze di primavera quando, in una chiesa del quartiere di Holborn a Londra, hanno registrato un disco di musica usata per il pellegrinaggio - il primo per la loro nuova etichetta, SDG, che ha in programma anche la pubblicazione di musica dal pellegrinaggio bachiano nel seguitare dell'anno. SDG sono le iniziali che Bach apponeva alle sue opere - Soli Deo Gloria - ma dato il burrascoso divorzio di Gardiner dalla sua precedente etichetta, la DG, mi sono chiesto se la "S" della SDG possa indicate qualcosa di più volgare...
Comunque, consiglio a tutti di aspettare la sua registrazione. E' da troppo tempo che aspettiamo che Gardiner torni alle sue origini, da troppo tempo che il Monteverdi Choir non viene ascoltato alle prese con questo affascinante repertorio.

James Jolly (Gramophon) - ["Orfeo", gennaio 2005]

venerdì, aprile 11, 2014

IV Concorso Internazionale per Quartetto d'Archi Premio Paolo Borciani - 1997


Questa registrazione celebra la storia del quartetto d'archi e il suo futuro. La storia è rappresentata dallo straordinario repertorio di opere per due violini, viola e violoncello composte lungo gli ultimi due secoli e mezzo, opere che sono fra i più grandi esiti dell'espressione artistica nella tradizione classica occidentale. Il futuro è rappresentato dai giovani musicisti che vi partecipano e dalla presenza nel programma di un nuovo quartetto di Luciano Berio, registrato qui per la prima volta. L'attenzione così per la tradizione come per il futuro è caratteristica del concorso Paolo Borciani (intitolato alla memoria del fondatore del Quartetto Italiano), il cui comitato organizzatore ha dimostrato l'impegno nell'allargamento del repertorio per quartetto d'archi commissionando un nuovo pezzo per il concorso. I tre quartetti d'archi presentati qui sono stati registrati il 22 giugno 1997, in occasione del concerto dei vincitori della quarta edizione del concorso per il Premio Paolo Borciani.

Quartetto Artemis, Germania
Primo Premio (Premio Paolo Borciani)
Béla Bartok: Quartetto n.4

Quartetto Auer, Ungheria
Terzo Premio (ex-aequo)
Franz Joseph Haydn: Quartetto in sol maggiore, Op.77 n.1

Quartetto Lotus, Giappone
Terzo Premio (ex-aequo)
Premio speciale per la migliore esecuzione del quartetto Glosse di Luciano Berio
Luciano Berio: Glosse - Prima mondiale

Franz Joseph Haydn è giustamente considerato il creatore (fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento) di quelli che a tutt'oggi sono ritenuti i primi quartetti d'archi significativi. Nei suoi quartetti giovanili Haydn cercò di risolvere due questioni principali: una di tessitura, l'altra di forma. Insieme ad altri musicisti della sua generazione, egli dovette reimmaginare un complesso strumentale che non fosse dominato dalle parti gravi e acute con l'accompagnamento di uno strumento a tastiera (struttura tipica della musica da camera barocca), ma che invece costituisse una conversazione fra quattro strumenti, ciascuno dei quali portasse qualcosa di individuale ed essenziale all'insieme. Egli lavorò altresì allo sviluppo dei principi di organizzazione musicale che sarebbero stati fondamentali per lo stile classico, lo stile di Haydn, Mozart e Beethoven: un approccio alla forma che enfatizzava le interazioni drammatiche intrinseche al sistema tonale, mezzo flessibile eppure coerente di integrazione fra aree tonali contrastanti e (di solito) fra materiali tematici entro un singolo movimento.
L'op.77 n.1 è uno degli ultimi quartetti di Haydn, scritto nel 1799 e dedicato al principe Joseph Franz Maximilian Lobkowitz (al quale più tardi Beethoven avrebbe dedicato non solo i suoi primi quartetti, op.18, ma anche la terza, quinta e sesta sinfonia). A esemplare testimonianza di ciò che divenne il quartetto d'archi nelle mani di Haydn, l'op.77 n.1 si articola in quattro movimenti: Allegro moderato; Adagio; Menuetto (Presto); Finale (Presto). Il primo, terzo e quarto movimento sono in sol maggiore, il secondo movimento (insieme alla sezione centrale, o "trio", del terzo) è in mi bemolle maggiore. In ciascun di essi Haydn sfrutta il contrasto fra aree tonali, fondamentale per lo stile classico. Ma ancora più tipico dello Haydn maturo è l’eleganza del pensiero melodico combinata con uno straordinario ingegno musicale. Ciò che al primo ascolto percepiamo come gradevole melodia risulta composto di piccoli frammenti, ciascuno dei quali manipolabile e sviluppabile separatamente; viceversa, ciò che al primo ascolto percepiamo come breve motivo porta con sé la propria eventuale espansione in magnifica me1odia. La nobile, soave melodia del primo violino all’inizio del primo movimento, per esempio, è effettivamente fatta di un breve motivo puntato ripetuto più e più volte. Prima che il movimento sia concluso avremo ascoltato quel motivo in diverse combinazioni, disseminate avanti e indietro fra gli strumenti, ora come melodia, ora come interiezione comica, ora come commento all’acuto, ora some brontolio al grave. A un dato momento, il ritmo subisce una sospensione di due battute, per poi riprendere. Ma tale interruzione porta in sé il seme da cui emergerà il tema lirico già ascoltato alla dominante.
L'Adagio, di austera bellezza, esordisce con un tema enunciato insieme dai quattro strumenti, ma al procedere del discorso, la melodia spezza il proprio cammino fra i diversi registri, in una serie di eleganti contrappunti (e virtuosistici, per il prime violino) che la avviluppano in un’onda sonora. Il tempestoso Menuetto ha ben poco a che fare con la danza aristocratica da cui prende il nome, e gli intervalli estremi, sincopati del primo violino sono tanto divertenti in se stessi, quanto (come sempre in Haydn) soggetto per ulteriori esplorazioni musicali: Beethoven avrebbe chiamato movimenti di questo tipo, “scherzi". Haydn confonde le nostre aspettative a ogni occasione. Il Finale appare come un luminoso pezzo d’intrattenimento, fino a quando il tema non risulta pronto per l'elaborazione contrappuntistica.
Circa 130 anni separano l'op.77 n.1 di Haydn dal Quarto quartetto di Bela Bartok. I sei quartetti del compositore ungherese sono giustamente annoverati fra i capolavori della musica del Novecento. Il linguaggio musicale che li caratterizza è molto diverso da quello di Haydn. I violenti pizzicato, i glissando, l’uso del "non-vibrato", della sordina, degli armonici, degli arpeggi sfruttano le diverse possibilità sonore degli strumenti ad arca. Il linguaggio armonico, senza abbandonare il sistema tonale maggiore-minore, lo spinge energicamente a esplorare misture modali, cluster, cromatismi estremi. Il linguaggio ritmico dischiude un vasto spettro di possibilità, dall’uso di rauchi ritmi di danza, alla sostanziale sospensione dell’attività ritmica (per entrambi gli aspetti si trovano precedenti nei tardi quartetti di Beethoven).
E quale forza emotiva e costruttiva Bartok mostra in quest’opera in cinque movimenti. Essi si accoppiamo in una forma ad arco attorno alla misteriosa musica notturna posta al centro, evocante richiami d’uccelli che emergono attraverso l'immobilità, gli agitati momenti d’angoscia, i brevi passaggi di tranquilla bellezza. Il secondo e il quarto movimento sono entrambi “scherzi”, l'uno affidato a tutti gli archi con sordina, l’altro in pizzicato. Benché essi suonino in modo alquanto differente, il materiale musicale che li costituisce è intimamente correlato: essendo il quarto movimento sostanzialmente una variazione del secondo.
Rapporti d’affinità sono ancora più evidenti fra i due movimenti d’apertura e di chiusura del quartetto, il principale materiale tematico dei quali è correlato in modo diretto. Il sorprendente motivo cromatico che ape il prima movimento, lo domina tutto, dappoiché Bartok ne asseconda lo sviluppo contrappuntistico (invertendolo, contrapponendolo a se stesso) e melodico. Gradualmente, esso perde parte della sua intensità cromatica e si trasforma in una figura diatonica, dotata di più melodica curvatura. Il processo culmina nel movimento finale, dove il motivo in questione dà origine a un disegno melodico compiuto con chiare radici nella tradizione zigana. E' come se Bartok avesse preso il motivo, lo avesse ridotto a una sua essenza fondamentale nel primo movimento, per poi lasciargli riacquistare la propria compiutezza all’inizio del movimento conclusivo. Ma alla fine esso ritorna di nuovo allo stato fondamentale, con una serie di gesti che richiamano direttamente il primo movimento.
Il gesto sta al centro del nuovo lavoro per quartetto d'archi di Luciano Berio, Glosse. “Glosse” sta naturalmente per "commenti”, “annotazioni apposte a qualcos'altro", ma nel quartetto di Berio ciò che troviamo sono commen1i in sé e per sé. Tali annotazioni, che sembrano nascere da molte delle tecniche presenti nei quartetti di Bartok, rinviano a tanta parte della storia del quartetto d'archi. Lo sfruttamento delle possibilità sonore degli archi è cruciale in quest'opera, e la varietà degli effetti, pizzicato, armonici, glissando, oltre che stupefacente, evoca spesso un sentimento di “musica notturna”.
Glosse non abbandona mai un tono lirico, come è dato ascoltare nell’a solo di violoncello che apre e chiude a composizione. La sezione caratterizzata dalla tesa scrittura ritmica affidata a tutti e quattro gli archi ricorda gli “scherzi“ di Haydn, filtrati da Bartok, mentre la sezione in pizzicato evoca, oltre a Bartok, molti altri quartetti del Novecento che adottano una tecnica simile.
Glosse, in tal senso, è un commento sul passato e una dichiarazione rivolta al futuro. In questo modo Berio riesce felicemente a catturare lo spirito del concorso Paolo Borciani.

Philipp Gossett (trad. Roberto Fabbi)

sabato, aprile 05, 2014

"Rigoletto": "Un gobbo che canta, dirà taluno! E perchè no?..."

Mantova, la statua del Rigoletto
Cantavano gli dei, i semidei; canteranno le prostitute, le zingare, le stripteaseuses da sette veli. Senza dimenticare i draghi, gli uccellini saccenti oppure le magiche stoviglie di Colette. Eppure fu la deformità fisica a intralciare il cammino creativo di Rigoletto seppure dietro alibi moralistici o politici. Cioè la vera molla drammaturgica verdiana prima ancora che dalla musica venne paradossalmente sottolineata, nella sua perfetta e bruciante forza drammatica, dai solerti funzionari della censura Veneziana e da quei “taluni” che Verdi sprezzantemente bolla nella lettera da cui è tratta la citazione messa a mo’ di epigrafe.
Il primo protagonista. del melodramma fu un semidio, Orfeo; i1 primo grande melodramma, la favola in rnusica monteverdiana Orfeo si apre con La Musica in persona che canta: due secoli e mezzo dopo Verdi si permette di far cantare un gobbo. Questo è scandalo, come il “sacrifizio” di Violetta; come saranno “scandalosi” per futuri pubblici quelli di Carmen o di Lulù. Una donna di facili costumi si redime, una zingara si fa ammazzare pur di rimanere libera, una prostituta viene a morire in una sorta di auro sacrificale e trasfigurata. Siamo ancora nella normalità.: ma un gobbo che canta, un gobbo che
ha sentimenti . . . Cosa rappresenta?
Un pericolo, senz’altro. Non solo per le censure ottocentesche, se nel 1937 il giornalista cinefilo e liricofobo Luigi Freddi in una lettera indirizzata a Benito Mussolini si preoccupava d'annotare, tra altre vaghezze relative ai capolavori del nostro operismo: “è mai possibile che si possa pensare oggi alla realizzazione di un Rigoletto, efferata storia di un tirannello provinciale che usa e abusa dei sudditi, di un satrapo che si sollazza di tradimenti e assassini in una Italietta divisa e primitiva, con tutte le conseguenze politiche e morali che ne possono derivare alla massa del pubblico...”.
Sarebbe operazione troppo facile, e inutile, ripercorrere semplicemente il filo dei travisamenti che hanno accompagnato la storia del collegamento tra l'originale di Hugo e il libretto di Piave, sotto l'implacabile e eloquentissima supervisione di Verdi; anche se nemmeno i testi che hanno sviscerato con eccezionale sottigliezza questo esemplare e ben documentato caso di censura sono stati in grado di trascendere lo stadio della collimazione documentaria per entrare nel vivo della strepitosa dimostrazione di superiorità drammaturgica elargita dal compositore (e di non plebea consapevolezza del librettista). Qui ci interessa la questione secondo un'ottica meno storica, visto che tentiamo una serie di riflessioni che partano dal dato di fatto (la conoscenza della partitura, del libretto e dei “precedenti” di Rigoletto) per affrontare, o meglio per lanciare, indizi critici o d'interpretazione desunti dall'osservazione ravvicinata di alcune coincidenze compositive.
La mossa d‘avvio è nota e verdiana: “io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente defforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore”. La dichiarazione d’autore è magistralmente completata da “scelsi appunto tale soggetto per queste qualità e questi tratti originali, se si tolgono io non posso più far musica”. Poi si arriverà al sopportabile compromesso e Verdi potrà “far musica".
Ma sarebbe ingiurioso per un drammaturgo così potente, pensare che le contraddizioni messe a plasmare i “tratti originali” fossero soltanto quelle rilevabili alla pura lettura o all’ascolto. Certo, la drammaticità di Rigoletto, uomo e padre, buffone e giustiziere, ha un riscontro ineffabile nel taglio bellissimo della narrazione e nella forza delle immagini musicali impiegate da Verdi. Ma è al fondo di tali immagini, nella sequenza quasi ininterrotta di duetti che danno sostanza al progetto musicale dell'opera che vale la pena di guardare a fondo. Perché l'opera delle contraddizioni, dei mutamenti di caratteri, delle decisioni repentine e drammatiche possiede una sua logica segreta. che si diparte con processi significanti dalla squisita scrittura. In altre parole non può essere considerato casuale che il trattamento musicale del Duca di Mantova sia quello più convenzionale: una ballata, un duettino, un duetto, una scena (aria e cabaletta con coro), una canzone, un altro breve duetto che sfocia in quartetto (lo specchiamento del libertino nei tre approcci amorosi diversi ha una stringente limatura musicale: basta analizzare i procedimenti impiegati da Verdi per intrecciare le voci. Prima dote del libertino è il camaleontismo), quindi lacerti della sua canzone che, come i lampi metereologici, sono rivelatori ad alto potenziale esplosivo. Convenzionale nel senso che s'adatta allo svolgimento delle situazioni, anziché modificarle; come la funzione deuteragonistica del ruolo pretende. Il Duca di Mantova è talmente fatuo da non prendere nemmeno in considerazione - la maledizione di Monterone ne l‘ipotesi violenta suggerita da Rigoletto a proposito del Conte di Ceprano né il ronzare inquietante di Sparafucile: tutto avviene come su un piano avanzato rispetto a quello delle sue azioni e dei suoi comportamenti che semplicemente s'adeguano. La presenza del Duca non provoca lacerazioni musicali o drammatiche, semplicemente sottolinea situazioni già avanzate per cui le sortite e le scomparse dalla scena si assomigliano. Appaiono tutte come lo staccarsi per un attimo da quell'ambiente che accoglie e solo risponde alle sollecitazioni drammatiche di Rigoletto.
Eccolo il protagonista. Ogni volta che interviene la temperatura complessiva dell'opera s‘increspa. Non vanta le bellurie melodiche del Duca ma lascia il segno: note ribattute, linea vocale spezzata, improvvise modulazioni; il canto non parte dalle labbra ma, più profondamente, dalle viscere d'un personaggio che percorre l'opera irrequieto e come presago fin dalla primissima apparizione (Rigoletto inizia e termina l’opera con una serie di note ribattute: lo stesso disegno ritorna - tra do e re bemolle, tonalità base dell'opera - nei momenti culminanti a partire dalla maledizione di Monterone...).
L'accompagnamento orchestrale, esclusa naturalmente la 'danzata' scena dell'atto iniziale, e con l'eccezione dell’invettiva feroce del "Vendetta!" (che nell'andamento musicale riprende - stravolgendola - l'effusione di “Culto, famiglia, la patria”), risponde a un‘idea originale anche per l'operismo verdiano in quanto impone autonomia tra le due linee musicali. In orchestra poi troviamo spesso strumenti solisti, a cominciare dal violoncello nel duetto Rigoletto-Sparafucile, e l'orchestra stessa svolge un ruolo di “continuum” sonoro che non spezza mai l’azione: la scandisce semmai. Presago, inquieto, senza speranza. La tinta che Verdi destina al suo protagonista non può lasciare dubbi: se l'essere giullare non fosse espresso dalle sue stesse parole nei passaggi più intensi dell'opera - laddove la contraddizione tra 'professione' e sentimento individuale si fa lancinante: “lacrime piangendo, sotto la larva del buffon" - e se non ci si mettesse la volgarità di interpreti che ritengono obbligatoria la risata sguaiata che accompagna la comparsa nel mezzo della festa, l'immagine del protagonista sarebbe tutta segnata dalla drammaticità, dall’apprensione seppure affettuosa (con Gilda), dalla cattiva fama (“tristi" sono i suoi modi secondo i cortigiani), prima di rivelarsi nell'animosità, nella paura, nella difesa estrema degli affetti. Ecco un'altra strada drammaturgica, originale e bilanciata sulle contraddizioni 'esterne' del suo Rigoletto, che si rivela nella descrizione di questa schizofrenia comportamentale, della barriera a oltranza innalzata sui propri affetti, sulla propria vera natura. Una moglie celestiale, una figlia santificata in terra, ma celate allo sguardo degli uomini: come nascosti sotto la giubba del sinistro giullare rimangono l'amor paterno e l'umanità.
Tutte qualità continuamente rimosse dal corso drammatico dell’opera. Rigoletto non lascia respiro ai fatti, alle reazioni, è incalzato da una forza esterna: la “maledizione” ha il passe fatale di un'energia inarrestabile, come la “vendetta” (sottolineata con gesto musicale vistoso nel primo coro dei cortigiani: è l’altra parola-simbolo dell'opera) che si ritorce moralmente su chi l’ha ordita. La fatalità, come ritmo vitale travolgente che tutti i personaggi sono costretti a subire, è un macchinismo che percorre la musica e precorre gli avvenimenti. Verdi l’impone al suo teatro successive arrivando alla costruzione di quell’enorme architettura rituale ch’è Don Carlos: in Rigoletto sembra di avvertirne i presagi. Sarà la tinta omogenea, sarà la vertiginosa corsa delle scene che nella simmetria costruttiva acquistano un’assurda e temeraria
compressione emotiva, sarà quella eccezionale capacità di leggere “i1 cor dell'uomo” (che Filippo II per poco s'illuderà di conoscere...) come fosse non specchiato ma in trasparenza, quindi con pregi e difetti, per arricchimento e sottrazione contemporanee: è impossibile fissare in poche immagini 1'energia scatenata da Verdi.
A noi rimangono le emozioni, alle parole le briciole di un istinto drammaturgico sbalorditivo. Sembra innato, miracoloso; invece è miracoloso ma calcolato, inventato, perfezionato.

Verdi ama subito Rigoletto, vi condensa fantasmi lungamente vagheggiati di Re Lear; difende la sua opera con le motivazioni che prima sono state ricordate, ma soprattutto difende un'idea di musica per il teatro con dignità oggettiva, vincente: “dice francamente che le mie note o belle o brutte che siano non le scrivo a caso, procuro sempre di darle un carattere”, soggiungeva. poco oltre nella lettera (già citata, del 14 dicembre 1850) indirizzata al presidente dell'Impresa del Teatro La Fenice.

Oltre al carattere delle note c'è quello dei personaggi, accanto ad essi gli ambienti, i climi. Tutto obbedisce a un progetto teatrale esatto che non può subire le limature d‘una censura. La forza fatale dl cui si parlava prima fa aprire
l'opera con un'introduzione orchestrale dove si sviluppa allusivamente l‘idea tematica della “Maledizione” e poi lascia il campo alle tre “orchestre" che suggeriscono la gran festa, con alternanze - vere e proprie zoomate sonore - che corrispondono alle sezioni pensate su profondità espressive diverse, tratteggiando una sceneggiatura cinematografica, per campi esattissimi. E li c’è un clima che non fallisce; il Verdi bandistico nel senso professionale dell'attributo spalanca1'opera su una festa livida, astiosa (si ripassino i discorsi che segmentano l‘azione della prima scena), dove aleggia un'idea di “atto gratuito", di sfida alla dignità degli altri uomini che appartiene sia alla dimensione del cortigiano che a quella del signore libertino (l'"Atto gratuito” è una delle molle drammaturgiche introdotte da Auden nel libretto di The Rake's progress di Stravinskij, esattamente cento anni dopo: e Stravinskij cita Rigoletto tra i lontani creditori della sua straordinaria riflessione sul libertinismo).
Poi gli ambienti: il palazzo, la riva del Mincio, la casa di Rigoletto... ovvero interno, esterno, interno-esterno; interno (ma doppio: c’è la presenza della stanza dove s'è consumato l'atto d’amore); esterno-interno che “diventa” esterno. Il gioco delle simmetrie in Rigoletto è impietoso, cementa tutta l’opera come le numerose corrispondenze strutturali e tematiche (Luigi Dallapiccola tra le altre
ricorda “l’episodio che Liszt avrebbe definito ‘Tempestuoso’ del primo atto” e la ‘tempesta’ dell’ultimo cioè l’identità tra melodia del coro 'O tu che la festa' e l‘attacco di Sparafucile ‘Se pria ch'abbia il mezzo la notte toccato'"). Non a caso il centro drammaturgico dell'opera va riconosciuto nel “Quartetto”, momento sublime dell‘ambiguità ambientale (esterno-interno) e di quella sentimentale (un triangolo amoroso con i1 Duca al vertice e uno affettivo con Gilda contesa tra amante e padre); trasfigurazione strutturale (in un’opera ch‘è “una sfilza interminabile di duetti”, come l’aveva definita Verdi, un Quartetto è una sorta di astrazione sintattica), oltre che palestra d‘incontri musicali seducenti.
Un gobbo che canta! Perché no? Verdi aveva capito bene anche un’altra questione: il problema non era la voce, ma il ruolo sociale. Quello non consente a un istrione di corte di avere un‘amante, per di più segreta, e bella...: questo è il vero scandalo. Va punito con la degradazione dell'oggetto tanto prezioso a oggetto di burla, poi di piacere. Il potere contro1'emarginato colpevole di aver tentato un‘emulazione dei signori (l'amante bella): può essere un’idea d'interpretazione - per carità, non scenica - anche questa.

Ma quando un lampo squarcia la notte e svela il contenuto del sacco si può per un attimo sorridere pensando alla clamorosa sciocchezza di
Honegger che definì Rigoletto “histoire d'erreur d'emballage”; poi i1 gobbo (così è la terza volta: i duetti con Gilda, appunto) canta con una voce ch’è dell’anima. E dimenticandoci d’ogni tentativo di lettura, lasciamo che Verdi c’invada sapendo che la sua mano è quella di un uomo che la statura di Rigoletto l'ha saputa inventare tante volte perché l'aveva dentro da sempre.

Angelo Foletto (1984)