Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, aprile 05, 2014

"Rigoletto": "Un gobbo che canta, dirà taluno! E perchè no?..."

Mantova, la statua del Rigoletto
Cantavano gli dei, i semidei; canteranno le prostitute, le zingare, le stripteaseuses da sette veli. Senza dimenticare i draghi, gli uccellini saccenti oppure le magiche stoviglie di Colette. Eppure fu la deformità fisica a intralciare il cammino creativo di Rigoletto seppure dietro alibi moralistici o politici. Cioè la vera molla drammaturgica verdiana prima ancora che dalla musica venne paradossalmente sottolineata, nella sua perfetta e bruciante forza drammatica, dai solerti funzionari della censura Veneziana e da quei “taluni” che Verdi sprezzantemente bolla nella lettera da cui è tratta la citazione messa a mo’ di epigrafe.
Il primo protagonista. del melodramma fu un semidio, Orfeo; i1 primo grande melodramma, la favola in rnusica monteverdiana Orfeo si apre con La Musica in persona che canta: due secoli e mezzo dopo Verdi si permette di far cantare un gobbo. Questo è scandalo, come il “sacrifizio” di Violetta; come saranno “scandalosi” per futuri pubblici quelli di Carmen o di Lulù. Una donna di facili costumi si redime, una zingara si fa ammazzare pur di rimanere libera, una prostituta viene a morire in una sorta di auro sacrificale e trasfigurata. Siamo ancora nella normalità.: ma un gobbo che canta, un gobbo che
ha sentimenti . . . Cosa rappresenta?
Un pericolo, senz’altro. Non solo per le censure ottocentesche, se nel 1937 il giornalista cinefilo e liricofobo Luigi Freddi in una lettera indirizzata a Benito Mussolini si preoccupava d'annotare, tra altre vaghezze relative ai capolavori del nostro operismo: “è mai possibile che si possa pensare oggi alla realizzazione di un Rigoletto, efferata storia di un tirannello provinciale che usa e abusa dei sudditi, di un satrapo che si sollazza di tradimenti e assassini in una Italietta divisa e primitiva, con tutte le conseguenze politiche e morali che ne possono derivare alla massa del pubblico...”.
Sarebbe operazione troppo facile, e inutile, ripercorrere semplicemente il filo dei travisamenti che hanno accompagnato la storia del collegamento tra l'originale di Hugo e il libretto di Piave, sotto l'implacabile e eloquentissima supervisione di Verdi; anche se nemmeno i testi che hanno sviscerato con eccezionale sottigliezza questo esemplare e ben documentato caso di censura sono stati in grado di trascendere lo stadio della collimazione documentaria per entrare nel vivo della strepitosa dimostrazione di superiorità drammaturgica elargita dal compositore (e di non plebea consapevolezza del librettista). Qui ci interessa la questione secondo un'ottica meno storica, visto che tentiamo una serie di riflessioni che partano dal dato di fatto (la conoscenza della partitura, del libretto e dei “precedenti” di Rigoletto) per affrontare, o meglio per lanciare, indizi critici o d'interpretazione desunti dall'osservazione ravvicinata di alcune coincidenze compositive.
La mossa d‘avvio è nota e verdiana: “io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente defforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore”. La dichiarazione d’autore è magistralmente completata da “scelsi appunto tale soggetto per queste qualità e questi tratti originali, se si tolgono io non posso più far musica”. Poi si arriverà al sopportabile compromesso e Verdi potrà “far musica".
Ma sarebbe ingiurioso per un drammaturgo così potente, pensare che le contraddizioni messe a plasmare i “tratti originali” fossero soltanto quelle rilevabili alla pura lettura o all’ascolto. Certo, la drammaticità di Rigoletto, uomo e padre, buffone e giustiziere, ha un riscontro ineffabile nel taglio bellissimo della narrazione e nella forza delle immagini musicali impiegate da Verdi. Ma è al fondo di tali immagini, nella sequenza quasi ininterrotta di duetti che danno sostanza al progetto musicale dell'opera che vale la pena di guardare a fondo. Perché l'opera delle contraddizioni, dei mutamenti di caratteri, delle decisioni repentine e drammatiche possiede una sua logica segreta. che si diparte con processi significanti dalla squisita scrittura. In altre parole non può essere considerato casuale che il trattamento musicale del Duca di Mantova sia quello più convenzionale: una ballata, un duettino, un duetto, una scena (aria e cabaletta con coro), una canzone, un altro breve duetto che sfocia in quartetto (lo specchiamento del libertino nei tre approcci amorosi diversi ha una stringente limatura musicale: basta analizzare i procedimenti impiegati da Verdi per intrecciare le voci. Prima dote del libertino è il camaleontismo), quindi lacerti della sua canzone che, come i lampi metereologici, sono rivelatori ad alto potenziale esplosivo. Convenzionale nel senso che s'adatta allo svolgimento delle situazioni, anziché modificarle; come la funzione deuteragonistica del ruolo pretende. Il Duca di Mantova è talmente fatuo da non prendere nemmeno in considerazione - la maledizione di Monterone ne l‘ipotesi violenta suggerita da Rigoletto a proposito del Conte di Ceprano né il ronzare inquietante di Sparafucile: tutto avviene come su un piano avanzato rispetto a quello delle sue azioni e dei suoi comportamenti che semplicemente s'adeguano. La presenza del Duca non provoca lacerazioni musicali o drammatiche, semplicemente sottolinea situazioni già avanzate per cui le sortite e le scomparse dalla scena si assomigliano. Appaiono tutte come lo staccarsi per un attimo da quell'ambiente che accoglie e solo risponde alle sollecitazioni drammatiche di Rigoletto.
Eccolo il protagonista. Ogni volta che interviene la temperatura complessiva dell'opera s‘increspa. Non vanta le bellurie melodiche del Duca ma lascia il segno: note ribattute, linea vocale spezzata, improvvise modulazioni; il canto non parte dalle labbra ma, più profondamente, dalle viscere d'un personaggio che percorre l'opera irrequieto e come presago fin dalla primissima apparizione (Rigoletto inizia e termina l’opera con una serie di note ribattute: lo stesso disegno ritorna - tra do e re bemolle, tonalità base dell'opera - nei momenti culminanti a partire dalla maledizione di Monterone...).
L'accompagnamento orchestrale, esclusa naturalmente la 'danzata' scena dell'atto iniziale, e con l'eccezione dell’invettiva feroce del "Vendetta!" (che nell'andamento musicale riprende - stravolgendola - l'effusione di “Culto, famiglia, la patria”), risponde a un‘idea originale anche per l'operismo verdiano in quanto impone autonomia tra le due linee musicali. In orchestra poi troviamo spesso strumenti solisti, a cominciare dal violoncello nel duetto Rigoletto-Sparafucile, e l'orchestra stessa svolge un ruolo di “continuum” sonoro che non spezza mai l’azione: la scandisce semmai. Presago, inquieto, senza speranza. La tinta che Verdi destina al suo protagonista non può lasciare dubbi: se l'essere giullare non fosse espresso dalle sue stesse parole nei passaggi più intensi dell'opera - laddove la contraddizione tra 'professione' e sentimento individuale si fa lancinante: “lacrime piangendo, sotto la larva del buffon" - e se non ci si mettesse la volgarità di interpreti che ritengono obbligatoria la risata sguaiata che accompagna la comparsa nel mezzo della festa, l'immagine del protagonista sarebbe tutta segnata dalla drammaticità, dall’apprensione seppure affettuosa (con Gilda), dalla cattiva fama (“tristi" sono i suoi modi secondo i cortigiani), prima di rivelarsi nell'animosità, nella paura, nella difesa estrema degli affetti. Ecco un'altra strada drammaturgica, originale e bilanciata sulle contraddizioni 'esterne' del suo Rigoletto, che si rivela nella descrizione di questa schizofrenia comportamentale, della barriera a oltranza innalzata sui propri affetti, sulla propria vera natura. Una moglie celestiale, una figlia santificata in terra, ma celate allo sguardo degli uomini: come nascosti sotto la giubba del sinistro giullare rimangono l'amor paterno e l'umanità.
Tutte qualità continuamente rimosse dal corso drammatico dell’opera. Rigoletto non lascia respiro ai fatti, alle reazioni, è incalzato da una forza esterna: la “maledizione” ha il passe fatale di un'energia inarrestabile, come la “vendetta” (sottolineata con gesto musicale vistoso nel primo coro dei cortigiani: è l’altra parola-simbolo dell'opera) che si ritorce moralmente su chi l’ha ordita. La fatalità, come ritmo vitale travolgente che tutti i personaggi sono costretti a subire, è un macchinismo che percorre la musica e precorre gli avvenimenti. Verdi l’impone al suo teatro successive arrivando alla costruzione di quell’enorme architettura rituale ch’è Don Carlos: in Rigoletto sembra di avvertirne i presagi. Sarà la tinta omogenea, sarà la vertiginosa corsa delle scene che nella simmetria costruttiva acquistano un’assurda e temeraria
compressione emotiva, sarà quella eccezionale capacità di leggere “i1 cor dell'uomo” (che Filippo II per poco s'illuderà di conoscere...) come fosse non specchiato ma in trasparenza, quindi con pregi e difetti, per arricchimento e sottrazione contemporanee: è impossibile fissare in poche immagini 1'energia scatenata da Verdi.
A noi rimangono le emozioni, alle parole le briciole di un istinto drammaturgico sbalorditivo. Sembra innato, miracoloso; invece è miracoloso ma calcolato, inventato, perfezionato.

Verdi ama subito Rigoletto, vi condensa fantasmi lungamente vagheggiati di Re Lear; difende la sua opera con le motivazioni che prima sono state ricordate, ma soprattutto difende un'idea di musica per il teatro con dignità oggettiva, vincente: “dice francamente che le mie note o belle o brutte che siano non le scrivo a caso, procuro sempre di darle un carattere”, soggiungeva. poco oltre nella lettera (già citata, del 14 dicembre 1850) indirizzata al presidente dell'Impresa del Teatro La Fenice.

Oltre al carattere delle note c'è quello dei personaggi, accanto ad essi gli ambienti, i climi. Tutto obbedisce a un progetto teatrale esatto che non può subire le limature d‘una censura. La forza fatale dl cui si parlava prima fa aprire
l'opera con un'introduzione orchestrale dove si sviluppa allusivamente l‘idea tematica della “Maledizione” e poi lascia il campo alle tre “orchestre" che suggeriscono la gran festa, con alternanze - vere e proprie zoomate sonore - che corrispondono alle sezioni pensate su profondità espressive diverse, tratteggiando una sceneggiatura cinematografica, per campi esattissimi. E li c’è un clima che non fallisce; il Verdi bandistico nel senso professionale dell'attributo spalanca1'opera su una festa livida, astiosa (si ripassino i discorsi che segmentano l‘azione della prima scena), dove aleggia un'idea di “atto gratuito", di sfida alla dignità degli altri uomini che appartiene sia alla dimensione del cortigiano che a quella del signore libertino (l'"Atto gratuito” è una delle molle drammaturgiche introdotte da Auden nel libretto di The Rake's progress di Stravinskij, esattamente cento anni dopo: e Stravinskij cita Rigoletto tra i lontani creditori della sua straordinaria riflessione sul libertinismo).
Poi gli ambienti: il palazzo, la riva del Mincio, la casa di Rigoletto... ovvero interno, esterno, interno-esterno; interno (ma doppio: c’è la presenza della stanza dove s'è consumato l'atto d’amore); esterno-interno che “diventa” esterno. Il gioco delle simmetrie in Rigoletto è impietoso, cementa tutta l’opera come le numerose corrispondenze strutturali e tematiche (Luigi Dallapiccola tra le altre
ricorda “l’episodio che Liszt avrebbe definito ‘Tempestuoso’ del primo atto” e la ‘tempesta’ dell’ultimo cioè l’identità tra melodia del coro 'O tu che la festa' e l‘attacco di Sparafucile ‘Se pria ch'abbia il mezzo la notte toccato'"). Non a caso il centro drammaturgico dell'opera va riconosciuto nel “Quartetto”, momento sublime dell‘ambiguità ambientale (esterno-interno) e di quella sentimentale (un triangolo amoroso con i1 Duca al vertice e uno affettivo con Gilda contesa tra amante e padre); trasfigurazione strutturale (in un’opera ch‘è “una sfilza interminabile di duetti”, come l’aveva definita Verdi, un Quartetto è una sorta di astrazione sintattica), oltre che palestra d‘incontri musicali seducenti.
Un gobbo che canta! Perché no? Verdi aveva capito bene anche un’altra questione: il problema non era la voce, ma il ruolo sociale. Quello non consente a un istrione di corte di avere un‘amante, per di più segreta, e bella...: questo è il vero scandalo. Va punito con la degradazione dell'oggetto tanto prezioso a oggetto di burla, poi di piacere. Il potere contro1'emarginato colpevole di aver tentato un‘emulazione dei signori (l'amante bella): può essere un’idea d'interpretazione - per carità, non scenica - anche questa.

Ma quando un lampo squarcia la notte e svela il contenuto del sacco si può per un attimo sorridere pensando alla clamorosa sciocchezza di
Honegger che definì Rigoletto “histoire d'erreur d'emballage”; poi i1 gobbo (così è la terza volta: i duetti con Gilda, appunto) canta con una voce ch’è dell’anima. E dimenticandoci d’ogni tentativo di lettura, lasciamo che Verdi c’invada sapendo che la sua mano è quella di un uomo che la statura di Rigoletto l'ha saputa inventare tante volte perché l'aveva dentro da sempre.

Angelo Foletto (1984)

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