Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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martedì, luglio 16, 2019

Spoleto: progetto L'Arte della Fuga...

Quando penso a Mozart a Wagner o a Debussy, evoco nella mia mente opere precise, collocate in una prospettiva di valori e di interessi che mi sono propri. Quando penso a Bach, invece, non mi sento indotto a porre le singole sue opere in una prospettiva cronologica lineare e sembra acquistare un valore simbolico il fatto che il catalogo ufficiale dell'opera bachiana (BWV, Bach Werke Verzeichnis) appaia talvolta in conflitto col calendario. Tendo a pensare a Bach come nozione, come entelechia, come organismo della mente i cui caratteri globali paiono trascendere le sue proprietà locali. Bach come idea, per ragioni che in parte ancora mi sfuggono, non si lascia illustrare completamente dalle sue opere né lo si può collocare completamente in esse. La dimensione Bach mi appare talvolta come una intricata proiezione al pantografo delle strutture autoriflessive delle opere: dalle Toccate alle Passioni, dalle Cantate al Clavicembalo, dalle Trio-Sonate all'Offerta Musicale, dall'opera organistica all'Arte della Fuga. Tutte le sue opere, dalle prime alle ultime, sembrano coesistere. Dentro la vasta e granitica organicità sintattica dell'opera bachiana agisce senza sosta un intreccio dialettico di rapporti, un'armonia di conflitti, un guardarsi da fuori e da dentro, un comporre il comporre e un trascendere ogni idea di stile (concetto peraltro inesistente in quell'epoca). E' per questo che le analisi scolastiche dell'armonia, della melodia, della polifonia, della metrica, della retorica e delle forme bachiane non approdano a nulla di significativo quando sono valutate separatamente. Le stesse tecniche vocali vanno osservate nella prospettiva barocca delle tecniche strumentali, ma l'apparato strumentale e le concezioni strumentali dell'epoca, con le loro tecniche specifiche, vanno a loro volta osservate anche alla luce di una meta-strumentalità ideale e universale. Così come le forme sacre vanno osservate alla luce delle forme profane (le cantate sembrano spesso animate da una drammaturgia "operistica"), la religiosità di Bach deve diventare anche un terreno d'analisi della sua laicità. La stessa tradizione tedesca in Bach deve essere osservata anche alla luce delle tradizioni e degli eventi musicali italiani e francesi: Vivaldi, Pergolesi, Couperin, Rameau. La musica di Bach - così poco viaggiatore - si nutre della conoscenza di tutta la musica europea. La trascrizione diventa funzione della creazione, l'arcaismo diventa funzione dell'evoluzione e della sintesi e il rigore funzione della libertà. Non solo. Il contrappunto di Bach è anche una meditazione sulla pluralità del mondo: è uno sguardo che sembra penetrare profondamente e trascendere il passato e il futuro. Ed è anche per questo che ancora oggi Bach vive dentro di noi in tutta la sua vastità e con tutti i suoi poteri, dicevo, di autoriflessione: come quel profondo lago di un racconto indiano, che si mette in cerca delle sue stesse sorgenti lontane. Lontane, vorrei aggiungere, anche nel tempo, passato e futuro.
Luciano Berio (2001)
 
All'Arte della Fuga, monumentale testimonianza di scienza musicale, J.S. Bach lavorò per tutto l'ultimo decennio della sua vita, dal 1740 - anno a cui risalgono i primi quattro brani - al 1749, quando vennero apprestati per la stampa i primi undici numeri dell'opera, fino all'ultimo anno di vita. L'Arte della Fuga presenta 18 Contrappunti o Canoni o Fughe, chiudendosi su una Fuga a tre soggetti rimasta incompiuta; tutti circondati dallo steso enigma interpretativo. La classificazione delle Fughe varia a seconda degli storici e per il progetto "L'Arte della Fuga" abbiamo tenuto conto della classificazione dell'edizione Bärenreiter (1956) curata da Hermann Diener, che conta 18 Contrappunti, cui seguono il Corale "Vor deinen Thron tret ich heirmit" (Dinanzi al tuo trono mi presento) e l'Appendice n° 19 "Fuga a specchio" sul tema variato e sul suo inverso per due pianoforti (variante al n°13).
L'organizzazione musicale è assolutamente artificiosa: la natura di questa musica "assoluta" è schiva da tentazioni profane, ascetica, quasi impossibile. Nella prima edizione dell'Arte della Fuga, uscita a Lipsia all'inizio del 1751 a cura di Carl Philipp Emanuel Bach, l'incompiuta Fuga a 3 soggetti era seguita dal corale "Vor deinen Thron tret ich hiermit", ultima pagina di Bach, che l'autore ormai cieco e allo stremo delle forze aveva dettato sul letto di morte al genero Johann Christoph Altinkol. Spoglia di ornamenti, come tutta l'Arte della Fuga, priva di drammaticità, questa pagina ci stupisce e rapisce ugualmente, allo stesso modo di quella stupefacente architettura contrappuntistica che l'aveva preceduta.
Questo lavoro sembra essere il seguito de L'Offerta musicale, che Bach ha appena finito di scrivere. Anche in questo caso c'è una serie di variazioni contrappuntistiche tutte basate sullo stesso tema e sulla medesima tonalità, ma se nell'Offerta musicale dominava l'idea di canone, in questa composizione vengono analizzate tutte le possibilità di scrittura della Fuga. L'Arte della Fuga doveva ricoprire, allo stesso modo dell'Offerta musicale e delle Variazioni canoniche, la funzione di "comunicazione scientifica" per la Società di Mizler. E' possibile che il progetto iniziale di Bach comprendesse ventiquattro Fughe, ovvero sei gruppi di quattro, ognuno dei quali contenesse due volte due Fughe costruite su soggetto esposto sotto un doppio aspetto, rectus e inversus. L'Arte della Fuga è costruita su di un tema sviluppato in quattro battute in re minore. La Fuga XII ad esempio è a "specchio": il rectus è una variante ritmica del tema principale, mentre l'inversus è l'immagine rovesciata della Fuga precedente. Il principio della Fuga è relativamente semplice: un motivo melodico o soggetto, esposto da una delle voci (discantus, altus, tenor o bassus) è ripreso, "imitato" dalle altre. Questo motivo imitato può essere identico al modello, oppure più alto o più basso, più lento o più veloce, e così via. Le combinazioni sono infinite. A seconda della complessità della Fuga possono esserci due, tre o quattro soggetti. Nell'Arte della Fuga il tema è esposto e capovolto, le voci e i soggetti si moltiplicano, si rispondono all'infinito giungendo, appunto, sino alle famose Fughe XII e XIV nelle quali si riflettono come un raggio in uno specchio; Fughe doppie, triple, quadruple; canoni di tutti i tipi combinazioni e intrecci di soggetti e controsoggetti sotto tutte le possibili forme, costruiscono un'architettura le cui linee sembrano perdersi verso il cielo, in una spirale senza fine pur nel suo continuo rinnovarsi. Da ultimo la Fuga XVIII, la maestosa Fuga interrotta dall'avvicinarsi della morte. Come se si rendesse conto dell'irreparabile, Bach appone la sua firma. Il tema che appare nella musica (alla battuta 193) è composta dalle lettere del suo nome: B.A.C.H. (si bemolle, la, do, si bequadro), un doloroso cromatismo in progressione ascendente.
Una tradizione ben radicata sostiene che la frase che compare alla fine della Fuga XVIII incompiuta sia di mano di Philipp Emanuel: "Su questa Fuga, in cui il nome di Bach appare in controsoggetto è morto l'autore". In realtà Bach non è morto scrivendo questa Fuga. L'ha lasciata interrotta già molto malato, per una ragione che ignoriamo. La più plausibile pare essere che, essendo quasi totalmente cieco dalla fine del 1748, avrebbe considerato impossibile dettare ad altri la fine di un'opera così complessa. La Fuga incompiuta sarebbe stata nelle intenzioni di Bach la penultima del progetto, poiché l'ultima doveva essere una Fuga quadrupla.
Incerta è la destinazione strumentale dell'opera, che a motivo della sua scrittura a quattro parti (discantus, altus, tenor e bassus) pare concepita per organo. Bach infatti non ha indicato il mezzo esecutivo (tranne per due Fughe, destinate al Klavier, cioè a una imprecisata "tastiera"): orchestra, organo, complessi cameristici? Bach ha invece voluto sottolineare l'assolutezza, la spiritualità di quello che considera il suo supremo testamento spirituale, la risposta musicale al suo credo: il fine ultimo del basso continuo e dei Contrappunti, dei Canoni, delle Fughe e di tutta la musica è la gloria di Dio.
 
Il progetto "L'Arte della Fuga" nato dalla collaborazione tra il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto "A. Belli" e alcuni conservatori musicali europei, è stato presentato a Bruxelles, alla Commissione Europea nel 1999 nell'ambito del Programma dell'Unione Europea "Azioni Sperimentali in vista del programma quadro europeo - Cultura 2000". Il progetto stabiliva che "in vista delle celebrazioni, nel 2000, del 250° anniversario della morte di J.S. Bach, fossero stanziate sovvenzioni volte al co-finanziamento di progetti che prevedessero la diffusione delle opere del grande musicista". Scelto tra oltre 70 progetti provenienti dalle massime istituzioni culturali internazionali, il progetto "L'Arte della Fuga" è stato riconosciuto Evento Speciale Europeo dell'Anno 2000.
Coordinato artisticamente da Luciano Berio e da Michelangelo Zurletti, direttore artistico del Teatro Lirico Sperimentale e per la parte tecnico operativa da Claudio Lepore, direttore organizzativo dell'Istituzione spoletina, il progetto si propone di "contribuire alla riscoperta in Italia e all'estero del repertorio bachiano e di stabilire un punto di contatto fra il repertorio del XVIII secolo e la musica contemporanea".
Il Progetto prevede che i diciotto Contrappunti dell'Arte della Fuga vengano trascritti con un organico cameristico variabile indicato da Luciano Berio, affidando il lavoro di trascrizione e rielaborazione ad alcuni dei più noti compositori contemporanei europei, oltre che a docenti ed allievi di composizione di cinque conservatori europei: Londra, L'Aia, Lione, Torino e Lipsia.
Dopo l'approvazione della Commissione Europea, il Teatro Lirico Sperimentale ha avviato la prima fase operativa del progetto con la sua presentazione, nel dicembre 1999, in una Conferenza Stampa svoltasi a Roma presso la sede della Stampa Estera alla presenza di Luciano Berio, dei rappresentanti dell'Istituzione e dei rappresentanti del Comune di Spoleto.
La seconda fase operativa si è svolta con il Convegno Internazionale di Studi "L'Arte della Fuga" di J.S. Bach, realizzato a Spoleto il 23 marzo 2000, presso la Sala Ermini del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo. Al convegno hanno partecipato studiosi dell'opera bachiana di levatura internazionale quali Alberto Basso, Hans-Eberhard Dentler, Alexander Lonquich, Alessandro Zignani e Riccardo Risaliti. Il volume degli atti del convegno è stato pubblicato dal Teatro Lirico Sperimentale nel febbraio 2001.
La terza fase ha riguardato la vera e propria trascrizione dei diciotto Contrappunti secondo la numerazione dell'edizione critica Bärenreiter (Johann Sebastian Bach, Die Kunst der Fuge, BWV 1080, a c. di H. Diener, Kassel 1956) con differenti organici strumentali, dai più tradizionali strumenti dell'orchestra classica, alla chitarra, al mandolino, alle voci e agli strumenti elettroacustici.
I Contrappunti I-XVII sono stati affidati a compositori quali: Louis Andriessen, Luis De Pablo, Aldo Clementi, Betsy Jolas, Fabio Vacchi, Fabio Nieder, Michele Tadini; ad allievi e docenti dei conservatori europei prescelti, quali: Christian Kram e Christoph Göbel, allievi della "Hochschule für Musik und Theater" di Lipsia; Diderik Wagenaar e Adam Falkiewicz, rispettivamente docente e allievo del "Koninklijk Conservatorium" de L'Aia; Chrostopher Branch, Nathan Williamson, Adam Melvin allievi e Andrew Schultz, docente della "Guildhall School of Music & Drama" di Londra; gli studenti Marcella Tessarin, Corrado Margutti, Andrea Ferrero Merlino e il docente Gilberto Bosco del Conservatorio "Giuseppe Verdi" di Torino; gli studenti Arnold Bretagne, Arhaud Boukhitine e il docente Lois Mallié. Luciano Berio ha riservato per sé l'incompiuto Contrapunctus XVIII.
L'organico orchestrale che eseguirà l'integrale dei diciotto Contrappunti, costitutosi con la sigla O.E.T.Li.S. (Orchestra Europea del Teatro Lirico Sperimentale), sarà composto da giovani strumentisti provenienti dai Conservatori europei che hanno partecipato al progetto. Il Centro Culturale Tempo Reale di Firenze curerà e realizzerà le parti destinate ai live-electronics.
Ai due concerti inaugurali in prima mondiale al Teatro Caio Melisso di Spoleto, seguiranno altre esecuzioni a L'Aia, Londra, Lione, sedi delle scuole musicali partecipanti.
 
L'ARTE DELLA FUGA
- Contrapunctus I - Louis Andriessen
- Contrapunctus II - Luis De Pablo - Bach 1626
- Contrapunctus III - Christian FP Kram
- Contrapunctus IV - Betsy Jolas
- Contrapunctus V - Fabio Vacchi
- Contrapunctus VI - Diderik Wagenaar - Halo
- Contrapunctus VII - Adam Falkiewicz
- Contrapunctus VIII - Christopher Branch, Nathan Williamson, Adam Melvin
- Contrapunctus IX - Andrew Schultz - Ash Fire
- Contrapunctus X - Aldo Clementi
- Contrapunctus XI - Marcella Tessarin, Corrado Margutti, Andrea Ferrero Merlino
- Contrapunctus XII - Rectus - Arhaud Boukhitine
- Contrapunctus XII - Inversus - Arnold Bretagne
- Contrapunctus XIII - Rectus/Inversus - Loic Mallié
- Contrapunctus XIV - Fabio Nieder - Das ewig Liecht
- Contrapunctus XV - Christoph Göbel
- Contrapunctus XVI - Gilberto Bosco
- Contrapunctus XVII - Michele Tadini - O Lamm Gottes unschuldig
- Contrapunctus XVIII - Luciano Berio - A Giuseppe Sinopoli, in memoriam
 
Esecuzioni:
- Spoleto - Teatro Caio Melisso - Prima assoluta - 31/5 - 1/6/2001
- Lyon - 4/6/2001
- Den Haag - 6/6/2001
- London - 8/6/2001


domenica, giugno 03, 2018

L'"Arte della Fuga" di Bach e i suoi ascoltatori

Die Kunst der Fuge
Contrapunctus 1
Probabilmente nessuna opera della letteratura musicale è stata accolta in modo cosi vario e ha avuto una fortuna altrettanto avventurosa come l’Arte della fuga, lavoro incompiuto della tarda maturità di Bach. Da principio nessuno ha messo in dubbio che si trattasse di un Klavierwerk, nel senso che si dava a questo terrnine nel Settecento, come di un’opera cioè destinata a strumenti a tastiera. Lo testimoniano in maniera inequivocabile una copia su due pentagrammi, proveniente dalla biblioteca di Anna Amalia di Prussia (che mostra traccie di un uso intenso), le offerte di copie di Johann Christian Westphal (Berlino 1774), di J.C.F. Rellstab del 1790/93, quelle del negoziante Viennese di musica Traeg del 1799, l’edizione parigina del 1802 di Naigueli/Naderman, la contemporanea edizione zurighese stampata a Parigi di Nägeli con la annessa riduzione per pianoforte e la copia di Schumann di una versione su due pentagrammi (del 1837) fino alla edizione per pianoforte di Czerny del 1838. Nessuna notizia abbiamo invece di "esecuzioni": l’esecutore era contemporaneamente anche l’unico ascoltatore.
Quando in seguito la musicologia cominciò ad occuparsi dell’opera, poco per volta il mutamento fu radicale. Nel 1841 Moritz Hauptmann scrisse il seguente brano, che sarebbe stato gravido di conseguenze: " ...l’opera ha però in primo luogo una tendenza diversa da quella puramente estetica: infatti vuole essere soprattutto un’opera didattica". Le sue Erläuterungen zu Joh. Sebastian Bach's Kunst der Fuge (Commenti all'Arte della fuga di J. S. Bach) ebbero larga diffusione - alla prima edizione del 1841 fecero poi seguito quelle del 1861, del 1881 e del 1925 -, ma purtroppo furono riportate ancora più acriticamente. La fonte originaria dell’affermazione di Hauptmann giunge attraverso il Bach dello Spitta (2° volume 1880), il libro di Schweitzer (edizione tedesca del 1908), il Bach di Parry, che definì i canoni "extremely abstruse jokes", fino al Bach dello Schering per il quale l'opera era un "diagramma grafico", ciò che poi il Blume avrebbe chiamato "opera grafica e rappresentativa". Infine, per trovare la nostra opera nello schedario della Bihliothèque Nationale di Parigi (e naturalmente anche presso coloro che vi hanno attinto, come Dufourq e molti altri), bisogna cercare sotto le "Oeuvres Théoriques".
E' certo che in via subliminare L'Arte della fuga non veniva "guardata" soltanto dal punto di vista analitico e critico, ma che si continuava anche a suonarla assiduamente, se non altro da parte dei numerosi acquirenti della edizione Czerny (fino al 1926: 38 ristampe in 20.295 esemplari!) e fra gli altri da André Gide, che negli anni dal 1921 al 1924 ebbe una consuetudine particolarmente intensa con l’Arte della fuga al pianoforte. Ma tutto questo accadeva per così dire "underground" e difficilmente avrebbe avuto l’approvazione dei "filosofi della musica", se fosse divenuto di pubblico dominio.
Doveva toccare al geniale errore di un sedicenne il compito di scuotere il mondo musicale: quando il 26 giugno 1927, dopo intrighi durati anni da parte dei curatori ufficiali delle opere di Bach, il lavoro, che non recava alcuna indicazione di strumenti, fu eseguito a Lipsia nella strumentazione per grande orchestra e nella disposizione di Wolfgang Graeser, risultò provata in maniera assolutamente inequivocabile "l’idoneità concertistica". L’impressione sugli ascoltatori dovette essere grandiosa. Felix Stössinger scrisse sulla Weltbuhne (1927): "Chi faceva parte del gruppo di circa 30 berlinesi che si recò il 26 giugno 1927 a Lipsia per i festeggiamenti in onore di Bach nella Thomaskirche, potrà in futuro dire: ’c'ero anch’io’. Ciò che è accaduto in questo giorno, appartiene da questo momento alla storia, alla leggenda sacra della musica". (pag. 59). "Un avvenimento più grande di questo non si è verificato da decenni nella vita artistica tedesca. Noi, che da questa sede abbiamo combattuto così spesso contro un falso nazionalismo e che ci siamo dovuti comportare quasi fossimo nemici dei tedeschi, siamo felici di poter ora riferire, in occasione di un avvenimento prettamente tedesco, che in esso è risorta la vera grandezza del cecchio, meraviglioso spirito nazionale. L’esecuzione è stata una funzione religiosa; ogni devota replica lo sarà nuovamente". (pag. 62).
E a proposito di una esecuzione dell’anno seguente a Kassel, Richard Laug mi scriveva in una lettera: "Mio padre fece suonare immediatamente dopo l’interruzione della quadrupla fuga il corale Vor deinen Thron..., che Bach ha composto successivamente. Al risuonare delle prime note del corale, senza fare alcun rumore e quasi fosse un sol uomo, tutto il pubblico si alzò in piedi, senza che questo comportamento fosse stato in qualche modo programmato oppure raccomandato, e ascoltò il corale in quella posizione. L'impressione che ne ricevetti fu impressionante e indimenticabile".
Karl Hermann Pillney, Erich Kraach e altri ancora hanno raccontato come a quel tempo si fosse diffuso tra i giovani musicisti un senso di colpa verso Bach e il suo grande capolavoro, e come ci si sentisse in obbligo di farlo conoscere al maggior numero possibile di ascoltatori. Ovviamente il grande organico impiegato da Graeser non era adatto allo scopo, per cui nacquero e proliferarono fino ai nostri giorni una quantità enorme di trascrizioni; per organo, per due pianoforti, per pianoforte a quattro mani, per archi, sia per il moderno quartetto d’archi sia per quello formato da violino, viola, viola pomposa e violoncello; per archi e quattro legni, per complesso misto da camera, fino ad arrivare a una versione per due sintetizzatori Moog. Se il fedelissimo di Bach venisse a sapere di una simile trascrizione per un quartetto di sassofoni, probabilmente sarebbe preso da un leggero raccapriccio, ma in ogni caso essa si rivelerebbe migliore dell’abituale genere in cui lo strumento è di casa. Nello stesso modo alcune di quelle trascrizioni sono condizionate dall’ambiente, come per esempio quella per Bajan, una specie di fisarmonica russa, di cui un virtuoso dello strumento, Eduard Mittschenko, dette notizia allo scrivente, informandomi che egli è solito suonarla soprattutto in ritrovi studenteschi e in circoli per lavoratori dove non c’è a disposizione un pianoforte. Potremmo indicare tutte queste trascrizioni, oltre centoquaranta sono quelle di cui potrei dimostrare l’esistenza, propriamente come adattamenti alle condizioni nelle quali gli ascoltatori potevano recepire l’opera. Si cercò di prestargli colore, ad esempio per mezzo dei registri dell’organo; si soppressero i canoni, che secondo un preconcetto di natura razionalistica erano creduti di difficile comprensione, oppure li si distribuì qua e la nell’opera come intermezzi. Agli ascoltatori furono d’aiuto anche le numerose esecuzioni parziali, che dovevano servire a introdurre a poco a poco nell’opera e che difatti sempre più lasciarono il passo alle esecuzioni integrali.
Se si scorre l’elenco delle molte migliaia di esecuzioni avvenute a partire dal 1927, ci si accorge immediatamente che fin dall’inizio importanti direttori come Straube, Weisbach, Scherchen, Hausegger, Abendroth, Münch, Kleiber, Stein, Weingartner, Szendrai, Stokowsky, Heger e Hoesslin, introdussero l’Arte della fuga nel repertorio complessivo. Vennero poi specialisti come Hermann Lahl, Hermann Diener, Hans Bender, che con i loro complessi portarono l’opera fin nelle più piccole citta, mentre dopo la guerra si ebbero centinaia di esecuzioni da parte di numerose orchestre da camera e di molti solisti, i cui viaggi abbracciavano continenti interi, come Karl Münchinger, Rudolf Baumgartner, Helmut Winschermann, Rudolf Barchai, Tatjana Nikolajewa. Stupisce l’apprendere che in una città come Novosibirsk l’opera fu eseguita per la prima volta soltanto il 4 aprile 1969 per merito dell’organista Johannes Ernst Köhler, ma che già il 21 maggio dello stesso anno fu ripetuta dall’Orchestra da camera di Mosca diretta da Barchai e il 12 maggio 1974 dalla pianista Nikolajewa. Nel 1935 in un articolo di fondo (!), il "Times" di Londra faceva espressa richiesta affinché l’opera venisse eseguita tutti gli anni; per quanto riguarda Tokyo, dove la prima esecuzione si ebbe nel 1941 ad opera di Klaus Pringsheim in una versione per orchestra da camera, ho potuto riscontrare a partire dal 1950 non meno di 29 esecuzioni (il numero effettivo potrebbe forse raggiungere una quota di un terzo più alta), che corrisponde a una media di almeno una esecuzione all’anno.
La storia dell’interpretazione dell’Arte della fuga non è assolutamente legata a una determinata generazione. Allorché l’organista di Francoforte Helmut Walcha dopo 37 esecuzioni si ritrasse dall’opera perché, come egli stesso mi confidò in una lettera, "un concerto di questo tipo pone delle esigenze tanto straordinariamente impegnative che le condizioni della mia età non sono più in grado di assolverle", egli fu per cosi dire "rilevato" dal giovane violinista di Francoforte Hubert Buchbinder, che nel 1977 ne dette ripetute esecuzioni con la sua orchestra da camera con risultati assolutamente convincenti.
Allo stesso tempo 1’Arte della fuga pone delle pretese assai grandi anche all’ascoltatore. Il fatto che si tratti di circa 90 minuti di musica in Re minore e su un solo tema, sembra richiedere un prezzo eccessivo anche dall’ascoltatore più armato di pazienza. Ma la magistrale tecnica della variazione di Bach da al tema sempre diversi aspetti, mentre il suo stile armonico, che precorre i tempi di almeno un secolo, per lunghi tratti annulla sempre in modo nuovo la tonalità: nelle fughe a più soggetti in fin dei conti all’ascoltatore viene dato modo, per così dire, di riposarsi del tema. Nonostante tutto, però, nell’Arte della fuga ci sono molti punti che non possono essere seguiti solo ascoltando, come per esempio il Canone per Augmentationem in Contrario Motu. Chi dal punto di vista strutturale pretende di averlo udito nel modo giusto per se stesso, in realtà implicitamente ammette soltanto di averne letto in precedenza il titolo; pare, si tratta di una musica grandiosa soprattutto per chi non sa niente delle "regole". Lo stesso vale anche per le fughe per moto contrario: nel Contrapunctus VII è impossibile seguire al semplice ascolto lo spessore della composizione. Il tema originale e quello per moto contrario si succedono in tre differenti unità di valore: mentre al basso si ha alle misure 5-13 l’aumentazione, su di esso risuona per quattro volte il tema o frammenti di esso in valori diminuiti. Ciò però che l’ascoltatore apprende molto bene, pur senza esserne cosciente mentre ascolta, è la incredibile concentrazione di questa musica, come ha ben detto Albrecht Goes: "Che cosa siano diminuzione, aumentazione, voce principale e voce secondaria, non l’ho imparato subito; ciò che invece ho imparato è che cosa significhi concentrazione". Il fatto di richiedere alla persona competente un’analisi che non sa trovare fine, mentre invece anche il semplice amatore è messo sulla strada della comprensione nel modo più naturale grazie alla concentrazione del linguaggio, sembra essere un mistero inerente all’Arte della fuga". Un appassionato di dischi di Karlsruhe ha formulato durante una conversazione questo concetto in modo conciso quanto convincente: "Arte della fuga? Non c’è proprio un bel niente da capire. Mi basta mettere un disco e sono di colpo trasportato in un altro mondo".
Di fronte a una simile vitalità dell’ascolto nell’opera bachiana, la critica ha sempre di più continuato a fallire. Johann Christian Lobe nei primi decenni della Bach-Renaissance ha dato lo spunto per questo tipico atteggiamento: "Per quanto i bachiani possano adoperarsi per strappare a questi corpi inanimati una contrazione galvanica, mai e poi mai essi rinasceranno a nuova vita per il nostro tempo".
In seguito alle prime esecuzioni si levarono poi voci come quella di Martin Friedland: "Nessun dubbio può sussistere sul fatto che questa Arte della fuga non è stata pensata né per una esecuzione né tanto meno per una esecuzione completa e tutta di seguito... Una simile proposta di tutti questi 20 pezzi, in complesso 2 ore e mezzo di musica, a causa della tonalità stessa e della omogeneità della struttura compositiva contrappuntistica che fa si che la facoltà di appercezione rimanga continuamente in tensione, non è  niente affatto un godimento; essa è - abbiamo una buona volta il coraggio di dire la parola che tanto dispiace - uno snobismo della più bella specie".
Max Chop, un tempo il più feroce critico berlinese, si servì della opportunità di una esecuzione in concerto per attaccare violentemente Erich Kleiber: "Erich Kleiber, il nostro Generalmusikdirector, ha creduto che la sua ambizione e l’interesse dei suoi ascoltatori meritassero l'offerta di una occasione particolarmente ghiotta. Così i suoi occhi sono caduti su un’opera di quasi 200 anni fa e che solo oggi
festeggia una sorta di resurrezione, l’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach... A questo punto prima di tutto al sottoscritto sorge spontanea la domanda se la monumentale opera di Bach sia adatta a un concerto sinfonico oppure no. Se veramente sia lecito presentare al pubblico che frequenta queste manifestazioni una interminabile serie di esperimenti e di prove teoriche che durano più di due ore e che strapazzano al massimo la tensione degli ascoltatori addentro alle cose musicali, mentre rendono completamente esausti i profani appassionati di musica. Se non si finisca per essere simili al predicatore, che coi suoi lunghi sermoni fa il vuoto nella sua chiesa".
E sullo stesso concerto un anonimo scrisse: "Una temerarietà della disonestà artistica, che non si ferma nemmeno di fronte a cose meramente tecniche, della più alta teoria musicale! Le diciannove fughe e canoni di questo compendio pur grandissimo e ricco d’ingegno della più severa disciplina contrappuntistica, sono materia che appartiene allo studio. Soprattutto non vogliono essere ascoltate dal pubblico che abitualmente frequenta i concerti".
Qui si faceva ricorso a un trucco particolarmente usato dalla critica, vale a dire tirare in ballo a un certo punto il "pubblico che abitualmente frequenta i concerti" per avallare la propria incapacità nell’ascoltare una musica. Ma questo pubblico non si è affatto comportato in seguito nel modo che il critico da lui pretendeva.
In tempi più recenti più volte Adorno ha preso di mira gli ascoltatori di Bach come i suoi interpreti. Per 1’Arte della fuga egli ha parlato di "inadeguatezza della sonorità dell’organo in quanto tale alla struttura infinitamente articolata di queste opere", che "in esse già allora venne in luce". Bach avrebbe "rinunciato a dar loro una precisa veste sonora, lasciando che le sue più mature composizioni strumentali attendessero dopo la sua morte una realizzazione sonora adeguata". Ma il modo in cui Ludwig Pinscher in una trasmissione della Hessischer Rundfunk intitolata "Bach-Weekend" ha citato Adorno, dimostra la profonda influenza delle sue argomentazioni: "... o se - come supponeva Adorno - soprattutto il Bach tradizionale è diventato ininterpretabile, ciò significa che l’opera è consegnata soltanto alla interpretazione di tipo compositivo, una interpretazione cioè che... va alla ricerca delle possibilità che si aprono e che nascono quando tutte le tradizioni e tutte le convenzioni del passato sono venute meno". Ma cosa vuol dire che "il Bach tradizionale è diventato ininterpretabile? Adorno "preso alla lettera" ha soltanto sostenuto che per lungo tempo gli esecutori hanno potuto comunque interpretare il testo musicale bachiano basandosi sui portati della tradizione - ora bene, ora meno bene -, mentre invece gli interpreti attuali non sarebbero più in grado di farlo. Che cosa hanno da dire a questo proposito gli odierni interpreti di Bach oggi? E gli ascoltatori? un simile tirarsi in disparte della musicologia rispetto alla pratica musicale è in ogni caso sorprendente. Proprio nell’epoca in cui le affermazioni intenzionalmente alquanto oscure di Adorno furono molto ammirate, si è verificato, per ciò che concerne l’Arte della fuga, un aumento che non era sembrato quasi possibile della interpretazione e del suo apprezzamento da parte degli ascoltatori.
Infine, alcuni studiosi del comportamento musicale, che agiscono falsamente sotto la bandiera della musicologia, si sono occupati criticamente del problema degli ascoltatori dell’Arte della fuga, anziché rallegrarsi della loro esistenza in numero così cospicuo. Carl Dahlhaus, portando avanti le tradizioni nate con Adorno, ha trattato la questione della "popolarità della tarda opera di Bach" e concluso che tale popolarità è un "paradosso". Egli dice testualmente: "Quando però centinaia di individui si raccolgono per ascoltare un ciclo di canoni e di fughe, è lecito parlare di popolarità, anche se ognuno preso singolarmente si sente un esoterico". L'effetto dell’opera, sempre secondo Dahlhaus, è dovuto a quattro motivi: il fascino dell’arcaico; la tendenza all’astratto, al difficile e all’inconsueto; l'assoggettamento a una disciplina musicale che si percepisce come una forza costrittiva anche se la si comprende soltanto per metà; la diffidenza verso l’apparenza estetica nella musica.
Da allora in poi ho riflettuto, dopo diverse esecuzioni dell’opera, sugli ascoltatori che conoscevo o su quelli che potevo osservare da vicino. Stranamente non ho trovato nessuno che potesse essere adattato a una delle quattro categorie di Dahlhaus, perché tutti appartenevano a una quinta categoria, che evidentemente si trova al di fuori dell’orizzonte di Dahlhaus, e cioè al grosso numero di coloro che non volevano far altro che ascoltare musica della migliore qualità. Il complicato ragionamento di Dahlhaus ha molto semplicemente attribuito ad essi le sue proprie ragioni. Egli crede veramente che a Novosibirsk uno si rechi e ritorni più volte al concerto soltanto per sottoporsi a qualcosa di completamente arcaico, astratto, per assoggettarsi a una disciplina che per di più egli comprenderebbe soltanto per metà? Oppure che forse gli esoterici di un circolo di lavoratori russi si riuniscono per ascoltare l’Arte della fuga in nome della diffidenza verso l'apparenza estetica della musica? Nelle sue argomentazioni sbaglia per difetto, e allora davvero si preclude la possibilità di capire l’ascoltatore, che è ingenuo nel senso migliore del termine, ma che proprio in questo suo atteggiamento anno dopo anno si apre alla vita della musica, senza sapere grazie a Dio niente di tutti i motivi cosi capziosi di Dahlhaus. Per questo tipo di ascoltatore gli interpreti continueranno sempre a far musica, in barba al verdetto pregiudiziale di Adorno.
 
Walter Kolneder (tr. Sergio Sablich)
("Nuova Rivista Musicale Italiana", Aprile/Giugno 1977, n.2)

mercoledì, dicembre 07, 2005

Bach e Borciani: L'arte della fuga (I)

Puntualità giornalistica vorrebbe che aprissimo questa pagina di musica parlando dell'Andrea Chénier di Umberto Giordano, opera che venerdì sera ha dato il via alla stagione dell'Arena di Verona. Vorrebbe che parlassimo della bacchetta di Gelmetti, delle voci di Carreras, di Bruson e della Caballè , dei costumi, della regia e scenografia di Attilio Colonnello, quindi dei fremiti guizzati nella folla all'ingresso di "Sua grandezza la Miseria". Poi di altro, che non è il caso di specificare.
Ma questa settimana ci siamo concessi una pausa. Per vari motivi che, sommati, ci sono parsi degni di nota. E del fatto ci scusiamo ricordando il nome del musicista a cui abbiamo dedicato attenzione: Johann Sebastian Bach. Quindi evidenziando la notizia: ha visto la luce da pochi giorni una nuova interpretazione dell'Arte della fuga, l'ultima opera del sommo Kantor, che i cataloghi riportano con la sigla BWV 1080. Infine ricordando la particolarità: si tratta di un'edizione a tiratura limitata, incisa dalla Fonit Cetra per l'Associazione Sergio Dragoni (ha sede in Milano in via S. Antonio 12, e istituisce borse di studio e premi per i giovani musicisti). Pochi gli album "tirati" e contenenti i due Lp: 500 per la ricordata associazione e 1200 per la Società del Quartetto di Milano.
La notizia - che non abbiamo ancora snocciolato totalmente - non sarebbe di primaria importanza se la trascrizione non fosse stata fatta per quartetto d'archi da Paolo Borciani. Si tratta di un lavoro che il violinista del Quartetto Italiano ha redatto come un testamento poi l'ha eseguito affiancato da Elisa Pegreffi e dei giovani Tommaso Poggi e Luca Simoncini. Ovvero da un altro violino, da una viola e da un violoncello. La registrazione è avvenuta il 3 maggio 1985 alla Sala Piatti in Bergamo. Poco dopo Borciani moriva.
L'Arte della fuga di Bach è una di quelle opere che basterebbero da sole a qualificare un millennio. Rimasta incompiuta per la morte del maestro, senza indicazioni per l'esecuzione, senza un titolo (Die Kunst der Fuge è posticcio), essa si spegne con la notazione musicale tedesca "B.A.C.H.", cioè con le note Si bemolle, La, Do, Si. E' il terzo tema dell'ultima fuga. Il nome del musicista appare nella battuta 194 alla battuta 234 lo sviluppo della fuga cede il posto al silenzio.
Sentendo l'esecuzione, siete tentati di inseguire il movimento mentalmente vi immaginate la fuga a 4 temi che si rivolta in ciascuno delle quattro parti, chiudendo un'opera difficile, ermetica. Un'opera che pare concepita per allenare lo spirito agli abissi dell'eterno, lontano da ogni sentimento didattico. Ma il tema, poi, non lo sentite spegnersi dolcemente. Una linea sonora cade di colpo. La Morte parla così.
Che cos'è dunque Die Kunst der Fuge? Hauptmann nel 1841 la definiva dotata di "freddezza grandiosa" Spitta nel suo monumentale lavoro su Bach parla dello svolgersi di queste note come della "calma solenne della notte invernale" Basso nella seconda parte di Frau Musika ritiene che essa sia "prima di tutto il manifesto dell'ars subtilior, della musica che assottigliandosi, riducendosi all'essenziale e all'indispensabile mirando al delicato e all'intimo, si fa silenzio, si organizza in una forma talmente pura che il suono pare inafferrabile, ineffabile..." (ed. Edt, p.719). Ma questa arte è forse qualcosa di più.
In essa la scrittura si spoglia da ogni elemento che possa significare la gioia fonica dei sensi, da tutto ciò che lega le note e la nostra carne a questa terra. L'esposizione dei motivi immerge l'ascoltatore in un labirinto sempre piu' ardito, lo getta da vette ed egli non riesce a toccare un fondo, lo disperde nei deliqui di un linguaggio totale. Le singole voci, cioè le parti strumentali, intervengono una dopo l'altra disegnando il tema nel momento stesso in cui la precedente ha finito di intonarlo. E così la voce iniziale viene ripresa, ma a sua volta procede oltre qualcuno le risponde mentre essa va altrove. Alle domande in Do incalzano risposte in Sol, ma il gioco non cessa. Entra una terza voce, che riprende il tema quindi una quarta, che prosegue poi vi sembra di sentirne una quinta, che continua ad aprire brecce e cunicoli nel labirinto dove ormai l'ascoltatore, se non ha particolari calli e astuzie, si è gia' smarrito.
Bach, come nota il Ghislanzoni nella sua Storia della fuga, "intese mostrare tutte le possibilità di trasformazione e di sviluppo in 15 fughe". Con Die Kunst der Fuge il Kantor lasciò il più aristocratico dei testamenti, confessandosi con un enigma che gli altri non potevano capire. Prova ne è che l'opera, quando venne messa in vendita a 5 talleri, dopo la sua morte, andò praticamente invenduta. Friedrich Wilhelm Marpurg, uno dei più noti e apprezzati teorici del tempo, tentò con una prefazione di diffondere la somma partitura. Il prezzo venne abbassato a 4 talleri, ma dopo quattro anni e mezzo - correva il settembre 1756 - se ne erano vendute soltanto trenta copie. Con i talleri ricavati non si riuscì neppure a pagare la spesa per le lastre di rame occorrenti per le incisioni (chi volesse approfondire il triste andamento, puo' consultare a p.683 i Dokumente zum Nachwirken J.S. Bach, 1750-1800, editi nel 1972 quali terza parte dei Bach-Documente).
Ma torniamo a Borciani. Questa trascrizione e la successiva esecuzione confermano il suo grande talento e il magistero di cui fu capace. Dai quattro strumenti ad arco nasce un'Arte della Fuga che ci invita alla più intima delle meditazioni. Forse questa interpretazione non farà fremere al pari di quella di Hermann Scherchen, nè possiamo considerarla ascetica come quella tentata al clavicembalo da Leonhardt, ma è certo che da esse non prenderemo più congedo. Rimarrà, risolta con un quartetto (impensabile al tempo di Bach), accanto alle letture migliori di questo frammento dell'assoluto, di questo labirinto simile ad un cosmo, dove le note aprono continuamente voragini, che l'anima percorre accecandosi con suoni e messaggi.
Julius Schlosser ricorda in un suo studio del 1929 dedicato a Leon Battista Alberti, Ein Kunsterproblem der Renaissance, che questo artista definiva le proporzioni dell'architettura con l'espressione "tutta quella musica". Potremmo rovesciare la concezione: questo testamento di Borciani svela "tutta quella architettura" che Bach ha scolpito nelle note. Peccato che manchi il tocco finale del Kantor.
Peccato che la Morte frequenti sempre i supremi colloqui che le anime rare tentano con il tutto.

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 06/07/1986)

lunedì, dicembre 05, 2005

Bach e Borciani: L'Arte della Fuga (II)

Proprio come dice una nota nell'album, "L'Arte della Fuga" è l'ultima grande opera di J.S. Bach, rimasta incompiuta: la mano dell'autore si è fermata laddove il suo nome (B.A.C.H., notazione musicale tedesca per Si bemolle, La, Do, Si) figura come terzo tema all'ultima fuga. Sì chiude così un capolavoro che, considerato per anni un saggio, seppur altissimo, di maestria contrappuntistica, rivela alla nostra sensibilità d'oggi una profondità di espressione, una ricchezza di idee, momenti di lirismo e di drammaticità straordinari. La sua conclusione, che per la morte del Maestro vede spegnersi il suono di tre voci che sembrano sul punto di svelare col loro canto il mistero dell'infinito, è somma tragedia."
E, proprio come dice un'altra nota sull'album, firmata questa da Paolo Borciani, "Per questo omaggio a J.S. Bach i due violinisti del Quartetto Italiano hanno invitato il violista e il violoncellista del Giovane Quartetto Italiano, che tale nome ha assunto perché formatosi alla scuola di quell'indimenticato complesso. Quasi una staffetta ideale, per onorare un sommo musicisita, nel ricordo di un Quartetto che per 35 anni ha onorato il nome d'Italia nel mondo".
Il Concerto con l'Arte della Fuga fu eseguito alla Scala ed altrove, nel 1985, e la registrazione è della serata di Bergamo, alla sala Piatti. Pochissimo tempo dopo, Paolo Borciani, che da tempo era ammalato di tumore e lo sapeva, morì. Il disco è dunque anche un testamento, una testimonianza altissima, un documento struggente. Proprio per rispetto dunque a tanta arte e tale circostanza, e nell'affetto verso un'Associazione, che ce lo presenta, che porta il nome di Sergio Dragoni (uomo d'altissima nobiltà morale e di provvido talento nella musica, ascoltatore e consigliere, figura umana inimitabile - e, per noi di Musica Viva, primo abbonato al primo annuncio che la nostra rivista sarebbe uscita), non mi sembra opportuno infarcire di considerazioni universali la recensione, ma piuttosto cercare di dare qualche indicazione a mio avviso utile per ascoltare l'interpretazione.
L'Arte della Fuga non è un pezzo di intrattenimento, e nemmeno di coinvolgimento. Non ha per sua legge che il proprio svolgimento interno. Ma non inteso come germinazione naturale, con uno sviluppo, come un albero; piuttosto inteso invece come una raccolta di itinerari accostati. Come già il Clavicembalo ben temperato, sia pure in modo diverso, è una specie di trattato, di prestigiosa scommessa su tutto quanto si può fare con un assunto musicale. Non vive dunque per nulla sul tempo psicologico dell'ascoltatore, né su di una trama interna che significhi un cammino: ogni volta, idealmente, l'ascoltatore torna indietro al punto di partenza, e somma mentalmente, stupefatto e interessato, anche questa esperienza alle altre. Nell'osservare tutto quanto si può fare con un tema, nella mirabilia del contrappunto, si commuove alla ricchezza, con spirito d'avventura ha voglia di ripartire per accumularne altra; ma resta impegnato in una continua decifrazione mentale per raffronti, e in una serie di delizie o acquisizioni. Compito di chi si assume la scelta degli strumenti, non indicati da Bach che scrisse la partitura in astratto, è prima di tutto dare la percezione dei diversi percorsi delle singole "voci" che danno vita alle diciotto combinazioni; e poi sintonizzare il lungo tempo che chiede l'esecuzione, non meno di un'ora e tre quarti, con il tempo psicologico dell'ascoltatore.
La scelta di Borciani è nel primo caso riduttiva: quasi una scommessa sulla scommessa di Bach, perché i quattro timbri degli strumenti d'un quartetto d'archi non differiscono molto tra loro, e rendono pertanto difficile la decifrazione volta per volta delle singole voci; da questa restrizione d'ambito, però, nasce l'impegno ad un necessario virtuosismo nel tenere il rispetto delle quattro parti con evidenza; e il virtuosismo dà un fascino ed una tenuta esecutiva che moltiplica l'attenzione e la capacità di lettura di chi ascolta. Borciani confidava evidentemente nella capacità dei giovani strumentisti di tenere la tensione e la coerenza ad alto livello; e a buon diritto, visti i risultati, anche se ad una fase di decantazione meno assoluta dei due violini famosi, così che una certa passionalità impaziente o vistosamente trattenuta nelle parti gravi si contrappone talora alla sintesi perfetta di sensibilità e di rigore, e di pudore, delle parti acute.
In ogni caso, non solo tutti suonano bene, ma si sente quel suono tipico di Borciani, che nulla concede a ciò che non è essenziale al fraseggio, un suono per certi versi analogo all'asciuttezza e alla densità di Giulini e per altri versi alla determinazione di Pollini, assolutamente imparagonabile ad altri negli archi.
Quanto invece al percorso interpretativo, la scelta di Borciani e compagni è radicale: subito tutto, e sempre tutto. Non ci sono gradazioni, non ci sono aiuti per noi: ogni "Contrapunctus" viene eseguito esattamente come se fosse un frammento. Da qui, nasce una difficoltà per chi sta seguendo lo svolgersi del concerto, che viene caricato di doveri, quasi da prova iniziatica, con quel carattere che unisce insomma la percezione della grandezza alla tentazione del sopore.
Non è questione di noia, è tutt'altra cosa, intendiamoci; ma insomma è un'esperienza faticosa, e in certo senso immotivata. Consiglio chi non abbia congeniale, le grandi maratone nella musica più austera e gloriosa di spezzare tranquillamente l'ascolto. Però se regge potrà avere un'emozione molto fonda dopo circa un'ora e un quarto, quando l'alta commozione comincia a pervadere gli interpreti. Il carattere esoterico, certamente presago d'addio, di quest'opera immensa, li prende, e, anche per la coincidenza sofferta della fine vicina dell'amato e schivo primo violino, una gravità desolata, più misteriosa della tristezza, più difficile da esprimere e pur inevitabile, possiede la loro anima, le loro mani.
E' impressionante l'attacco del XVI Contrapunctus, col violoncello, e la costruzione con la risposta degli altri, fino a quell'entrata del violino primo con la quartina ascendente, variante del tema principale, che pare memore di altri "re minore" felici di Bach, come quell'oboe nell'adagio del Primo Concerto Brandeburghese e memore insieme di tant'altre tenerezze e nostaglie, che non si lascia però vincere.
E' un punto d'arrivo dell'esperienza musicale quel finale interrotto, dove misuriamo qualche grande merito della nostra cultura, che nel gesto dell'interrompere la partitura vediamo una verità, una creazione e una rivelazione, là dove fino a non molti decenni fa, in tempi considerati più creativi, si sentiva il disagio improponibile della cosa non finita. Anche questa fiducia nella capacità di chi ascolta è un segno distintivo del Maestro Borciani, della Signora Pegreffi con i loro giovani discepoli, in quest'incisione; ed una irripetibile sensazione ái orgoglio ci si comunica, alla fine dell'ascolto.

recensione di Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno X n.7/8, luglio/agosto 1986)

L.A.

sabato, ottobre 08, 2005

Gustav Leonhardt e L'Arte della Fuga (II)

".. Un'opera pratica e stupenda" - Mattheson, 1752; " ... io sono sicuro, che colui il quale vorrà capirne l'intera bellezza, avrà bisogno di tutta la sua anima, e ancor più, se desidera suonarla lui stesso." - J.M. Schmidt, 1754; " ... la più perfetta delle fughe" - Carl Philipp Emanuel Bach, 1756. L'Arte della fuga fu ritenuta fino al nostro secolo un'opera pratica per pianoforte: così sostengono per esempio Czerny, Storck, Spitta. Ma durante gli ultimi 50 anni l'opera è stata avvolta nel velo del mistero. La - malintesa - notazione della partitura senza indicazione degli strumenti, ha dato motivo di sottolineare l'aspetto "astratto e dematerializzato" in quest'ultima opera dell'anziano, "solitario" Bach. Poichè L'Arte della fuga, nonostante i numerosi articoli comparsi in riviste specializzate, e curati da musicologi come Handschin, Husmann, Kinsky, Müller, Rietsch, Steglich e Tovey, continua ad esistere nella nostra vita musicale come un'opera non strumentata dall'autore (le tante elaborazioni e strumentazioni ne danno testimonianza), ci proponiamo di avvicinarci ad essa, per una volta, nei termini musicali del secolo XVIII e con particolare riguardo alla sua struttura sonora.

I. CONFUTAZIONE DI POSSIBILI OBIEZIONI ALL'ESECUZIONE AL PIANOFORTE
l. La notazione della partitura
La notazione di una partitura di musica polifonica per pianoforte (organo, clavicembalo ecc.) era tradizionale. La seguente lista di opere stampate dimostra questa usanza, più regola che eccezione. Soltanto nel caso di Froberger e Poglietti si tratta di manoscritti, ma lussuosi e di carattere ufficiale, provvisti di dedica:
Valente 1580
Trabaci 1603,1615
Mayone 1603,1609
Frescobaldi 1608,1615,1624,1628,1635,1645
Guillet 1610
Coelho 1620
Titelouze 1623
Scheidt 1624,1650
Cavaccio 1626
Steigleder 1627
Klemme 1631
del Buono 1641
Salvatore 1641
Froberger 1649-1656
Scipione 1652
Roberday 1660
Scherer 1664
Battiferri 1669
Buxtehude 1674
Fontana 1677
Poglietti 1677
Kerll 1686
Strozzi 1687
Casini 1714
della Ciaja (1671-1755), opus 4
Bach stesso si colloca in questa tradizione internazionale, annotando in una partitura a quattro righi la quarta variazione dell'edizione a stampa (1747 o 1748) delle Variazioni canoniche su "Dagli alti cieli" ("Per l'organo"). La stesura autografa dell'opera presenta questa variazione su tre pentagrammi. Un simile contrasto tra notazione "casalinga" e quella di partitura ufficiale si trova nelle due versioni del Ricercar a sei voci dalla "Offerta musicale" del 1747, anche questo composto nell'antico stile classico. Quest'opera viene designata per pianoforte, a causa dell'occasione stessa per cui fu composta (anche la "Allgemeine deutsche Bibliothek"'di Nicolais, 1788, qualifica l'opera "per 16 voci manualiter"). Nel 1752 compare una seconda edizione de L'Arte della fuga, immediatamente successiva alla prima: questo indica, secondo me, successo, e non quel triste misconoscimento, in cui il romanticismo ama tanto vedere i suoi eroi. Qui W.F. Marpurg, che ne curò l'introduzione, sottolinea: "Un gran vantaggio di quest'opera è il fatto, che tutto quanto in essa contenuto è scritto nella partitura". Se si trattasse di un'opera per ensemble, questa osservazione sarebbe superflua. Ha soltanto senso, se si considera, che la maggior parte della musica per pianoforte, che attorno al 1750 non era affatto polifonica, veniva annotata su due pentagrammi, mentre L'Arte della fuga continua l'antica tradizione della polifonia nella musica per strumenti da tasto e la presenta chiaramente allo studente di contrappunto. Mattheson scrive nel 1752: "La cosiddetta Arte della fuga di Joh. Sebastian Bach ... stupirà un giorno tutti i compositori di fughe italiani e francesi; perché la sapranno seguire e capire, ma forse non suonare...". In verità, ogni italiano o francese è in grado di suonare una singola voce de L'Arte della fuga; secondo Mattheson pare che sorgano problemi per l'esecuzione ad opera di un solo suonatore.

2. Misura 77 di Cp 6
Non è possibile suonare il quarto tempo di questa misura a due mani. La stessa impossibilità - sempre con pedale nel basso! - si riscontra per esempio nelle opere per pianoforte: Il Clavicembalo ben temperato I (Cbt I), fuga in la minore, fine; cadenza del quinto Concerto brandeburghese, battuta 192.

3. Casi particolari: Cp 4, misura 35; Cp 5, misure 41 e 60; Gp 9, misura 94
Qui si incontrano su una stessa nota due voci, di cui una, come fine della frase, possiede un valore più breve dell'identica nota dell'altra voce. Eppure, nonostante tutto, tale notazione non parla contro l'utilizzazione di uno strumento da tasto, dato che Bach annota spesso allo stesso modo in altre opere per pianoforte, per esempio: Cbt I, fuga in do maggiore, misura 11; fuga in do diesis minore, misura 38, preludio in fa minore, misura 3; Orgelbüchlein, "Christe Du Lamm Gottes", misura 4, Clavierübungen III, grande "Water unser", misura 13.

II. ESCLUSIONE DI STRUMENTI DIVERSI DA QUELLI DA TASTO
1. L'estensione delle singole voci
Basta uno sguardo all'estensione dei contralto (discendente fino al si maggiore) e del tenore (discendente fino al sol maggiore) nelle prime dodici fughe, per constatare che nessuno dei pur ricchi organici strumentali, a cui ricorre Bach, è adatto a L'Arte della fuga. Ogni strumentazione deve utilizzare gruppi di strumenti completamente anacronistici. Inoltre nessuna voce ha un suo specifico "volto" strumentale. Questa mancanza di caratterizzazione può spiegare la grande differenza nei tentativi di strumentazione. Il libero uso che Bach fa dell'estensione delle voci nelle fughe per pianoforte si evidenzia, oltre che in molte altre, nella fuga in fa minore del Cbt I. L'estensione delle voci nei canoni supera di gran lunga quella di ogni strumento melodico dei tempi di Bach: per esempio: Cp 15 voce superiore re1 - si bemolle4; Cp 16 voce inferiore re1 - si bemolle3; Cp 14 voce inferiore Si Si - do4.

2. Fughe
Non derivate da un'ouverture - che attaccano liberamente con soprano, contralto o tenore, in Bach sono soltanto per strumenti a tastiera. Le fughe per complessi vengono accompagnate da una voce di continuo, dapprima non tematica.

3. Incrociamento delle parti di tenore e basso
L'Arte della fuga si serve spesso di tali incrociamenti; musicalmente il tenore diventa basso. La parte del basso, dunque, non può esser rinforzata da un violone; questo almeno esclude un organico orchestrale. Si può accennare en passant che da ciò dipende tutto il problema della presenza di uno strumento di continuo in un'esecuzione d'ensemble.

4. Le chiavi
Se Bach avesse scritto L'Arte della fuga per complessi, la partitura sarebbe stata normale e pratica. Invece non è pratica, perché Bach non usa mai la chiave di soprano per flauto, oboe, violino; mai la chiave di contralto per secondo violino e simile; mai la chiave di tenore per viola e così via (che le estensioni delle voci non siano affatto adatte, è già stato detto). Tuttavia le chiavi adoperate erano da secoli in uso nella polifonia classica e, naturalmente, nei suoi movimenti di danza! (vedi anche parte I, punto 1).

III. CARATTERISTICHE DELLO STILE DI PIANOFORTE
l. Eseguibilità
Già il fatto, che l'intera Arte della fuga sia stata scritta in modo da poter essere eseguito tutta con due mani (le fughe a specchio verranno prese in esame in seguito), dovrebbe indurre alla constatazione, che Bach, nella stesura di quest'opera, ha sempre pensato ad uno strumento da tasto. Ci si rende conto della grandissima importanza di questo fatto, quando si tenta di eseguire a due mani al pianoforte un'opera per complesso di Bach: è impossibile. L'eseguibilità alla tastiera era dunque un fattore, di cui Bach tenne sempre conto nello scrivere L'Arte della fuga; s'impose volontariamente e consciamente tale restrizione spesso spiacevole e, per questo, fu pronto ad accettare piccole illogicità.

2. Accorciamenti delle note finali delle frasi per renderle eseguibili
Esempi: Cp 4, misura 88, contralto (vedi misure 90 e 93); misure 94 e 96, basso (vedi la figura con minima finale nelle misure precedenti); misura 116, basso
(semiminime invece di minime). L'unica ragione di i queste inconseguenze sta nell'eseguibilità e nella volontà di evitare scarti eccessivi. Cp 1l, misura 18,
basso: normale sarebbe stata una minima. Si tratta di un'abbreviazione per via di eseguibililtà: la voce di contralto fa-mi-fa può esser suonata solo con la mano sinistra, che per questo deve lasciare il basso. Misura 52, tenore: la ridicolmente breve croma finale è da spiegare solo per necessità tecniche al pianoforte. Una simile prassi pianistica ricorre spesso nelle suites per pianoforte, nel Clavicembalo ben temperato e nelle opere per organo.

3. Aumento dei numero di voci nelle ultime misure
Si tratta dei Cp 5, 6, 7 e 1l. Nella sua musica per complessi Bach non si prende mai la libertà di tali "divisi" momentanei o della prassi di doppia corda. Ciò accade invece diverse volte nella sua musica per pianoforte: p.es. Cbt Il, fughe in do maggiore, re diesis minore, la bemolle maggiore. Si confronti anche la quarta variazione, annotata in partitura, della stampa delle Variazioni canoniche su Dagli alti cieli, dove nell'ultima misura si raddoppia il contralto.

4. Particolarità dello stile di pianoforte
Cp 2, misure 5-6 (e tanti altri luoghi simili in seguito), basso. Le legature sono eseguibili solo da un suonatore, che trova un appoggio ritmico in un'altra voce. Un suonatore di complesso in questo punto ha l'impressione di slogarsi il piede; perciò non lo troveremo mai in musica per complesso. L'Arte della fuga mostra altri luoghi simili in Cp 6, misura 11, tenore, e misure 70-71, tenore, Esempi nella musica per pianoforte: Cl.Üb. III, piccolo "Wir glauben" misure 13-14; Partita in mi minore, sarabanda, misura 15. Cp 4, misure 85-86, tenore: una linea musicale assurda, vergognosa per Bach, qualora avesse voluto proporre ad un musicista una voce così miserevole. Questo luogo va inteso però come composizione per pianoforte, dove la polifonia apparente costituisce uno dei mezzi preferiti per raggiungere morbidezza sonora: soprano e contralto si sentono insieme nel momento in cui spira il suono di cembalo così nella misura 86 si realizza un bell'effetto di eco. Fra le centinaia di esempi analoghi nella letteratura per pianoforte bachiana voglio citare soltanto: Suite francese in re minore, allemanda, misure 34; Sonata in re minore, 2° movimento, misure 101-102 (si confronti la forma primitiva di questa pianistica polifonia apparente nella corrispondente misura della Sonata per violino solo in la minore); Fantasia (e Fuga) in la minore, misura 65; Cbt II, preludio in mi maggiore, misure 39-40 (contralto). Cp 6, misure 40-41 (ibidem 62-63). Accade spesso con gli strumenti da tasto che un pezzo a due voci, con le parti in posizione lata (che si muovono cioè a grande distanza l'una dall'altra) si arricchisca di ulteriori due voci (cfr. per es. Cbt II, fuga in la bemolle maggiore, misure 16-18; 46-47). In esecuzioni di complesso tali luoghi suonano noiosi. Cp 7, misura 58, contralto e tenore: le legature sarebbero innaturali per il musicista di complesso. Tuttavia il contralto, con l'immediatamente seguente secondo soprano, realizza un bel passaggio con le note dell'arpeggio re3 sol diesis3 Si3. Cp 8, misure 16-18, contralto: si tratta di una cattiva condotta delle voci a causa dell'improvvisa trasposizione all'ottava. Dal punto di vista musicale sarebbe stato logico:


La ragione della trasposizione è ancora l'eseguibilità, poiché l'esempio in note qui dato sarebbe impossibile al pianoforte, non però in formazioni di complesso. Si incontra un caso simile nel Ricercar a tre voci dell'Offerta musicale, dove nelle misure 53 e 84 (cfr. misura 69) hanno luogo assurde trasposizioni all'ottava, solo a vantaggio dell'eseguibilità! Normalmente le voci intermedie avrebbero suonato:


e


Anche la fuga incompiuta, che compare nella stampa insieme a L'Arte della fuga rimane ancora da determinare se a ragione o meno - è un'opera per pianoforte: lo dimostrano non solo la notazione a due pentagrammi nell'autografo, ma anche la trasposizione all'ottava nelle misure 186-188, tenore, ne è indice. Questa voce sarebbe stata più logica in un'ottava più alta - ma purtroppo non eseguibile! Quindi Bach cambia l'andamento logico a favore dell'eseguibilità! Quanto gli è importante la prassi e, in questo caso, la prassi di pianoforte! Cp 10, misura 75, basso: trasposizione all'ottava perché altrimenti non toccabile! Strani, affannosi frammenti di motivo, divisi da pause più lunghe - brutti come voci singole, ma nella composizione per pianoforte, che forma un'unità sonora, li troviamo frequentemente (p.es. Cbt I, fuga in si maggiore, misure 13-16 e 32-33, tenore): in Cp 2, misure 40-42, basso; Cp 8, misura 43, basso, e misure 49-52, tenore; Cp 9, misura 80, basso; Cp 11, misure 40-43 e 53-55, tenore. Di nuovo per Bach sta in primo piano l'idea sonora di uno strumento "a più voci". Nelle composizioni per ensemble non si permette mai tali debolezze. Nel Cp 9, misure 114-118, pare aver distribuito, per pura gioia ottica, una lunga e ininterrotta linea di basso su basso e tenore. Si confronti anche Cp 7, misura 60, basso. Il tono naturale dei basso sarebbe stato il re grave. Questa formula cadenzale viene anche confermata dal discepolo di Bach, J.P. Kellner: dopo la prima nota della dominante segue sempre una caduta nella tonica più bassa. Questo però non sarebbe stato possibile al pianoforte; cosi il re grave viene raggiunto soltanto con l'accordo finale. Comparabili sono: Suite inglese in la maggiore, Prelude, misura 16 e fine; Cbt II, preludio in sol minore, fine. Un caso contrario, benché anche esso causato dalla prassi pianistica, si trova nel Cbt I, preludio in la minore, le ultime tre misure. Cp 11, misura 128, soprano. La seconda metà della misura possiede un ritmo, che sbalordisce in Bach (in questa fuga di sicuro); ricorda più l'inizio del XVI secolo che la metà del XVIII. Di nuovo è qui la composizione per pianoforte che forma un'immagine dei tutto diversa: assieme al contralto si sente l'ultimo colpo come un'acciaccatura sol diesis, la, si, avvolta in una "risonanza".

5. L'indicazione "a 2 Clav."nell'edizione originale in Cp 18
Qual è in fondo la ragione per l'esistenza di Cp 18, questa versione di Cp 13, allargata a 4 voci?
Perché porta proprio Cp 18 l'indicazione ,"a 2 Clav."?
Ammesso che L'Arte della fuga sia concepita per complessi, perché mai allora è stato scritto Cp 18? In una concezione per complessi, Cp 13 sarebbe da eseguire con tre strumenti melodici. Perché adesso trascinare insieme perfino due clavicembali per l'esecuzione di un brano che, come fuga, non rappresenta per niente una versione "migliorata" di Cp 13, ma, al contrario, costituisce uno strano pezzo ibrido con una quarta voce, aggiunta senza relazioni contrappuntistiche? Dato che non riceveremo mai una risposta a queste domande, ci dobbiamo chiedere, se non è meglio rinunciare alla nostra ipotesi "complesso". Se consideriamo L'Arte della fuga come opera per pianoforte, è possibile spiegare l'esistenza di Cp 18. L'intenzione di Bach, di presentare ne L'Arte della fuga il sommo dell'arte contrappuntistica, includeva anche la virtuosa fuga a specchio. La natura di una fuga a specchio porta con sé l'impossibilità che sia il rectus sia l'inversus rimangano nell'ambito raggiungibile da due mani. In tutte le altre fughe Bach era padrone di queste limitazioni, ma qui non era assolutamente possibile. Malgrado ciò voleva avere una buona fuga a specchio a tre voci nella "teorica arte della fuga" (Cp 13); nella "pratica arte della fuga", invece, si vide costretto a scrivere una versione apposita, che adesso abbisognava, logicamente, di un secondo strumento dello stesso genere, per il quale compose una quarta voce, cosicché il secondo esecutore non dovette suonare con una mano in tasca. (L'altra fuga a specchio, comprensibilmente anche essa non eseguibile per un solo esecutore, non aveva bisogno di una seconda versione, poiché era sin dall'inizio composta a quattro voci e dunque i due esecutori poterono dividersi fraternamente la loro porzione.) In Cp 18 non appare quindi repentinamente una estranea "nuova" strumentazione, ma una continuazione dello stesso suono tramite l'aggiunta di un secondo strumento. L'unità dell'opera viene rispettata anche dal punto di vista sonoro. L'indicazione "a 2 Clav." è dunque da leggere sottolineando "2".

IV. QUALE STRUMENTO DA TASTO?
Tutti gli esami suddetti portano all'esito, che Bach compose L'Arte della fuga, avendo in mente la pratica eseguibilità su tastiera. Potrebbero essere intesi il clavicembalo, l'organo (in chiesa o in camera) o il clavicordo. In principio - anche per rispetto della tradizione, in questo campo dell'arte da tasto contrappuntistica - sono da prendere in considerazione tutti gli strumenti da tasto contemporanei. Spesso si sarà usato lo strumento che si trovava più vicino per eseguire alcuni brani de L'Arte della fuga per puro piacere. Sono però ben sicuro che Bach, il quale - non sempre ma spesso - distingueva tra clavicembalo ed organo (p.es. nei titoli delle varie parti dei Cl. Üb.), abbia avuto nelle orecchie lo smorzante suono del cembalo, scrivendo L'Arte della fuga. Vorrei toccare i seguenti punti per ulteriori riflessioni.
a) L'estensione dei primi dodici contrappunti rimane nell'interno dell'estensione di organo do1 - do5, nei canoni però l'estensione supera quella dell'organo sisi - re5 (Cp 13 e 18: do1 - mi5).
b) Cp 18 ("a 2 Clav.") esclude già dalla sua estensione l'organo, a prescindere dal fatto che è un po' più facile mettere insieme due cembali che due organi. ("Clavier" è da ritenere, come ci dimostra Bach in Cl. Üb., un nome colletivo per strumenti da tasto, oppure "Clav." sarebbe qui addirittura l'abbreviazione per "clavicembalo").
c) Se l'opera fosse stata ideata per l'organo, la mancanza del pedale (obbligato) è strana. Proprio Bach si era preoccupato dell'uso dei pedale, fatto imbarazzante per i suoi contemporanei, in un modo sconosciuto a quelle regioni della Germania.
d) La composizione densa di tenore grave e basso è insolita per l'organo, per il clavicembalo invece è normale.
e) Un suono smorzante e non statico è sicuramente stato inteso nei punti già discussi come:
- Cp 4, misure 85-86, tenore
- Cp 7, misura 58
- Cp 11, misura 128, soprano
Questa pianistica polifonia apparente raggiunge il suo effetto solo al clavicembalo (o al clavicordo).
f) A chi è in grado di suonare sia organo che clavicembalo, l'opera dà l'impressione di essere nel suo elemento al clavicembalo. Quest'osservazione è naturalmente contestabile. Però vorrei additare alla fuga in si maggiore della seconda parte del Cbt quale modello per un brano che si presenta all'esecutore e all'ascoltatore nello stesso modo di Cp 5 o 10.
g) Visto che al clavicordo non toccava nessun posto nella vita di Bach (del suo lascito facevano parte 5 cembali e nessun clavicordo; era solo Forkel a dare vita alla leggenda del clavicordo), credo che degli strumenti da tasto "smorzanti" con estensione più grande di quattro ottave, il clavicembalo prenda il primo posto tra i canditati per L'Arte della fuga. Non si possono però escludere in assoluto l'organo e il clavicordo, certamente non per una scelta di brani adatti.

Riassunto

l. La notazione in partitura non esclude uno strumento da tasto.
2. Il punto ineseguibile alla fine di Cp 6 non esclude uno strumento da tasto.
3. Punti come Cp 4, misura 35; Cp 5, misure 41, 60; Cp 9, misura 94 non escludono uno strumento da tasto.
4. Le chiavi adoperate escludono un complesso.
5. L'estensione delle voci esclude un complesso.
6. Il tipo di fuga non è quello delle fughe per complessi di Bach.
7. Le voci per sé non hanno una fisionomia così individuale da proporre un certo strumento.
8. Gli incroci di tenore e basso escludono il violino come fondamento a 16 piedi.
9. Tutto è eseguibile con 2 mani.
10. Cambiamenti privi di senso musicale sono stati fatti a favore dell'eseguibilità.
11. L'indicazione "a 2 Clav." è da interpretare sottolineando "2".
12. L'aumento delle voci alla fine di alcune fughe e tipico dello stile pianistico.
13. L'Arte della fuga contiene dei punti di pianistica polifonia apparente.
14. Ancora nel XX secolo L'Arte della fuga è stata ritenuta un'opera per pianoforte.

Gustav Leonhardt (note all'incisione di "Die Kunst der Fuge", 15-20 VI 1969)

Gustav Leonhardt e L'Arte della Fuga (I)

Durante gli ultimi otto o nove anni della sua vita, Bach si era dedicato sempre di più a difficilissime opere d'arte contrappuntistiche: le Variazioni Goldberg nel 1742, l'Offerta musicale nel 1747, le Variazioni canoniche di "Dagli alti cieli" nel 1747. E nel 1748 prese la decisione di scrivere una grande opera ciclica, che doveva contenere "tutti i tipi di contrappunto e canone su un singolo tema" (necrologia, nella Bibiografia musicale di Mitzler VII, I 1754). Quest'opera poi doveva uscire a stampa, ma Bach non ebbe più modo di vederla.
Le fonti sono le seguenti:
a)L'autografo contiene 15 brani, a cui si aggiungono altri tre fogli sciolti (Cp 14 nella forma definitiva, la fuga a specchio 18 e l'incompiuta fuga 19). Manca Cp 4, come pure i canoni 16 e 17; Cp 10 appare nella più breve forma precedente; del canone 14 esistono due versioni diverse. Il manoscritto pare essere già una bella copia nella forma di partitura, dove sono state inserite più tardi numerose correzioni. Alcuni canoni sono notati in forma non risolta, la fuga incompiuta però su due (non quattro) righi musicali. Il testo musicale, malgrado tutte le correzioni, spesso differisce molto dalla pubblicazione - tranne Cp 10 (variante), 14 (versione definitiva), 18 e 19.
b)La stampa originale (1751 o già 1750; seconda edizione 1752 con introduzione di Marpurg) presenta l'opera in notazione di partitura, i canoni in forma risolta. Probabilmente per sbaglio è stata stampata anche la variazione di Cp 10. Al fine di "risarcire gli amici della sua musa" (Marpurg) per l'abbozzo costituito da Cp 19, veniva aggiunto come conclusione il corale "Wenn wir in höchsten Nöthen", anch'esso scritto in forma di partitura. I primi dodici pezzi sono numerati. Il testo musicale offre, a confronto dell'autografo, sempre delle versioni molto migliori; questo fa supporre che sia esistito un altro autografo, oltre a quello conservato. In ogni modo, coloro che si occuparono della stampa, dopo la morte di Bach, non erano bene a conoscenza delle sue intenzioni e si trovarono probabilmente perplessi di fronte a tutti quei manoscritti postumi: soltanto cosi si riesce a spiegare perché la variazione Cp 10 sia stata stampata in mezzo ai brani 13 e 14. Anche il gran numero di imprecisioni in Cp 18 risale ad un inadeguato controllo della stampa. Sussistendo dei dubbi giustificati sulla validità dell'edizione a stampa, vogliamo inoltrarci qui in un ragionamento, che, seppure si sforza di rispondere alla logica, conserva valore puramente ipotetico.

Prima domanda:
L'opera è veramente incompiuta?
Benché concordi nella supposizione che l'opera sia incompiuta, già poco dopo la pubblicazione sorgono opinioni diverse. Nel 1752 Marpurg scrive nell'introduzione alla seconda edizione: "E' più che deplorevole che, a causa della sua malattia agli occhi, a cui ben presto seguì la morte, Bach non fu in grado di terminare e pubblicare l'opera lui stesso. Fu colto dalla morte proprio nell'elaborazione dell'ultima fuga, mentre scriveva il terzo movimento." Nel necrologio di Bach del 1754, scritto da Agricola e C.Ph.E. Bach, nella Bibioteca Musicale di Mizler, VI, I, troviamo la seguente osservazione: "La sua ultima malattia gli impedì di terminare completamente la penultima fuga, secondo il suo schizzo, e di elaborare l'ultima, che avrebbe dovuto contenere 4 temi e poi essere invertita, nota per nota, in tutte le quattro voci." A queste testimonianze vorrei far seguire un punto interrogativo, poichè sono riferite da persone, che non si trovavano a Lipsia durante gli ultimi due anni di vita di Bach e che quindi ricevettero notizie solo di seconda o terza mano, dopo la sua morte.
In prima linea mi pare poco logico che una grande opera - Bach di sicuro non ha cominciato a scrivere a vanvera - fosse stata stesa in bella copia già due volte in partitura (la seconda volta con il testo in note che conosciamo dalla stampa) e forse persino preparata per la stampa dall'autore stesso (per quanto riguarda i primi dodici pezzi numerati), mentre un brano (o, secondo la necrologia, tre) non era ancora terminato o addirittura non composto affatto.
Se Bach non poté completare la fuga 19 (nella stampa viene chiamata Fuga a 3 Soggetti e non Contrapunctus) - anche la notazione in due pentagrammi indica un primo abbozzo -, ciò significa che egli se ne stava occupando nel periodo immediatamente precedente la sua cecità. A questo si aggiunga che il tema de L'Arte della fuga non appare nel brano: tutti i tre soggetti sono temi di nuova invenzione. Il fatto, scoperto nel secolo XIX, che il tema principale de L'Arte della fuga si adatti agli altri tre temi, può essere senz'altro un caso. Inoltre va esclusa la forma di un'eventuale fuga quadrupla, considerando le tre esposizioni precedenti (ognuna 38 battute più lunga della seguente) e lo stretto dei tre temi - a dispetto di quanto sostengono Tovey, Martin e altri. Così si deve almeno dubitare dell'appartenenza di questa fuga 19 a L'Arte della fuga. L'osservazione fatta nella necrologia, però, non può essere dei tutto inventata. Può darsi che Bach, dopo aver terminato L'Arte della fuga, abbia cominciato tre opere nuove (una fuga tripla e una fuga quadrupla a specchio), di cui riuscì ad elaborare soltanto la prima in parte. L'osservazione "e un altro schema di base", scritta a mano - non autografa - sul retro dell'ultimo foglio di questa fuga, potrebbe esserne un indice. Alla fine ci si può aiutare con il simbolismo dei numeri - non vogliamo inoltrarci troppo in questo campo molto importante ma rischioso - che porta a risultati ben convincenti, se si ritiene l'opera compiuta. Inoltre non sarà un caso che sia il Clavicembalo ben temperato II, sia L'Arte della fuga (senza la fuga incompiuta) contino 2135 battute, ripetizioni comprese.

Seconda domanda:
La successione dei brani nell'edizione stampata è quella voluta da Bach?
La notevole differenza fra la successione dei brani nell'autografo e quella nell'edizione a stampa indurrebbe a dubitare che Bach stesso avesse rinunciato allo schema già stabilito ed imposto alla costruzione una concezione nuova. Ed inoltre, mentre l'autografo è sicuramente di Bach, la stampa lo è solo presuntivamente. A queste considerazioni, tuttavia, si oppongono alcuni dati di fatto:
1) le varianti dei dettagli nell'edizione a stampa sono sempre un miglioramento rispetto all'autografo;
2) alcuni brani di assoluta bellezza (Cp 4, 16, 17) appaiono per la prima volta nella stampa;
3) la numerazione dei primi dodici brani indica un ordine consapevole;
4) la disposizione dei canoni forma sì una "uscita" alla fine, ma solamente dal punto di vista sonoro, e non quanto a perfezione artistica. Infatti i canoni sono contrappuntisticamente molto più complicati delle fughe.
Alla luce di tutto ciò, si tende ad ipotizzare un cambiamento dello schema di massima, fatto da Bach nel perduto "secondo manoscritto", e si accetta anche il valore dell'edizione a stampa, che - almeno nei primi dodici pezzi - dovrebbe essersi basata sull'autografo.
Risponde a logica il fatto che nell'edizione la forma "pratica" della fuga a specchio 13 (Cp 18) sia stata collocata alla fine, quasi come un'appendice. Eseguendo l'opera, la si suonerà invece al posto della no.13 (vedine le annotazioni più tardi III, 5). Il fatto che nella fuga a specchio 12, ancora numerata, sia stato stampato dapprima l'inversus e poi il rectus, offre, a mio avviso, un'ulteriore testimonianza di senso musicale: infatti quest'ultima versione ha valore di chiusa. Non è invece coerente la sequenza in cui sono stampate le fughe a specchio non numerate: Cp 13 prima rectus e poi inversus; Cp 18 prima inversus e poi rectus. La prima soluzione è più chiara dal punto di vista musicale. La successione dei canoni nella stampa non richiede, secondo me, alcun cambiamento.
In questa incisione ci si allontana, forse a torto, dalla successione dell'edizione originale per quanto riguarda il collocamento della quarta fuga. La ragione risiede nel convincimento, che all'equilibrata prima fuga deve giustamente seguire un'equilibrata fuga inversa, sempre sopra il tema del rectus, invece di una fuga puntata di carattere vivace, a cui dovrebbe succedere una fuga inversa, leggermente appassionata dal cromatismo. Nell'autografo, alla prima fuga segue subito la fuga rivoltata 3 (nella nostra registrazione la fuga rivoltata 4, che nel manoscritto non compare). Anche considerazioni di simbolismo numerico possono giustificare questo spostamento.
In conclusione: a mio avviso L'Arte della fuga è stata portata a compimento da Bach; la Fuga a 3 Soggetti (Cp 19) e il corale - due opere iniziate più tardi - non hanno niente a che fare con l'opera; l'edizione a stampa si avvicina molto alle intenzioni di Bach, sia nel testo sia probabilmente nella successione.

Gustav Leonhardt (note all'incisione di "Die Kunst der Fuge", 15-20 VI 1969)