Proprio come dice una nota nell'album, "L'Arte della Fuga" è l'ultima grande opera di J.S. Bach, rimasta incompiuta: la mano dell'autore si è fermata laddove il suo nome (B.A.C.H., notazione musicale tedesca per Si bemolle, La, Do, Si) figura come terzo tema all'ultima fuga. Sì chiude così un capolavoro che, considerato per anni un saggio, seppur altissimo, di maestria contrappuntistica, rivela alla nostra sensibilità d'oggi una profondità di espressione, una ricchezza di idee, momenti di lirismo e di drammaticità straordinari. La sua conclusione, che per la morte del Maestro vede spegnersi il suono di tre voci che sembrano sul punto di svelare col loro canto il mistero dell'infinito, è somma tragedia."
E, proprio come dice un'altra nota sull'album, firmata questa da Paolo Borciani, "Per questo omaggio a J.S. Bach i due violinisti del Quartetto Italiano hanno invitato il violista e il violoncellista del Giovane Quartetto Italiano, che tale nome ha assunto perché formatosi alla scuola di quell'indimenticato complesso. Quasi una staffetta ideale, per onorare un sommo musicisita, nel ricordo di un Quartetto che per 35 anni ha onorato il nome d'Italia nel mondo".
Il Concerto con l'Arte della Fuga fu eseguito alla Scala ed altrove, nel 1985, e la registrazione è della serata di Bergamo, alla sala Piatti. Pochissimo tempo dopo, Paolo Borciani, che da tempo era ammalato di tumore e lo sapeva, morì. Il disco è dunque anche un testamento, una testimonianza altissima, un documento struggente. Proprio per rispetto dunque a tanta arte e tale circostanza, e nell'affetto verso un'Associazione, che ce lo presenta, che porta il nome di Sergio Dragoni (uomo d'altissima nobiltà morale e di provvido talento nella musica, ascoltatore e consigliere, figura umana inimitabile - e, per noi di Musica Viva, primo abbonato al primo annuncio che la nostra rivista sarebbe uscita), non mi sembra opportuno infarcire di considerazioni universali la recensione, ma piuttosto cercare di dare qualche indicazione a mio avviso utile per ascoltare l'interpretazione.
L'Arte della Fuga non è un pezzo di intrattenimento, e nemmeno di coinvolgimento. Non ha per sua legge che il proprio svolgimento interno. Ma non inteso come germinazione naturale, con uno sviluppo, come un albero; piuttosto inteso invece come una raccolta di itinerari accostati. Come già il Clavicembalo ben temperato, sia pure in modo diverso, è una specie di trattato, di prestigiosa scommessa su tutto quanto si può fare con un assunto musicale. Non vive dunque per nulla sul tempo psicologico dell'ascoltatore, né su di una trama interna che significhi un cammino: ogni volta, idealmente, l'ascoltatore torna indietro al punto di partenza, e somma mentalmente, stupefatto e interessato, anche questa esperienza alle altre. Nell'osservare tutto quanto si può fare con un tema, nella mirabilia del contrappunto, si commuove alla ricchezza, con spirito d'avventura ha voglia di ripartire per accumularne altra; ma resta impegnato in una continua decifrazione mentale per raffronti, e in una serie di delizie o acquisizioni. Compito di chi si assume la scelta degli strumenti, non indicati da Bach che scrisse la partitura in astratto, è prima di tutto dare la percezione dei diversi percorsi delle singole "voci" che danno vita alle diciotto combinazioni; e poi sintonizzare il lungo tempo che chiede l'esecuzione, non meno di un'ora e tre quarti, con il tempo psicologico dell'ascoltatore.
La scelta di Borciani è nel primo caso riduttiva: quasi una scommessa sulla scommessa di Bach, perché i quattro timbri degli strumenti d'un quartetto d'archi non differiscono molto tra loro, e rendono pertanto difficile la decifrazione volta per volta delle singole voci; da questa restrizione d'ambito, però, nasce l'impegno ad un necessario virtuosismo nel tenere il rispetto delle quattro parti con evidenza; e il virtuosismo dà un fascino ed una tenuta esecutiva che moltiplica l'attenzione e la capacità di lettura di chi ascolta. Borciani confidava evidentemente nella capacità dei giovani strumentisti di tenere la tensione e la coerenza ad alto livello; e a buon diritto, visti i risultati, anche se ad una fase di decantazione meno assoluta dei due violini famosi, così che una certa passionalità impaziente o vistosamente trattenuta nelle parti gravi si contrappone talora alla sintesi perfetta di sensibilità e di rigore, e di pudore, delle parti acute.
In ogni caso, non solo tutti suonano bene, ma si sente quel suono tipico di Borciani, che nulla concede a ciò che non è essenziale al fraseggio, un suono per certi versi analogo all'asciuttezza e alla densità di Giulini e per altri versi alla determinazione di Pollini, assolutamente imparagonabile ad altri negli archi.
Quanto invece al percorso interpretativo, la scelta di Borciani e compagni è radicale: subito tutto, e sempre tutto. Non ci sono gradazioni, non ci sono aiuti per noi: ogni "Contrapunctus" viene eseguito esattamente come se fosse un frammento. Da qui, nasce una difficoltà per chi sta seguendo lo svolgersi del concerto, che viene caricato di doveri, quasi da prova iniziatica, con quel carattere che unisce insomma la percezione della grandezza alla tentazione del sopore.
Non è questione di noia, è tutt'altra cosa, intendiamoci; ma insomma è un'esperienza faticosa, e in certo senso immotivata. Consiglio chi non abbia congeniale, le grandi maratone nella musica più austera e gloriosa di spezzare tranquillamente l'ascolto. Però se regge potrà avere un'emozione molto fonda dopo circa un'ora e un quarto, quando l'alta commozione comincia a pervadere gli interpreti. Il carattere esoterico, certamente presago d'addio, di quest'opera immensa, li prende, e, anche per la coincidenza sofferta della fine vicina dell'amato e schivo primo violino, una gravità desolata, più misteriosa della tristezza, più difficile da esprimere e pur inevitabile, possiede la loro anima, le loro mani.
E' impressionante l'attacco del XVI Contrapunctus, col violoncello, e la costruzione con la risposta degli altri, fino a quell'entrata del violino primo con la quartina ascendente, variante del tema principale, che pare memore di altri "re minore" felici di Bach, come quell'oboe nell'adagio del Primo Concerto Brandeburghese e memore insieme di tant'altre tenerezze e nostaglie, che non si lascia però vincere.
E' un punto d'arrivo dell'esperienza musicale quel finale interrotto, dove misuriamo qualche grande merito della nostra cultura, che nel gesto dell'interrompere la partitura vediamo una verità, una creazione e una rivelazione, là dove fino a non molti decenni fa, in tempi considerati più creativi, si sentiva il disagio improponibile della cosa non finita. Anche questa fiducia nella capacità di chi ascolta è un segno distintivo del Maestro Borciani, della Signora Pegreffi con i loro giovani discepoli, in quest'incisione; ed una irripetibile sensazione ái orgoglio ci si comunica, alla fine dell'ascolto.
recensione di Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno X n.7/8, luglio/agosto 1986)
L.A.
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