Gli scritti di Giulio Confalonieri, i suoi articoli settimanali che ora nemmeno ricordo dove comparissero (Oggi, Epoca?), hanno accompagnato e consolidato la mia formazione di giovane musicista. Devo a lui, e a lui solo, l'interesse prima e l'amore poi per Wolf, e le sue perorazioni per Grieg mi hanno messo in guardia contro le scale di valori troppo consolidate. La musica è un fattore troppo totalizzante per consentire scelte manichee, di qua i buoni, di là i cattivi, e se c'è una piccola grande musica, c'è posto anche per una grande piccola musica. Erano anni di apprendistato, di curiosità vorace e ormivora che veniva soddisfatta principalmente dalla radio (i dischi erano merce rara e costosa) per la conoscenza dei testi, e dai periodici per la sistemazione critica delle esperienze d'ascolto: Mila, Gara, Vigolo, D'Amico, Confalonieri, Del Fabbro erano i referenti più accreditati; com'è giusto per un ragazzo che viveva in provincia, per di più periferica, tendevo a fare di ciascuno un oracolo e mi era difficile distinguerne le tendenze, i tic, i pregiudizi e le convinzioni più profonde; poco alla volta però il quadro mi si fece più chiaro e decisi di privilegiare quelli che sentivo più affini alla mia sensibilità, se ne ho una, e scelsi D'Amico e Confalonieri. Non mi sono mai pentito di quella scelta e penso che tutti in Italia siamo molto in debito con l'uno e con l'altro: stando al solo Confalonieri, basterebbe rifarsi ai capitoli su Schubert e Schumann della sua Storia della Musica per capire che la sua preparazione culturale specifica e generale, la finezza di analisi, la profondità dell'indagine (e tutto espresso con una chiarezza e bellezza di linguaggio che non temono confronti) appartengono a uno scrittore che non è soltanto un musicologo avvertitissimo, ma un prezioso, insostituibile compagno di strada, una guida trascinante e sicurissima per chi voglia entrare in contatto con la musica, decifrarne gli enigmi, poterla familiarmente frequentare. Solo molti anni dopo la conoscenza del critico Confalonieri ebbi l'occasione d'incontrare, io molto reverente ed emozionato, l'uomo Confalonieri; l'impressione, fortissima, che ne ebbi mi lasciò tuttavia vagamente perplesso. Un volto bellissimo, un'espressione volitiva e nobile, una voce fascinosa contraddicevano un corpo un po' sfasciato e segnato da una pronunciatissima zoppia, tristissimo retaggio di un incidente ferroviario. L'eloquio, leggermente ridondante e compiaciuto, era però innervato da un pensiero di stampo settecentesco, lucido e tagliente fino ad apparire cinico; ma l'aristocratico ch'era in lui amava ogni tanto mascherarsi inserendo nella conversazione e negli atteggiamenti parole e modi smaccatamente plebei, provocando un curioso effetto di straniamento che rinforzava l'evidenza della sua origine "alta" e confinando il suo vocabolario "basso" fra le innocue manifestazioni di un infantile snobismo. Eravamo a Busseto, convocati per non so quale occasione celebrativa, e passai con lui qualche giorno fra i più intellettualmente eccitanti della mia vita. Alla fine credevo di averlo capito; appreso che fra i suoi divertimenti preferiti c'era quello di tirare l'alba in qualche osteria del suburbio milanese giocando a scopone con ceffi pittoreschi ma poco raccomandabili, mi sembrò di poterlo assomigliare a qualche gentiluomo del secondo impero che attratto dal color locale frequenta bassifondi e simula un socialismo di maniera; avrebbe potuto essere, data anche la sua pronunciatissima capacità di apprezzare la bellezza femminile, una sorta di principe dei Misteri di Parigi di Sue, o in terra nostrana un duca di Mantova abilissimo a truccarsi da Gualtier Maldè per assaporare al meglio le inconscie grazie delle Gilde di periferia. Così credetti fino alla fine del nostro soggiorno bussetano, fino cioè al verificarsi di un episodio singolare che rimise tutto in discussione. A Busseto, luogo verdiano, non mancava naturalmente un omaggio marmoreo al genius loci, un suo busto. Del resto anche l'albergo più bello (o l'unico) di Busseto ha camere in stile verdiano, dedotto dalle più oleografiche scenografie delle sue opere, che, se ricordo bene, si distinguono non solo col numero, ma anche col nome: per esempio credo di aver dormito nella camera chiamata dei due Foscari: e in più, mangiando (benissimo) al ristorante dello stesso albergo, dal melone col culatello fino al caffè finale il pasto è discretamente accompagnato dal "Va, pensiero" o dal "Si ridesti il leon di Castiglia" diffusi da sofisticati e nascosti altoparlanti.
Non so se fosse brutto o bello, il monumento, ma aveva un torto, era stato eretto da un'amministrazione rossa.
Verdi prigioniero dei comunisti? Mai, tuonarono i democristiani, e pensarono di erigerne uno nuovo praticamente in faccia al vecchio. I due Verdi, il rosso e il bianco, stavano per fronteggiarsi arcignamente; non erano ancora nemici perché il nuovo busto, dovendo essere inaugurato, era coperto da un drappo nero che ne celava l'espressione. Bene, i "bianchi" avevano chiesto a Confalonieri di pronunciare, allo scoprimento del busto, qualche parola d'occasione e Confalonieri aveva accettato l'incarico. Viene il momento solenne, il drappo cade e Confalonieri inizia il discorso. Io mi aspettavo qualcosa di intelligente, di semplice, di breve, perché l'atmosfera guareschiana induceva piuttosto al sorriso che alla commozione. Ed ecco la sorpresa: il discorso si trasforma in orazione, Confalonieri assume i toni se non le sembianze di un Bossuet, una sinistra aura controriformistica cala sulla piazza, ai dissenzienti o agli ignari vengono minacciati roghi e terribile stridore di denti, la celebrazione cede il passo alla crociata, in un crescendo di intolleranza che porta alcuni al delirio e altri, pochi fra cui me, alla sensazione di vivere un sogno.
Quando Dio volle l'allocuzione finì e Confalonieri, riassunta l'espressione normale, mi si rivolse con una timida e gentile domanda: "Come sono andato?". Non ricordo se e che cosa gli risposi, certo ero impietrito dallo stupore. Ancora non so se Confalonieri abbia creduto a una sola parola di quanto aveva detto: può darsi di sì, ma le sue affermazioni erano in totale contrasto con quel che avevo letto nelle sue opere; tendo perciò a pensare che a elencare i suoi talenti si mancherebbe gravemente a non ricordare il suo genio del travestimento, quello di sapere e volere recitare tutte le parti del gran teatro del mondo: aristocratico autentico ma rinnegato, falso scioperato e lavoratore accanito, Confalonieri ha trovato alimento alla sua capacità di intuizione psicologica, che rende tanto preziose le sue pagine nella verifica sul campo, nella assunzione fittizia e temporanea di personalità contraddittorie, vissute però con tanta intensità da consentirgli di incarnarle come un moderno Sosia. E in questo affascinante rimando di specchi sto ancora domandandomi chi era il vero Giulio Confalonieri.
di Giorgio Vidusso (Musica Viva, Anno XVII n.1, gennaio 1993)
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