A Bogliasco, deliziosa cittadina rivierasca alle porte di Genova, è avvenuto "qualcosa" che ci sembra sia il caso di registrare. Se si vuole, una volta tanto a simbolo dell'avvenimento si può assumere una cerimonia ufficiale, ossia la intitolazione di una piazzetta nei pressi della stazione ferroviaria ad Aleksandr Skrjabin, che a Bogliasco soggiornò per alcuni mesi tra il 1905 e il 1906 e vi compose una delle sue opere più note (e fondamentali), Le Poème de l'Extase; sempre qui, il 26 ottobre 1905, la sua compagna Tatjana Schloezer gli donò una figlia, Ariadne, destinata a ribadire con la tragica morte in terra di Francia nel 1944, come eroina della Resistenza antinazista, l'amore per la libertà e la fede nel riscatto dell'umanità che il padre aveva coltivato per tutta l'esistenza.
Dunque, dallo scorso novembre, in Bogliasco esiste un Largo Aleksandr Skrjabin proprio dove un tempo sorgeva la casa abitata dal musicista (che fu abbattuta per fare posto a una seconda linea ferroviaria).
Già di ciò ci si dovrebbe sorprendere, visto che non capita di frequente che una civica amministrazione del nostro Paese, che pure è Paese di solerzia e irruenza edilizie impareggiabili, ammetta che anche i musicisti del '900 hanno fatto storia e di loro si rammenti al momento di procedere a "battesimi" urbani. Comunque, questa volta non ci si è limitati all'omaggio toponomastico. La cerimonia di cui si è detto (presenti anche autorità sovietiche) ha suggellato, infatti, una ben più impegnativa assunzione di responsabilità culturali: la nascita (promotrice la Pro Loco e il Comune) di "Bogliasco per Skrjabin", appuntamento che si vorrebbe annuale per studiare il "caso Skrjabin" e le sue implicazioni. E ciò ci sembra davvero importante.
Anche se non si può affermare che la bibliografia e la saggistica dedicate alla vita e all'opera di Aleksandr Skrjabin siano così inconsistenti, resta tuttavia vero - per dirla con le parole di Armando Gentilucci - che, pur essendo Skrjabin uno dei musicisti più singolari tra quelli che operarono a cavallo tra Otto e Novecento, è ancora oggi uno dei meno studiati e sviscerati criticamente. Le due proposizioni (ragguardevole, anche se non foltissima, entità di scritti da un lato, scarso approfondimento esegetico dall'altro) parrebbero contraddirsi. E invece no. Il peso delle indagini e delle interpretazioni non si deduce, infatti, dal loro numero e in fondo neppure dalla loro qualità, bensì dalla loro effettiva incidenza. Il che chiama in causa la curiosità che le accoglie. Di fatto tale curiosità (almeno sinora, perché attualmente vi sono confortanti avvisaglie di un'inversione di tendenza) ha latitato e l'impegno, spesso devoto, di quanti (soprattutto nell'Urss, ma anche in Francia e in Inghilterra) hanno voluto comprendere e chiarire il cosmo creativo ed esistenziale di Skrjabin non ha suscitato reazioni particolarmente vivaci, feconde di ulteriori puntualizzazioni. E' per ciò che il compositore russo, protagonista di una stagione culturale che ha intrigato la Storia proprio in forza della deflagrazione di singolari energie concettuali e creative, s'è trovato (e ancora si trova) a rischiare il frettoloso fascino di iperbolici luoghi comuni, appartato in una eccentricità sensual-mistico-esoterica che, in genere, già pare esaurientemente definitoria, defilato in una visionarietà che viene considerata sostanzialmente tardoromantica ed evasiva rispetto alle più inquietanti problematiche dell'epoca, ancorché non si disconoscano in lui taluni profili "rivoluzionari".
Per noi le cose non stanno proprio così. Anzi, alla luce di quanto ha segnato i cammini della musica nel Novecento e sino all'oggi, ci sembra sia davvero giunto il momento di riesaminare il "caso Skrjabin", non escludendo l'ipotesi che si debba, infine, operare un deciso ribaltamento di prospettive e giungere magari a rilevare - con qualche pur simpatica temerarietà - che l'eccentricità skrjabiniana consiste nel fatto che il musicista russo non solo si sentì profondamente coinvolto nel coacervo delle problematiche estetiche, umane e filosofiche del tempo, ma, più di qualsiasi altro compositore a lui contemporaneo, andò oltre e intuì anche molto di ciò che ne sarebbe conseguito.
Il suo pensiero compositivo ridonda di lucida consapevolezza e di profetica tensione. Consapevolezza e tensione inestricabilmente intrecciate in quella sorta di turgore sensitivo che indusse Skrjabin a coniugare le ragioni della più rigorosa razionalità (da qui l'individuazione di un personalissimo "sistema" armonico e compositivo inteso come struttura radicale del processo creativo) e quelle della più liberatoria super-razionalità o irrazionalità che dir si voglia (in ciò comprendendo le varie pulsioni teosofiche, rituali e di rigenerazione trascendentale che egli intese come anima e scopo del processo creativo stesso e come universalistico messaggio del proprio operare artistico). Al centro del cosmo skrjabiniano si pone, chiaramente, una sensibilità forgiata dalle incertezze che, nel volgere di un'epoca, si rispecchiarono - in musica - nel crollo della potestà organizzativa della tonalità. Meno chiaro, però, è il tenore delle risposte che egli cercò di dare a tali incertezze. In esse si colgono, infatti, vari versanti che danno vita a un complesso caleidoscopio di ascendenze, di presentimenti e di dialetticità.
Certamente Skrjabin cercò un "modo di esprimere" nel quale i moti psicologici ed emotivi potessero dispiegarsi in duttile, malleabile e sensuale immediatezza, eludendo le mistificazioni di una rappresentatività fatta più di regole che non di interiori necessità. Basta notare l'impressionante ricchezza e fantasiosità delle "caratterizzazioni" con cui egli chiosò le sue partiture, al fine di palesarne il clima programmatico e di fornire indicazioni per la loro interpretazione, e ci si rende perfettamente conto della febbrile ansia comunicativa che sottende l'atto compositivo (e in ciò gli slanci romantici trasmutano in gestualità persino espressioniste). Nel contempo, per Skrjabin ogni anelito espressivo non poteva prescindere da un'intima coerenza logica che, senza imbrigliarne le esigenze, ad esso garantisse insieme la dignità suprema dell'intelligenza facitrice e l'intelligibilità obiettiva del suo farsi opera d'arte. Il "sistema" di cui già si è detto; che, mentre riveicola sedimenti armonici tradizionali, li smentisce in un'aura decisamente a-tonale. Si pensa allora a Schoenberg. Ma subito si nota che, progressivamente, Skrjabin conquistò orizzonti più avanzati, inoltrandosi in essi attraverso il dissolversi nella sua musica della distinzione tra verticalità (dimensione armonica) e orizzontalità (dimensione melodica). Ed allora si pensa a Webern. Del resto, non solo per questo Skrjabin e Webern, personalità tanto lontane all'impatto, si rivelano arcanamente vicini. Nell'opera di entrambi ad esempio il lirismo è stimolo coinvolgente (d'assonanza chopiniana nel primo e schubertiana nel secondo); e, poi, tanto quello di Skrjabin quanto il pensiero di Webern sono nutriti dal convincimento della presenza di una ragione fondamentale, cosmica, alla cui essenzialità la mente e la sensibilità dell'uomo devono tendere e, magari, in essa naufragare. Una referenza "religiosa" che, così cqme è stata utilizzata per tracciare gli estremi confini del limpido mondo weberniano, altrettanto è valsa come approccio al fervore stordente dell'opera di Skrjabin.
Senonché, nel caso di Skrjabin, la messa in gioco della prospettiva religiosa come ipotesi di lettura ha aperto varchi piuttosto facili all'irrompere di valutazioni parzializzanti e distorcenti. E' certo che la religiosità skrjabiniana, al di là del minimo comun denominatore metafisico che connota ogni religiosità, ha accenti tutt'affatto diversi da quella weberniana. E' una religiosità rigogliosa e immaginifica, intrisa di aromatiche pretese liturgiche, vibrante di trascendentalismi, appetiti attraverso vertigini sensuali. Anzi - sotto quest'aspetto - si configura come ultimo e definitivo approdo dell'"mpero dei sensi", come fulgore catartico di una mistica orgiastica; infine, come composizione, nel perenne "respiro" primordiale, dell'ambiguità luciferina, supremamente angelica e supremamente demoniaca.
L'istanza religiosa, così fisionomizzata, può dirsi latente da sempre nell'immaginazione musicale struggentemente "liberatoria" di Skrjabin, anche se divenne "proclamazione programmatica" soprattutto a partire dalla Terza Sinfonia del 1904, detta - appunto - Le divin Poème, e da quel Le Poème de l'Extase che il compositore russo portò a termine durante il suo soggiorno a Bogliasco, nel 1905, e che continuò a limare neidettagli sino al 1908.
Tuttavia, è importante rilevare che tale istanza, motrice non solo di sentimento ma anche di ipotesi sperimentali nel suo tradursi in "opera d'arte", venne assorbendo energie da molteplici esperienze intellettuali e culturali, e il suo stesso evolversi pone in campo tematiche straordinariamente affascinanti.
Non c'è dubbio che in molte pagine pianistiche di Skrjabin, segnate come sono da un'esultanza torrida e sulfurea, si debba riconoscere l'ombra lunga del "mefistofelismo" lisztiano e in altre, di carattere opposto, una pur sempre lisztiana voluttuosità trasfigurativa (e ciò vale, nonostante la strepitosa novità degli esiti, anche per la Settima Sonata, detta Messa bianca, e per la Nona Sonata, detta Messa nera, entrambe compiute nel 1913, quindi a soli due anni dalla morte); neppure è dubbio che di totalizzante misticismo in qualche modo wagneriano si possa parlare allorché si consideri la sinergia suoni-colori di Prometheus (Le Poème du feu) per pianoforte, coro (che però non ha un testo da cantare, si badi!), clavecin à lumière e orchestra, del 1910, oppure allorché ci si trovi a sconcertarsi di fronte a quel Mistero, che Skrjabin concepì negli ultimi anni di vita, da celebrarsi in un "tempio" emisferico e trasparente eretto "sull'acqua" e ai piedi dell'Himalaia, in cui avrebbe dovuto eventualizzarsi il radicale coinvolgimento di tutti i sensi (udito, vista, odorato, gusto, eccetera) di tutti i partecipanti (esecutori musicali compresi) in una danza rituale propiziatoria, e avrebbe dovuto prodursi quella "rigenerazione dell'umanità e del mondo attraverso l'arte" (Restagno), quella permeabilità dello spirito al respiro cosmico, che Skrjabin riteneva possibile.
Ciò detto, ci sembra tuttavia povero dar conto della visionarietà skrjabiniana riducendola sostanzialmente (se non esclusivamente) all'elaborazione sfrenata di riporti lisztiani o wagneriani, insomma di ipoteche del passato; quanto, almeno, ci sembra limitante attribuirne il tenore al pensiero teosofico europeo, notoriamente abbracciato da Skrjabin, senza sottolineare adeguatamente il progressivo aderire del compositore a discipline e a valori propri della spiritualità d'Oriente. Poiché, se si sposta il punto di vista e si considera in tutta la sua portata il cammino e il dinamismo della ricerca interiore, estetica, linguistica e concettuale di Skrjabin, ecco che ci si trova a collocare il compositore e pianista russo accanto a Debussy, prepotentemente all'avvio di quel processo di disgregazione dell'eurocentrismo che rappresenterà uno dei rovelli progressisti più fecondi del Novecento. Ma non solo: nei termini esotici del suo approdo, il misticismo skrjabiniano non si rivela, forse, profeticamente proteso verso un futuro che conoscerà il ridente nichilismo artistico di Cage, il "rigenerazionismo" oriental-galattico-luciferino di Stockhausen e il meditativismo profumato al sandalo di tanti altri?
E ancora: se ci si ricorda che per il poema Icaro, poi non scritto, Skrjabin pensava all'utilizzazione di un motore d'aereo, non viene alla mente il Futurismo? E, se si osserva da vicino il pianismo skrjabiniano, non si avverte, forse, che - ben oltre le connivenze impressioniste - vi è in atto la restituzione al virtuosismo della sua originaria (e filologica) attitudine all'indagine delle "virtù" di uno strumento, dellì"inaudito" che da esso può scaturire, attitudine che sarà preziosissima per varie esperienze musicali del Novecento avanzato? Anzi, se ancor più ci si approssima ai particolari strutturali di tale pianismo, non si può forse parlare di intuizioni folgoranti quando - ad esempio - si configurano nuvolosità e ventosità di eventi fonici da gruppen musik, gestazioni materiche che espressivamente e teoricamente sarebbero state esplorate non decenni dopo, ma "epoche" dopo? Ed altro ancora.
"Bogliasco per Skrjabin", stando ai presupposti da cui l'iniziativa ha preso avvio, dovrebbe essere un permanente omaggio alla personalità e all'opera di Skrjabin in quanto crocevia di interrogativi storici, di polivocità sinestetiche e di fertili "utopie". Dunque, dovrebbe essere un punto di riferimento per quello svisceramento critico del quale Armando Gentilucci denunciò, giustamente, l'inaccettabile ritardo.
Claudio Tempo (Musica Viva, Anno XV n.2, febbraio 1991)
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