Non è ciò che si fa che può essere nuovo, ma il modo di farlo. La «personalità del compositore conta nuovamente. Occorre procedere a tentoni ed avere fiducia». Oggi contano le idee e i pensieri inaspettati e nulla più di questa frase del compositore Alfred Schnittke (1934) può condensare con maggiore efficacia il senso profondo del suo comporre.
Scrivere di un artista contemporaneo della classe di Schnittke costituisce un'impresa assai ardua a causa dell'eseguità dei riferimenti critici; per questo si è costretti a confidare unicamente sulle riflessioni e le emozioni suscitate dall'ascolto diretto della sua musica e su sommarie indiscrezioni sulla sua persona.
Una condizione indispensabile per accostarvisi con la dovuta obiettività, è quella di evitare di orientare l'analisi critica secondo i paradigmi tipici della nostra cultura, e partire, cioè, da una prospettiva storica che lo inquadri in sequenza con le esperienze, più o meno recenti, dell'avanguardia europea. Peggio ancora sarebbe sviscerarne eventuali significati e valori attraverso un cavo critico di natura prettamente ideologica. Una tendenza che, seppure abbia influenzato e continui ad influenzare le giovani generazioni di compositori e storici europei, non può, per sua natura, adattarsi ad un contesto geopolitico radicalmente diverso dal nostro, dotato di sue specifiche connotazioni culturali; connotazioni in sé imprescindibili per la comprensione di un compositore che, nel bene e nel male, è di quel contesto uno specchio fedele.
Nonostante la «glasnost», dunque, è difficile per noi europei, abituati alla più totale libertà di espressione, forse solo virtuale, comprendere l'opera di un artista fecondo e polimorfo come Schnittke, appunto, costretto, suo malgrado, a conciliare ricerca e sperimentazione con una condizione esterna caratterizzata da un avvilente ostracismo, pervicacemente ancorata a preconcetti e rigorosi canoni estetici. Ma paradossalmente questi odiosi impedimenti sono stati degli stimoli potenti dell'attività creativa del compositore che, in quelle avverse condizioni, ha affidato i propri strumenti e dato corpo ad un linguaggio personale, originale ed universale insieme, che ha nella storia il suo orizzonte linguistico. Fare di Schnittke un baluardo contro le degenerazioni di certa avanguardia europea, in vero più che mai avvezza alla prassi del travestimento ideologico, è una forte tentazione, ma anche un grossolano abbaglio. In tal senso maggiore sarebbe, quindi, l'errore di associarlo alla corrente della «nuova semplicità», che in Europa, proprio sulle macerie della cosiddetta «avanguardia storica», ma non per questo negandola, ha cercato di ricostruire un sano rapporto con la propria identità tornando a riflettere, con mente sgombra da schemi preconcetti, su elementi teorici fondativi del proprio statuto, con la sana intenzione di recuperare alla musica la sua concreta, originaria natura comunicativa.
Al di là, quindi delle molteplici tendenze che oggigiorno orientano i contemporanei compositori europei, Schnittke è da analizzare come un artigiano che pone la propria sensibilità ed il proprio ingegno al servizio della musica e, perché no, del suo pubblico. In verità non può definirsi, a ragion veduta, un innovatore in senso stretto: il «risultato», la struttura comunicativa del comporre, l'uso della parodia e dell'artificio musicale, sono tutti sapidi ingredienti della sua poetica, che reinterpreta i valori storici integrandoli armoniosamente in un contesto formale ed espressivo di grande suggestione.
Il percorso formativo di Schnittke è quanto mai vario e, ad eccezione di due sue opere giovanili (Nagasaki del 1959 e Canti di guerra e di pace del 1960), non è fortunatamente scaduto nella retorica di regime che ha segnato in parte l'opera di alcuni suoi celebri modelli, in primis Sostakovic e Prokof'ev. Il suo atteggiamento verso il proprio tempo è sostanzialmente sarcastico, impietoso addirittura delirante. Egli strania l'ascoltatore con arditi procedimenti, con inaspettati cambiamenti di tempo, ritmo ed atmosfere, oscillando audacemente tra il sorriso bonario e rassicurante di Haydn e il ghigno mefistofelico di Sostakovic, in una alternanza di tragico e comico, sarcastico e allucinato, severo e giocoso. Le sue esperienze di vezzosa calligrafia musicale (Stille nacht, Suite in alten stil, etc.) sono invece immerse in una atmosfera profondamente melanconica. Una melanconia che affonda le sue radici nell'humus della antica cultura russa, una cultura popolare che ha mancato diversi e decisivi appuntamenti con la storia, dalla rivoluzione borghese a quella telematica.
L'originale polistilismo di Schnittke, appunto, intende colmare queste lacune, proiettando quelle esperienze sulla superfice instabile e schiava del presente, attraverso un gioco di combinazioni, implosioni e scontri della sintassi musicale. Abbiamo definito vario il percorso formativo di Schnittke. Di famiglia tedesca il compositore ha compiuto i sui primi studi musicali a Vienna, e conserva un ricordo intenso e nostalgico di quella città (pensiamo al suo «(K)ein sommernachtstraum»).
La sua vasta opera si articola sostanzialmente in tre fasi. Quella iniziale, alla fine degli anni Cinquanta, vede Schnittke seguire il tracciato imposto dalle autorità sovietiche, diplomandosi in direzione di coro presso l'accademia musicale «Rivoluzione di Ottobre» di Mosca, dando alle stampe i suoi primi lavori. Si trattava di due oratori perfettamente integrati nella tradizione ufficiale e permeati da certo pompierismo di maniera. Negli anni '60 Schnittke si rivolge ad uno studio approfondito dei parametri e delle strutture musicali, avvicinandosi alla contemporanea esperienza europea del serialismo integrale di Darmstadt. Sono di questi anni alcune delle sue composizioni più interessanti: il Concerto per violino n.1, la Sonata per violino e pianoforte, la stupenda Sonata per violino e orchestra da camera, ed il Concerto per violino n.2 in cui, seppure una sequenza di 12 note costituisca il fondamento tematico, nondimeno è possibile individuare un centro di gravidazione tonale (il periodico riapparire del sol). E' questo il tempo della fervida collaborazione con Denisov e Volkonskij a Mosca, in un clima arroventato dalle diatribe ideologiche e da una recrudescenza del rigore censorio. Il ricorso a strutture antiche ha inizio negli anni '70 con alcune composizioni come la Suite im alten stil e Stille nacht (sarcastica ed allucinata parodia sul celebre tema), in cui la calligrafia musicale manifesta un crescente interesse verso le componenti storiche del linguaggio. E' un inconsueto recupero degli idiomi perduti, che non si piega all'oleografia, ma immerge le immaggini poetiche di sfatte rovine lessicali in un ambito tematico moderno e graffiante. E' invece degli anni '80 il suo approdo al polistilismo maturo, che concilia in un contesto sincretico, linguaggi, stile e sonorità diverse ed apparentemente inconciliabili. Sulla linea dell'ultimo Sostakovic, Schnittke si dimostra capace di governare strutture ampie, il più delle volte addensando il materiale sonoro in grandi blocchi saturi di suono: è il caso dei suoi quattro concerti grossi (in cui si evocano forme tipiche del barocco insieme a palesi riferimenti a Mahler, Beethoveen etc), delle cinque sinfonie, dei due concerti per violoncello ed orchestra, della cantata. Soprattutto i concerti per strumento ad arco ed orchestra, sembrano come vitalizzati da una veste melodica di rara immediatezza espressiva, nella quale non è azzardato ipotizzare una celata intenzionalità autobiografica.
Negli ultimi tempi stampa, pubblico ed istituzioni hanno mostrato ampio interesse per Schnittke, ed una piccola casa discografica svedese, la BIS, contravvenendo finalmente alle rigide leggi di mercato, si è impegnata coraggiosamente nella registrazione dell'opera di Schnittke, avvalendosi di artisti prestigiosi e sicuramente affidabili. Alcuni tra questi, Lubotsky, Markiz, Krysa, Klas, come sono stretti collaboratori del compositore e spesso suoi committenti. Se questo è un segnale, c'è di che sperare per una diffusione «intelligente» della musica contemporanea.
di Francesco Caporale (Musicalia, Anno III n.12, feb/apr 1994)
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