Una parola da mandare volentieri nel ripostiglio è contaminazione. Molte furberie, cosucce origliate, personaggi di dubbia qualità cercano di darsi un tono superiore usando la contaminazione come griffe. La geografia della musica contemporanea negli ultimi anni si è allargata di questa nuova penisola, dove stanno pigiati insieme i contaminati, come in quarantena; un posto che vorrebbe essere di frontiera, ma che spesso somiglia di più a una periferia urbana, col suo brandello di pubblico giovanilistico un po' ghettizzato, che a furia di non muoversi di lì smette anche di esser giovane. I coloni di questa strisciolina di terra sono in genere figli di chi ha una storia alle spalle, e vorrebbero farsi capire dalla moltitudine che non ha alcuna storia di sé, un mare magno indifferente con coerenza a tutto ciò che non esiste dentro al televisore. Hanno come caratteristica un disperato bisogno di trovare una lingua qualunque per parlare.
L'idea di mescolare le culture, di sporcare il linguaggio alto con quello basso, di appiccicare con lo scotch frammenti del Nord e del Sud del mondo, non è sconosciuta al Novecento. L'ambiguità di questo procedimento però richiede una raffinatezza e una onestà artistica fuori dal comune. Di fronte a certi personaggi si rimane incerti, titubanti, come Ercole al bivio. Mi sta vendendo una patacca musicale, o sono io che non capisco lui? Questo Re è nudo davvero, o lo snobismo culturale non mi permette di vedere il velo delicato che lo avvolge?
Il Quartetto Balanescu appartiene a questo tipo di persone. Il braccio armato di parecchia musica di "contaminazione" è stato il quartetto d'archi: prima il Kronos Quartet, poi via via altri, tra cui quello di Alexander Balanescu. Il dubbio su di loro era forte, specie dopo gli ultimi dischi, come Luminitza. L'unico modo di schiarirsi le idee era di approfittare di un passaggio del Balanescu a Milano per conoscerli meglio.
Bisogna intendersi: il Balanescu Quartet è soprattutto lui, Alexander, perché gli altri leggii hanno un turnover vorticoso per un quartetto d'archi, e non c'è quasi disco con la stessa formazione. Durante l'intervista non usa mai la parola contaminazione. Invece parla quasi sempre di quello che proverà a realizzare domani, delle cose ancora da scoprire, come se la vita fosse una serie ininterrotta di cassetti da aprire. Se il futuro fosse la misura del contemporaneo, non ci sarebbe musicista più all'avanguardia.
Mi può dire che cos'è esattamente il Balanescu Quartet?
"Il Balanescu Quartet è forse più che altro un'idea, una concezione. Cerchiamo di uscire dalle convenzioni di un classico quartetto d'archi. Non perché ci sia un ricambio dei componenti, ma forse perché questa idea a volte cambia le persone. E' abbastanza difficile ottenere che i musicisti di formazione classica siano aperti. Noi cerchiamo sempre nuove cose, e non sempre è facile accettarlo. La preparazione tecnica deve essere quella di un musicista classico, ma poi bisogna essere disposti ad accettare esperienze nuove come l'improvvisazione, il suonare tutto a memoria senza nascondersi dietro lo spartito, l'asnetto teatrale della comunicazione."
Da dove proviene sia musicalmente che culturalmente?
"Ho cominciato a studiare musica da bambino a Bucarest, la mia città, in una scuola speciale. Si lavorava moltissimo, spesso la mia insegnante, che veniva dalla scuola di Enescu, mi ascoltava al mattino e poi di nuovo alla sera, per controllare quello che avevo studiato. Ma la preparazione era quasi esclusivamente di tipo solistico, molto tecnica, non ricordo di aver mai studiato musica da camera per esempio. Ho debuttato a nove anni in recital, e a dodici con l'orchestra. Nel '69 la mia famiglia emigrò in Israele; di lì continuai gli studi al Trinity College di Londra, e dal '75 alla Juilliard di New York con Dorothy Delay.
Della Romania di allora non ho dei ricordi molto buoni. Mio padre era un giornalista, un intellettuale non conformista col regime, così vivevamo in una situazione di incertezza, non eravamo mai sicuri di quel che poteva succedere. In più il fatto di essere ebrei era una complicazione ulteriore. I miei fratelli ed io siamo cresciuti con la convinzione che quello non fosse davvero il nostro paese, che dovevamo cercare di andarcene. Abbiamo aspettato cinque anni per avere il visto di uscita, e un altro anno per poter partire. Fu un anno molto eccitante, perché anche se mio padre perse il lavoro immediatamente, e altri guai, non ce ne importava più nulla; vendemmo tutto e alla fine partimmo per la Francia. Due anni fa sono tornato a suonare in Romania, dopo ventidue anni. E' stato molto interessante, ne ho avuto un'impressione molto diversa. Da adulto, ho cominciato ad apprezzare certe caratteristiche della cultura rumena, delle persone. Sento di avere delle radici in quella terra, anche se mi sento straniero fondamentalmente. I primi giorni, parlando alla gente per la strada, ero costretto a chiedere di ripetere quello che dicevano. Mi sono reso conto che parlo un rumeno con l'accento inglese, e un inglese con l'accento rumeno. Comunque mi diverte sentirmi un po' straniero in qualunque cultura."
Vale anche per la musica?
"Sì, mi piace che nella mia musica ci siano molte influenze. Non credo tuttavia che si possa catalogare la musica; infine l'unica categoria valida è bello o brutto. Penso che la musica etnica sia molto importante come fonte di ispirazione; naturalmente lo è anche la musica classica, o l'improvvisazione, il jazz, certe zone del pop, ma in un certo senso la musica etnica è la più importante, perché penetra molto a fondo. Ciò che mi interessa è di confrontare gli elementi, ogni volta che li trovo, della musica di ogni parte del mondo. Ci sono, secondo me, certi elementi molto basilari, connessi all'esistenza umana, che forse nella cultura occidentale sono diventati un po' separati dalla vita di ogni giorno. Nella musica popolare ci sono momenti molto importanti della vita legati alla musica, e amo l'idea che la musica sia qualcosa che guida l'esistenza."
Nella nostra esperienza però mi pare che la musica etnica sia più distante da noi di quanto lo sia per esempio la musica pop.
"Anche questo è interessante. Penso che ci sia un rapporto con lo sviluppo economico. In un paese meno avanzato economicamente come la Romania la musica popolare sopravvive in modo più forte. Per contrasto in un paese industrializzato come l'Inghilterra la vera musica folk è il pop. Quello che cerco di fare nella mia musica è di combinare le due cose, di prendere certi elementi del folk come il ritmo e l'emozione, e combinarli con elementi del pop. E' una sorta di musica popolare urbana."
Ma all'inizio lei è saltato dal repertorio classico a quello contemporaneo, entrando a far parte del Quartetto Arditti.
"Ho cominciato a interessarmi alla musica contemporanea quando ero alla Juilliard. Era una sorta di liberazione da quelli che mi sembravano i limiti del repertorio classico, certe imposizioni commerciali, certi schemi nel suonare i pezzi classici, certi criteri di interpretazione. Ho ascoltato a New York negli anni Settanta artisti che mi hanno acceso una scintilla come Laurie Anderson, Meredith Monk, Glenn Branca, Bob Ashley. Quando sono tornato in Inghilterra ho cominciato a lavorare nell'area della musica contemporanea, e nell'83 fui invitato dall'Arditti a unirmi a loro. Ne fui molto felice perché era esattamente ciò di cui avevo bisogno a quel tempo. Ho lavorato con loro per quattro anni, e ho imparato moltissimo sul modo di suonare in quartetto, sul repertorio contemporaneo. Ma mi rendevo conto sempre di più che quel tipo di musica non era completamente soddisfacente per me, perché l'enfasi posta sulla parte intellettuale era sproporzionata agli altri elementi. A quel punto ho fondato un mio quartetto. Ritengo che il quartetto d'archi sia un mezzo formidabile, attraverso il quale è possibile suonare nuova musica in modo più comunicativo con un pubblico vasto, che sia coinvolto non solo col cervello ma con tutto se stesso, con le proprie emozioni. Musica di contenuto ritmico, perché sento che il movimento è molto importante per la musica, ancora in relazione alla musica popolare di cui si diceva prima."
Quel carattere intellettualistico a cui si riferiva era dovuto alla personalità di Irvine Arditti, o era insita nelle composizionì stesse?
"A quel tempo penso che il Quartetto Arditti avesse un certo ruolo. La filosofia del quartetto era quella di essere al servizio del compositore, suonando un impressionante numero di nuovi lavori, più di cento all'anno, pezzi che quasi sempre venivano suonati solo una volta o due. Irvine era solito dire che in realtà non era lui a scegliere la musica, ma era la musica che veniva al quartetto. Non penso che alla fine questo sia corretto, ci deve essere una scelta, perché non si può suonare tutto. L'Arditti forniva una sorta di expertize tecnico, e in certi casi questo aveva un senso: in effetti autori di particolare complessità come Ferneyhough, Elliot Carter o Boulez li possono suonare solo loro. Per noi è diverso, perché penso che si debba scegliere chi suonare e per chi. Suoniamo anche spesso gli stessi pezzi, perché una nuova composizione ha una sua vita, un suo percorso che si sviluppa man mano che lo suoni."
I primi autori che il Balanescu ha suonato erano degli "eretici" come Michael Nyman e Gavin Bryars.
"Sì, ed era proprio per questo che sentivamo che la loro musica era importante, perché erano considerati la parte radicale del movimento post-modern, assieme alla musica di Arvo Pärt, di Gorecki. Ora sento il bisogno di cercare altra musica, altre direzioni. Uno come Nyman oggi fa parte dell'establisliment. In un contesto più ampio, tutto il minimalismo oggi non ha più quell'aspetto radicale che noi cerchiamo."
In seguito avete cercato autori che venivano da mondi ancora più lontani, come David Byrne e John Lurie.
"Sì, e l'abbiamo fatto con grande piacere. Cercavamo di trovare elementi interessanti in musicisti che non avessero una preparazione in alcun modo accademica. Lurie non scrive neppure la musica, perlomeno non in modo tradizionale. Abbiamo improvvisato, registrando, e poi sceglievamo ciò che ci sembrava riuscito, sviluppando il pezzo insieme. Ci costringeva a usare il quartetto d'archi dal punto di vista di uno che suona la chitarra. Penso che sia importante lavorare con musicisti che normalmente non usano il quartetto, ma che abbiano prospettive musicali molto aperte sulla nuova musica."
Accanto a queste collaborazioni col pop "intelligente" e con la musica d'improvvisazione, avete rapporti anche con compositori vorrei dire tradizionali, come Kevin Volans, gente che scrive partiture e ha un curriculum di studi. Sono interessi separati, o a volte sentite il bisogno di tornare a un rapporto più sicuro con l'autore?
"A dir la verità, si tratta di una relazione piuttosto interessante con due differenti case discografiche. Ha a che fare con la differente impostazione delle due etichette, una più attenta all'autore e l'altra più rivolta al tipo di ricerca che svolgiamo noi come quartetto. Il lavoro con Kevin Volans è interessante per via degli aspetti etnici molto forti della sua musica, in questo caso della musica africana. Si tratta di entrare nel linguaggio musicale di un'altra persona, fino al punto di sentirlo come proprio. Speriamo di sviluppare ancora il rapporto con lui. Cerchiamo anche altri rapporti, sebbene in questo momento siamo più orientati a guardare a musicisti di altri campi. Credo che sia necessario aspettare una nuova generazione che raccolga l'eredità di Gavin Bryars e di Nyman. E' curioso comunque che in questo momento i fenomeni nuovi siano iniziati più dagli esecutori, specie dai quartetti, piuttosto che dai compositori."
Lei come spiega il successo attuale del quartetto d'archi?
"Il quartetto ha una grande flessibilità, e poi costa molto meno di un'orchestra. Se vuoi tentare qualcosa di nuovo è molto più semplice farlo con quattro musicisti. Da questo punto di vista, il quartetto ha una ricca tradizione sperimentale, dai tempi di Haydn in poi. E' il mezzo col quale i compositori hanno provato le idee più radicali. Lo stesso Nyman per esempio ha sempre provato le idee col quartetto, prima di trasferirle alla sua orchestra. "
Vi considerate più un quartetto da sala di registrazione o da palcoscenico?
"Spero entrambi. Ma anche qui ritorna il discorso sulle etichette. Con la Mute il nostro lavoro è in pratica svolto in studio. Il lavoro al banco di missaggio, cioè, è altrettanto importante dell'esecuzione vera e propria. Con la Argo invece tendiamo più a documentare come si sviluppano le nostre esecuzioni in concerto, la parte di produzione del disco è ridotta."
Prima di concludere vorrei che mi dicesse nell'ordine qual è la canzone, il film e il libro, che lei preferisce.
"Superman di Laurie Anderson, Otto e mezzo di Fellini, La metamorfosi di Kafka".
(Musica Viva, Anno XVIII, dicembre 1994)
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