Il preludio strumentale del Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart è condotto da corni di bassetto e fagotti, sui quali, quasi con grazia, giungono degli archi a presentare delle figure. Seguendo lo spartito, si ha l'impressione che il loro compito sia quello di mimare un singhiozzo: ora sono acuti, ora gravi, ora li diresti dondolanti di pianto. Alla battuta 7 il musicista ordina a tromboni, trombe e timpani di irrompere in scena. Con il loro suono essi devastano la dolce tristezza che si era creata. Urlano sul rigo, anche nel silenzio dello spartito, così come i dannati dipinti da Michelangelo nella sistina emettono eterne smorfie trattenute soltanto dall'affresco. Urlano e par che dicano: ecco, la Morte è sì dolce compagna, ma è anche la soglia di un giudizio.
Se volete cercar pace in questa sconvolgente partitura, dovrete recarvi alle battute 17-20, dopo le parole "luceat eis". Qui la Morte riprende sembianze tranquille. Vi sono preghiere comuni che tutti fanno abbracciare nella consolazione quindi giunge il Kyrie, momento ove si invoca la misericordia divina. La musica è trasformata da Mozart in una serie di domande personali attraverso l'omofonia. Alle note è dato un compito di supplica: perdonami, o Signore. Il tutto e l'uomo si affrontano. Il Dies Irae giunge senza pietà con i suoi colori: è il momento del giudizio e i morti vengono destati dal sonno della carne per esser testimoni della tragedia. Il tempo cessa il suo procedere. Ora tutto diventa eterno. Il fa maggiore, che qui si ha condotto, ve lo ricordate dolce nei canti sacerdotali del Flauto magico. Ma allora era altra la situazione. Non occorreva compiere questa danza senza pace intorno al re minore per comprendere cosa ci attende dopo. Una danza senza pietà, che Mozart conosce da tempo. Eccola in una lettera del 4 aprile 1787, indirizzata al padre, dove egli confessa: "... da qualche anno sono entrato in tanta famigliarità con quest'amica sincera e carissima dell'uomo, che la sua immagine non solo non ha per me nulla di terrificante, ma mi appare addirittura molto tranquillizzante e consolante". Nella Morte è "la chiave della nostra vera felicità".
Ora, se volessimo sottoporre al vaglio della filologia questa nostra ricostruzione, troveremmo difficoltà non comuni. La più evidente resta la solita: discernere nella partitura le parti autentiche di Mozart dalle integrazioni e dai completamenti e Sussmayr. Come si sa, il Requiem non venne suggellato dalla morente Wolfgang Amadeus e l'amico Franz Xaver Sussmayr portò a termine il Lacrimosa, compose il Sanctus, il Benedictus e l'Agnus Dei. E' pur vero che noi ci siamo soffermati su parti iniziali, sicuramente di mano del sommo musicista, ma simili considerazioni le potevamo tentare anche sulle parti integrate. E allora?
La risposta che dovesse tener conto di tutti i carismi della filologia, sarebbe così complicata che il lettore non ci perdonerebbe la licenza. Occorre il criterio del buon senso per procedere . E tale metodo ci viene suggerito da un esperto non
sospetto quale Nikolaus Harnoncourt: "Secondo me, anche quei movimenti sono di Mozart, vuoi che Sussmayr fosse astuto a tal punto, vuoi che Mozart, nel corso della loro collaborazione, abbia suonato queste composizioni che sarebbero rimaste scolpite nella memoria di Sussmayr".
L'affermazione, che abbiamo tolta dal volume Il discorso musicale, scritti su Monteverdi, Bach, Mozart (ed. Jaca Book, pagg. 266 L.29.000), da poco pubblicato in traduzione italiana, ci permette di accostarci col ricordato criterio del buon senso a questioni tanto spinose. Come è noto, Harnoncourt è musicologo amante dei criteri filologici e direttore che ha accolto a piene mani il progetto di eseguire con strumenti originali (tutte le sue incisioni sono pubblicate dalla Telefunken). Uscita dalla sua penna, tale concezione ci sembra quasi rivoluzionaria.
Eppure, a ben guardare, non è possibile seguire altra strada.
Sussmayr era compositore modesto, mediocre nelle soluzioni, incapace di concepire un Requiem come quello ricordato (almeno, confrontandolo con quello che di lui è rimasto). La filologia deve, in questo caso, cedere il passo. Conviene credere alla tradizione.
Ma, se dal Requiem passiamo ad altri quesiti, quali l'esecuzione con strumenti originali? Harnoncourt affronta il tema in un saggio contenuto nel libro citato, precisamente parla del problema nel suo ambito più delicato. Esaminando l'"immagine sonora della musica medievale", egli passa in rassegna le caratteristiche dei vari strumenti. Il liuto nel medioevo veniva suonato con un plettro di penna e aveva corde metalliche il cornetto muto - usato con molta frequenza al tempo di Leonardo - era più vicino al clarinetto di quanto pensassimo i tromboni emettevano un suono vellutato, oggi difficile da immaginare. E così di seguito.
Harnoncourt giunge a una conclusione: la musica di ogni corrente stilistica, di ogni epoca suona meglio, e in modo più convincente, nel sistema di accordi per cui è stata scritta. Se gli strumenti antichi non danno la resa dei contemporanei, dobbiamo tener presente anche la natura delle antiche composizioni. "Non posso immaginare - scrive Harnoncourt - che dei compositori di genio, che del resto erano sempre essi stessi esecutori e le cui opere erano incontestabilmente destinate all'uso del loro tempo, abbiamo potuto scrivere delle opere sublimi che poi sarebbero state sfigurate da esecuzioni carenti". Ci sembra tutto. La filologia viene sempre dopo il buon senso. Non la si deve pensare come un metodo stravagante, adatto a musicisti di bassa capacità , che ricostruisce spartiti con strumenti obsoleti, evocando note sgangherate. E' qualcosa che potrà darci piacevoli sorprese. Soprattutto potrà farci risentire musiche antiche in maniera ottimale: cioè rendendole quanto più è possibile nella loro forma originale.
Se tale ipotesi vi va bene, allora considerate Sussmayr il primo dei filologi musicali. Con l'aiuto del buon senso, capirete il suo disegno. L'unica cosa che vi stupirà resta il suo sangue freddo. In fondo ha ricostruito filologicamente la Morte.
Se volete cercar pace in questa sconvolgente partitura, dovrete recarvi alle battute 17-20, dopo le parole "luceat eis". Qui la Morte riprende sembianze tranquille. Vi sono preghiere comuni che tutti fanno abbracciare nella consolazione quindi giunge il Kyrie, momento ove si invoca la misericordia divina. La musica è trasformata da Mozart in una serie di domande personali attraverso l'omofonia. Alle note è dato un compito di supplica: perdonami, o Signore. Il tutto e l'uomo si affrontano. Il Dies Irae giunge senza pietà con i suoi colori: è il momento del giudizio e i morti vengono destati dal sonno della carne per esser testimoni della tragedia. Il tempo cessa il suo procedere. Ora tutto diventa eterno. Il fa maggiore, che qui si ha condotto, ve lo ricordate dolce nei canti sacerdotali del Flauto magico. Ma allora era altra la situazione. Non occorreva compiere questa danza senza pace intorno al re minore per comprendere cosa ci attende dopo. Una danza senza pietà, che Mozart conosce da tempo. Eccola in una lettera del 4 aprile 1787, indirizzata al padre, dove egli confessa: "... da qualche anno sono entrato in tanta famigliarità con quest'amica sincera e carissima dell'uomo, che la sua immagine non solo non ha per me nulla di terrificante, ma mi appare addirittura molto tranquillizzante e consolante". Nella Morte è "la chiave della nostra vera felicità".
Ora, se volessimo sottoporre al vaglio della filologia questa nostra ricostruzione, troveremmo difficoltà non comuni. La più evidente resta la solita: discernere nella partitura le parti autentiche di Mozart dalle integrazioni e dai completamenti e Sussmayr. Come si sa, il Requiem non venne suggellato dalla morente Wolfgang Amadeus e l'amico Franz Xaver Sussmayr portò a termine il Lacrimosa, compose il Sanctus, il Benedictus e l'Agnus Dei. E' pur vero che noi ci siamo soffermati su parti iniziali, sicuramente di mano del sommo musicista, ma simili considerazioni le potevamo tentare anche sulle parti integrate. E allora?
La risposta che dovesse tener conto di tutti i carismi della filologia, sarebbe così complicata che il lettore non ci perdonerebbe la licenza. Occorre il criterio del buon senso per procedere . E tale metodo ci viene suggerito da un esperto non
sospetto quale Nikolaus Harnoncourt: "Secondo me, anche quei movimenti sono di Mozart, vuoi che Sussmayr fosse astuto a tal punto, vuoi che Mozart, nel corso della loro collaborazione, abbia suonato queste composizioni che sarebbero rimaste scolpite nella memoria di Sussmayr".
L'affermazione, che abbiamo tolta dal volume Il discorso musicale, scritti su Monteverdi, Bach, Mozart (ed. Jaca Book, pagg. 266 L.29.000), da poco pubblicato in traduzione italiana, ci permette di accostarci col ricordato criterio del buon senso a questioni tanto spinose. Come è noto, Harnoncourt è musicologo amante dei criteri filologici e direttore che ha accolto a piene mani il progetto di eseguire con strumenti originali (tutte le sue incisioni sono pubblicate dalla Telefunken). Uscita dalla sua penna, tale concezione ci sembra quasi rivoluzionaria.
Eppure, a ben guardare, non è possibile seguire altra strada.
Sussmayr era compositore modesto, mediocre nelle soluzioni, incapace di concepire un Requiem come quello ricordato (almeno, confrontandolo con quello che di lui è rimasto). La filologia deve, in questo caso, cedere il passo. Conviene credere alla tradizione.
Ma, se dal Requiem passiamo ad altri quesiti, quali l'esecuzione con strumenti originali? Harnoncourt affronta il tema in un saggio contenuto nel libro citato, precisamente parla del problema nel suo ambito più delicato. Esaminando l'"immagine sonora della musica medievale", egli passa in rassegna le caratteristiche dei vari strumenti. Il liuto nel medioevo veniva suonato con un plettro di penna e aveva corde metalliche il cornetto muto - usato con molta frequenza al tempo di Leonardo - era più vicino al clarinetto di quanto pensassimo i tromboni emettevano un suono vellutato, oggi difficile da immaginare. E così di seguito.
Harnoncourt giunge a una conclusione: la musica di ogni corrente stilistica, di ogni epoca suona meglio, e in modo più convincente, nel sistema di accordi per cui è stata scritta. Se gli strumenti antichi non danno la resa dei contemporanei, dobbiamo tener presente anche la natura delle antiche composizioni. "Non posso immaginare - scrive Harnoncourt - che dei compositori di genio, che del resto erano sempre essi stessi esecutori e le cui opere erano incontestabilmente destinate all'uso del loro tempo, abbiamo potuto scrivere delle opere sublimi che poi sarebbero state sfigurate da esecuzioni carenti". Ci sembra tutto. La filologia viene sempre dopo il buon senso. Non la si deve pensare come un metodo stravagante, adatto a musicisti di bassa capacità , che ricostruisce spartiti con strumenti obsoleti, evocando note sgangherate. E' qualcosa che potrà darci piacevoli sorprese. Soprattutto potrà farci risentire musiche antiche in maniera ottimale: cioè rendendole quanto più è possibile nella loro forma originale.
Se tale ipotesi vi va bene, allora considerate Sussmayr il primo dei filologi musicali. Con l'aiuto del buon senso, capirete il suo disegno. L'unica cosa che vi stupirà resta il suo sangue freddo. In fondo ha ricostruito filologicamente la Morte.
di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 26/4/1987)
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