Dopo una cenetta amichevole in un tipico ristorante fiorentino, stavo rincasando in compagnia del Maestro Diamand, direttore del Festival di Edinburgo, per raggiungere il nostro albergo poco distante.
Mezzanotte era scoccata appena. Intorno era tutto silenzio.
Si udiva solamente il rumore dei nostri passi nelle inquietanti viuzze della vecchia Firenze.
Si camminava in fretta perché l'ora era propizia a degli incontri poco desiderabili.
Infatti, dopo un po' ci accorgemmmo che qualcuno ci stava inseguendo a poca distanza. Ci guardammo con il buon Maestro Diamand e senza proferir parola allungammo il passo.
Anche l'inseguitore fece altrettanto. Noi, allora, ci mettemmo quasi a correre, mentre il tipaccio ci stava già raggiungendo velocemente. Furtivo diedi un'occhiata all'indietro e vidi un omaccione grande e molto grosso, con una barba incolta, una sciarpa intorno al collo che gli copriva metà del volto, con un cappellino a caschetto, calato sugli occhi. Ansimava pure lui e sembrava deciso a metterci le mani addosso.
Il Maestro Diamand, pallido e spaventato mi disse trafelato: «Caro Raffaele, a questo punto sarà meglio fermarsi e non opporre resistenza, anzi, diamogli il portafogli e che se ne vada al diavolo».
Mi sembrò un buon consiglio, tanto, a quell'ora, sarebbe stato inutile fare gli errori di fronte ad un colosso del genere.
Così ci fermammo porgendo i nostri soldi, ma l'energumeno si buttò con tutta la sua mole al colle del povero Diamand ed ansimando fortemente, disse con una voce acuta e nasale: «Caro Maestro, Lei sarà, senz'altro, venuto a Firenze, per sentire domani sera la mia Bohème».
Il tipaccio, l'energumeno, l'omaccione grande e grosso altri non era che il nostro caro Luciano Pavarotti.
da "I ricordi teatrali" di Raffaele Arié
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