Per quanto possa apparire strano a chiunque conosca e ami la Sinfonia n.9 in Mi minore op. 95 "Dal Nuovo Mondo", quest'opera non ha quasi mai goduto di buona stampa presso la critica specializzata, sia tedesca che anglosassone, che muovendo spesso da considerazioni formalistiche ha rimproverato a quest'opera minore unità strutturale rispetto alle sinfonie precedenti, maggior schematicità negli sviluppi, e idee melodiche meno originali (sic). A leggere gli appunti che vengono mossi a questo capolavoro, fin da subito amatissimo dal pubblico di tutto il mondo, c'è da restare in effetti a bocca aperta. Premesso che il rispetto dell'unità formale basato sui canoni della manualistica tedesca altro non è che un feticcio di cui ci si dovrà prima o poi sbarazzare, lo stupore di quei critici che, come Robert Layton nel suo Dvorák, Symphonies & Concertos, continuano ancora a domandarsi stupiti perché questa sinfonia è universalmente celebre, mentre la Sesta e la Settima sono ancora poco conosciute, dovrebbe farci riflettere sulla miseria della musicologia. La risposta, in effetti, è banale; ciò che distingue questa sinfonia da tutte le altre del compositore boemo, e la rende di gran lunga superiore ad esse, è il suo spiccato senso di individualità, l'atmosfera unica che in essa si respira dal principio alla fine, la lapidaria potenza dei suoi temi, la loro meravigliosa e indimenticabile tournure melodica. Che poi a tutto questo Dvorák abbia sacrificato dei dettagli, che il melodizzare sia più schematico che nelle sinfonie precedenti, e che gli sviluppi, con grande delusione dei musicologi tedeschi e anglosassoni, siano più sbrigativi che altrove, lungi dal costituire un difetto, è diretta conseguenza delle premesse: e rimproverarlo a Dvorák significa semplicemente non aver capito nulla della sua arte.
La genesi della Nona Sinfonia è del resto nota. Chiamato nel 1892 a dirigere il Conservatorio di New York, da poco fondato, Dvorák si recò negli Stati Uniti e vi rimase per circa tre anni. Nel corso del suo soggiorno, che non fu privo di disillusioni, nostalgia e amarezze, Dvorák si interessò, sebbene in modo abbastanza superficiale, alla musica degli Indiani d'America e a quella delle popolazioni negre. Un'intervista da lui rilasciata al «New York Herald», in cui sostiene un'improbabile affinità tra il linguaggio musicale dei pellerossa e della gente di colore, ci dà la misura di quanto poco approfondita fosse la conoscenza delle problematiche musicali di quelle popolazioni, e come il suo approccio ad esse fosse sostanzialmente quello di un turista curioso.
La Sinfonia in Mi minore op.95, che Dvorák scrisse nel 1893 nel corso di uno di quei periodi ricchi di ispirazione e di opere felici che sono tipici della sua vicenda creativa, riflette per l'appunto il suo interesse per queste nuove civiltà musicali che fino a quel momento aveva ignorato, ed esprime, al tempo stesso, la nostalgia per la patria lontana. Ma Dvorák non si accostò al folclore musicale d'America con l'interesse di un etnologo, così come mai aveva fatto, del resto, con la musica popolare del suo paese. Dvorák conosceva bene il Song of Hiawatha di Longfellow, e il funerale di Minnehaha costituisce sicuramente la fonte di ispirazione per il movimento lento della sinfonia, così come lo Scherzo è a sua volta correlabile in qualche modo a una danza indiana. Ma, come egli stesso ebbe a scrivere nell'introduzione della sua sinfonia, «ho scritto semplicemente temi originali incorporando le peculiarità della musica degli Indiani, e usando questi temi come soggetti, li ho sviluppati con tutte le risorse dei ritmi moderni, dell'armonia, del contrappunto e del colore orchestrale».
Articolata nei quattro movimenti consueti, la Sinfonia "Dal Nuovo Mondo" si apre sulle note misteriose di un Adagio introduttivo che sfocia in un Allegro molto dalla scrittura concisa e piena di forza, in cui le improvvise esplosioni di una travolgente energia orchestrale, il marcato contrasto tra la vigoria selvaggia del primo tema e il candido lirismo del secondo, la genialità di un'orchestrazione in cui il trattamento degli ottoni sembra rifarsi con tutta chiarezza alla "Grande" di Schubert, formano la sostanza di una pagina che non si potrebbe definire altrimenti che eccitante.
Anche i critici meno favorevoli di questa sinfonia hanno sempre convenuto sulla bellezza del movimento lento, un Largo in Re bemolle maggiore in cui, sullo sfondo di un morbido accompagnamento degli archi, si innalza, malinconica e piena di languore, la commossa melodia del corno inglese. La sezione centrale, in Do diesis minore, tutta dominata dalle calde e sognanti melodie degli archi e dei legni, è altrettanto ricca di suggestione; la ripresa del tema iniziale conduce a una conclusione in pianissimo di grande effetto. Segue lo Scherzo, in 3/4, una pagina di taglio caratteristico con la sua energia percussiva e i suoi incantevoli intermezzi lirici: il Trio, in particolare, sembra ancora una volta un omaggio all'amatissimo Schubert.
Il Finale, ampiamente sviluppato, può essere considerato come «il fulcro dell'intera composizione», secondo l'esatta definizione di Karl Schumann. Più di ogni altra sinfonia di Dvorák, in effetti, la Sinfonia "Dal Nuovo Mondo" può essere considerata come una Final-Symphonie. Questo Allegro con fuoco conclusivo, debitore anch'esso per la sua parte nei confronti della Sinfonia in Do maggiore di Schubert, costituisce al tempo stesso l'apice e il riassunto ideale dell'intera composizione: poco prima della conclusione, infatti, Dvorák ripropone alcuni dei motivi più importanti ascoltati nei tre movimenti precedenti.
Nello spirito, questo incalzante Allegro con fuoco si ricollega direttamente al movimento iniziale: con le sue fanfare trionfali, il suo indimenticabile motto iniziale e il magistrale trattamento degli ottoni, è un brano di pura eccitazione sonora, un'apoteosi gioiosa nel segno di un ottimismo senza incrinature.
di Danilo Prefumo (Musica & Dossier, Anno VIII n.64, nov/dic 1993)
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