Sarajevo, giugno 1994. Arrivare a Sarajevo è complesso e difficile. Via terra è un’avventura decisamente sconsigliabile, ma anche in aereo il viaggio non è privo di insidie. A Spalato saliamo su un Hercules dell’aeronautica francese. Prima di salire a bordo ci fanno indossare un giubbotto antiproiettile. Dopo l’atterraggio, eseguito eseguendo la procedura di sicurezza (discesa rapida in picchiata, per volare il meno possibile a bassa quota), passiamo davanti al ponte davanti al quale le parti nemiche si scambiano i prigionieri. I pochi vetri superstiti sono tenuti insieme dal nastro adesivo. Dall’albergo, poco prima del concerto, si sentono pochi, ma vicini colpi d’arma da fuoco. L’indomani leggeremo sui giornali che i cecchini serbi hanno ucciso un uomo. Il contesto ispira i toni del corrispondente di guerra, piuttosto che del ritico musicale. Ma non è per questo che siamo venuti.
All’ingresso della biblioteca di Sarajevo, luogo designato per il concerto, vi sono poche persone, e pochissime sono le sedie predisposte all’interno per gli spettatori: non più di un centinaio, dislocate nell’atrio e nelle gallerie laterali. E’ un concerto pubblico, ma in realtà l’evento ha più che altro un risvolto politico, ed è concepito come manifestazione essenzialmente televisiva. Si cammina senza sapere dove guardare, se in terra, per evitare di inciampare nelle macerie, o in aria, il tetto che non c’è o i capitelli di marmo scalfiti dalle bombe e le volte sgretolate. E’ difficile non essere rapiti in un luogo simile, che suscita al tempo stesso attrazione e repulsione, suscitando meraviglia, orrore e vergogna. Inoltre, l’illuminazione allestita per le riprese, tutta sui toni del viola, puntata sulle travi metalliche deformate dal calore degli incendi, sui muri sventrati e sui cumuli di mattoni, aggiunge ulteriore drammaticità a un contesto già di per sé allucinante.
Sono presenti al concerto diverse autorità italiane, i capi militari dell’Unprofor, tra i quali il generale Soubirou, comandante in capo della zona di Sarajevo. All’ultimo minuto arriva anche il presidente bosniaco Itzebegovic. Poi, Zubin Mehta sale sul podio, e con il suo gesto inconfondibile, preciso e perentorio, dà l’attacco dell’unico brano in programma, il Requiem di Mozart. Orchestra e Coro sono quelli dell’Opera di Sarajevo, che, avendo perso durante la guerra ben dodici elementi, hanno fatto ricorso in questa circostanza alla collaborazione di colleghi provenienti da Ljubljana. Non suonavano insieme da due anni. Prima dell’arrivo di Mehta, il giovane direttore italiano Stefano Pellegrini ha lavorato con l’orchestra per due mesi, rimettendone faticosamente insieme le sezioni e lo spirito. Mehta affronta i numeri della partitura uno dopo l’altro, staccando tempi rapidi e marcati che filano via togliendo ogni desiderio di commento. I solisti – Cecilia Gasdia, Hildeco Kolosi, José Carreras e Ruggero Raimondi – hanno facce tese, scure. Il direttore canta per tutto il tempo, senza mai guardare la partitura. Per sua espressa volontà, l’esecuzione termina con quindici secondi di silenzioso raccoglimento, prima degli applausi. Ma applausi a parte, ciò che più conta è che la musica abbia riportato la biblioteca – edificio tra i più significativi della nostra civiltà – alla sua precipua finalità di conservazione e di diffusione dei valori umani. E restituendola alla sua funzione in un certo senso la si ri-costituisce, rendendole la vita.
Dopo il concerto si è svolto un ricevimento al quale hanno preso parte gli ospiti e gli organizzatori della manifestazione. Molti gli italiani presenti, dato che il concerto è stato promosso dalla città di Sarajevo con il contributo dell’Associazione Culturale “Opera Italiana” di Venezia. Solisti e direttore si sono esibiti gratuitamente, e le spese sono state pagate con la vendita dei diritti televisivi. L’indomani mattina, andando verso l’aeroporto, torniamo a passare davanti al ponte dei prigionieri. Abbiamo creduto di essere venuti a Sarajevo per il concerto, e invece ora comprendiamo che è proprio per il ponte che ci troviamo lì. Il senso del concerto, il senso di questa messa, forse, è quello di riportare l’attenzione sulla città e su un altro dei suoi luoghi simbolici, contraltare della biblioteca: la musica ci è servita per capire l’orrore di questo ponte, emblema di una guerra che continua.
Armando Menicacci
da Musicalia (Anno III n.16, ott/nov 1994)
Nessun commento:
Posta un commento