Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, marzo 24, 2007

I Quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (II)

DALL'OPERA 59 ALL'OPERA 95
Nei tre Quartetti op. 59, pubblicati nel 1808 ma composti entro il 1803 per invito del conte Andrej Kyrillovic Rasumovskij, ambasciatore dello zar presso la Corte di Vienna, Beethoven assume nel quartetto d'archi l'imponenza formale, la densità strutturale e l'epica eloquenza già raggiunte nel dominio sinfonico, potenziando così un medium strumentale d'inaudite risorse senza per questo snaturarne la specificità: al contrario esaltandola e ampliandone gli orizzonti.

Ciò risulta evidente fin dal primo tempo del Quartetto in Do maggiore che apre la serie, dove la lunga fascia di accordi ribattuti a sostegno del dolce e trionfale motivo che germina dalla voce calda del violoncello, da vieta formula di accompagnamento si fa (come già era avvenuto nel Quintetto K. 515 di Mozart, che Beethoven non poté non avere presente) elemento fondamentale di quell'ampliamento del campo tonale sperimentato in modo precipuo nella Terza Sinfonia. Un sottile gioco di contrasti ritmici e fonici, e l'estrema iridescenza armonica di un discorso apparentemente svagato sono le caratteristiche del magico Allegretto rivace e sempre scherzando, che per la sua straordinaria estensione esorbita dalle normali dimensioni e funzioni di uno Scherzo, prefigurando la tipologia di quei movimenti "leggeri" che negli ultimi Quartetti talora sostituiranno gli Adagi o Andanti di tipo serioso: si pensi all'Andante con moto dell'op. 130. Nell'op. 59 n. I il movimento serioso è rappresentato da un Adagio molto e mesto in fa minore, la cui fitta innervatura polifonica, entro la quale serpeggia il canto, si scioglie progressivamente in un divisionismo sonoro a valori minimi concluso con una specie di vasta cadenza del primo violino, il quale plana sul "terna russo" del Finale, gioiosa pagina liberatoria tutta fremente di trilli e di brillanti figurazioni strumentali.
Più conciso ed improntato ad un lirismo cavalleresco e febbrile, quasi schumanniano, il secondo Quartetto in mi minore contiene il suo omaggio motivico al nobile committente russo nello Scherzo Allegretto, un brano contrassegnato da un fervido fraseggiare tutto impennate e ricadute, nel cui Trio fa la sua comparsa in tono lieve e scherzoso il celebre "Slava Bogu na Nebe Slava" (Gloria a Dio nei cieli, gloria) che Musorgskij introdurrà nella scena dell'incoronazione del Boris. Neppure il Finale, col noto attacco a sorpresa della frase che inizia in Do maggiore per terminare in mi minore, elude il clima generale di una composizione che Schumann avrebbe posto sotto l'egida di Florestan.

Di segno contrario appare il terzo Quartetto in Do maggiore, aperto da una breve introduzione accordale: un cordiale omaggio ad Haydn, alla sua spiritosa e virile nonchalance e alla sua scioltezza di mano, realizzato nello spirito di un certo oggettivismo costruttivo e di una gratuita gioia di "far musica" in contrasto con la tensione espressiva dei precedenti lavori. L'Andante con moto, quasi Allegretto, quasi una pastorale dai toni flebili e svagati, è tutta percorsa dal brivido misterioso del pizzicato del violoncello, mentre con il "Minuetto grazioso" i compiacimenti evocativi di un Settecento rivisitato con un atteggiamento intellettuale che chiameremmo estetizzante raggiungono il climax. Un Allegro molto fugato si snoda quindi sotto l'imperio di una pulsazione ritmica che finisce per inglobare nella propria realtà strutturale la stessa entità tematica del soggetto contrappuntistico.

Nell'intervallo di diciotto anni che separa i "Quartetti Rasumovskij" dal gruppo omogeneo degli ultimi capolavori, incontriamo altri due quartetti isolati: creazioni problematiche e stimolanti, presentano notevoli affinità di linguaggio e ispirazione e sono entrambe caratterizzate da un inquieto sperimentalismo che ne fa delle tipiche opere di transizione. Questo è particolarmente vero per il Quartetto in Mi bemolle maggiore op. 74, portato a termine nel 1809 e pubblicato l'anno seguente. Nell'Allegro iniziale, preceduto da un'introduzione lenta "sottovoce", Beethoven sembra perseguire l'intento di ricavare gli effetti più inusitati da materiali di una semplicità estrema. L'elemento strutturale che ha procurato al lavoro l'appellativo di "Quartetto delle arpe", ossia i ricorrenti "pizzicato", appare fin dall'undicesima misura, attraversando dal basso all'alto il tessuto strumentale, per poi dominare col suo colore "impressionistico" lo sviluppo e la ripresa. Verso la fine, il primo violino assume sorprendentemente un vistoso ruolo concertante, emergendo prima sul "pizzicato", poi sul canto imitato del secondo e della viola. Tanto più omogeneo è invece l'Adagio non troppo che prelude al rarefatto lirismo dei movimenti lenti degli ultimi Quartetti. Dopo un vigoroso Presto in do minore - col suo tema martellante che richiama quello della Quinta Sinfonia - e il vorticoso Trio, il Quartetto si conclude con una serie di variazioni su un semplice motivo, innocente e liederistico, dove il materiale viene organizzato con estremo rigore in sei episodi che sono forse il più esemplare modello d'integralismo strutturale beethoveniano: altrettanti esempi di permutazione ritmica, melodica, timbrica, dinamica e persino di attacco di suono.

Il Quartetto in fa minore op. 95, composto nel 1810 e pubblicato nel 1816, accentua l'ambiguità della sua comunicazione espressiva nei violenti chiaroscuri, nelle brusche impennate e nei trasalimenti ritmici dell'Allegro con brio, quasi un inquieto soliloquio che prosegue nell'Allegretto ma non troppo nel quale il finissimo ordito polifonico e l'iridescenza delle armonie accentuano l'enigmaticità del suo lieve sorriso di sfinge. Il movimento porta ininterrottamente all'Allegro assai vivace ma serioso, col tortuoso giro armonico del Trio; del pari un breve Larghetto espressivo è collegato all'Allegretto agitato finale, dallo splendido motivo fervidamente appassionato. Siamo così introdotti in quella ideale continuità di discorso (realizzata in una fluttuazione d'immagini musicali in apparente libertà, in realtà governate da una formidabile logica interna), che presiederà all'universo degli ultimi Quartetti trovando la sua espressione più radicale nell'op. 131.

di Giovanni Carlo Ballola (Philips, (p) 1989)

venerdì, marzo 16, 2007

I Quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (I)

Alla fine del Settecento il quartetto per archi si trovava diviso su due fronti stilistici dai percorsi antitetici e paralleli, anche se non privi d'interscambi occasionali. Da una parte, in un arco compreso tra la Madrid di Boccherini, la Lombardia di Rolla, la Torino degli ultimi rappresentanti della scuola piemontese, e la Parigi di Baillot, Kreutzer, Rode, Saint-Georges, Pleyel e degl'italiani déracinés (Viotti, Cambini, Giardini, Bruni, Radicati), fiorisce l'effimero "impero d'occidente" del quartetto "concertante" e/o "brillante", destinato all'esecutore virtuoso e al concerto pubblico. E' una produzione promossa dalla grande editoria e caratterizzata dalle attrattive dell'edonismo e dei virtuosismo: tante piacevoli melodie allineate in un rilassato contenitore sonatistico, dove il principio dell'elaborazione tematica è in gran parte - se non proprio del tutto - sostituito da quelle della ripetizione attraverso i piani armonici di elementari progressioni.
A Vienna abbiamo invece, come tutti sanno, l'esatto opposto, germogliato dal seme haydniano e incrementato dall'esperienza di Mozart. Il quale sul ceppo del suo grande contemporaneo aveva innestato la profondità della sua sensibilità armonica, la sterminata ricchezza della sua inventiva melodica, il suo senso del dramma e del pathos: non senza qualche spregiudicata incursione (con i Quartetti "prussiani") nei territori di quell'amabilità concertante rigorosamente rifiutata dal radicalismo di Haydn, intento a sviluppare al massimo grado quel principio elaborativo che si può riassumere con questa formula: ricavare il massimo dal minimo, attraverso l'arte di "rovistare nel tema", come un secolo dopo dirà Brahms.
E' a questo punto che s'innesta il primo contributo di Beethoven a una civiltà quartettistica viennese giunta, dopo Mozart e tuttora operante il vecchio Haydn con i suoi ultimi capolavori, a un punto di estrema saturazione stilistica. L'opera 18 (1798-1800) giunge buon'ultima, dopo anni dedicati ad una produzione cameristica incentrata nel pianoforte, lo strumento che aveva accompagnato l'ascesa di Beethoven come compositore-concertista. I sei Quartetti filtrano così il loro approccio all'eredità haydn-mozartiana attraverso un'esperienza intensamente personale, quella di opere come i Trii op. 1, le Sonate op. 2 e op. 7, quelle op. 5 per pianoforte e violoncello e op. 12 per piano e violino che già avevano fatto esplodere il delicato e imperfettibile equilibrio sonatistico dei predecessori. Non è possibile giudicare questi sei ambiziosi Quartetti, puntigliosamente elaborati nella consapevolezza dell'immenso rischio che comportava l'esordio in un genere ritenuto al vertice della professionalità di un musicista, senza tener conto che nel frattempo i modelli viennesi (di Haydn e del Mozart dei sei Quartetti op. 10 dedicati ad Haydn) si erano troppo allontanati e andavano in qualche modo sostituiti. Ecco quindi che Beethoven adatta al medium quartettistico strutture e procedimenti eccentrici, accentuando, da una parte, certi tratti di estrosità haydniana nella scelta di motivi piccanti soprattutto per i tempi veloci e gli scherzi o minuetti, dando fondo alla cantabilità nei movimenti centrali, addensando le sonorità, levigando gli spigoli di Haydn e le asperità armoniche di Mozart in una generalizzata, florida eufonia.
La prodigalità dei materiali tematici gettati con effetti accumulativi entro un recipiente sonatistico necessariamente dilatato, il gusto per i contrasti di temi, ritmi, aree armoniche, lo spessore fonico e la sensualità timbrica sono i tratti salienti di queste opere peraltro assai ben differenziate e caratterizzate; lontane tanto dalla nervosa leggerezza e dalla parsimonia haydniana, quanto dall'audacia di certe introspezioni mozartiane, sostituita ora da una prevalente ottimistica euforia, ora dall'effusa vena elegiaca di certi movimenti lenti, come l'Adagio affettuoso e appassionato (due aggettivi quanto mai significativi dell'espressività lirica beethoveniana) dell'op. 18 n. 1. In tanta giovanile abbondanza d'immagini, sussiste, eredità fondamentale dei predecessori e già fatta propria da Beethoven con potente determinazione, il principio dell'elaborazione tematica.
L'essenzialità e la necessità morfologica, ottenute attraverso l'impiego sempre più coerente dell'elaborazione, sono il fine che Beethoven si propone negli anni successivi all'op. 18. Si tratta di rigenerare i tessuti troppo dilatati delle strutture sonatistiche, trasformandoli nei tessuti sodi e scattanti di strutture altrettanto vaste, ma permeate da un forte dinamismo basato sulla dialettica dei contrasti interni. In questo senso, accanto alle Sonate op. 53 e 57 per pianoforte, alle Sinfonie Terza, Quarta, Quinta e Sesta, ai Concerti per pianoforte e per violino, i tre Quartetti op. 59 (1805-06) assumono valore esemplare. Inconcepibili senza l'impulso della coeva produzione sinfonica, di questi tre capolavori si può dire che riversino nel medium quartettistico, senza punto snaturarne la specificità, tutta la dialettica e i rapporti di forza (ritmo, massa sonora, contrasti dinamici, oltre, s'intende, alla tensione elaborativa) che Beethoven era andato elaborando nelle sinfonie e che qui comprime e decanta in una rigorosa dimensione cameristica debitrice altresì di quelle tardive e preziose influenze soprattutto mozartiane (si tratta, questa volta, del Mozart dei grandi Quintetti in Do maggiore e sol minore) che incominciano a farsi avanti con crescente insistenza nella creatività del Beethoven maturo.
Opere apparentemente isolate, i Quartetti op. 74 e op. 95 sono in realtà il risultato di un processo di ulteriore affinamento stilistico, nel quale l'idea della forma-sonata viene sottoposta ad una rigorosa verifica attraverso un discorso ellittico e di una incisività e concentrazione estreme, attuato nella più meditata economia dei materiali, in profondo contrasto con la sovrabbondanza di un tempo. Emerge una rinnovata aspirazione ad una purezza e ad una simmetria mozartiane, ed anche forme e strutture rinunciano in monumentalità quanto acquistano in duttilità e delicatezza. Si profila l'estrema spiaggia dello stile beethoveniano, che nell'ultima fioritura quartettistica troverà la sua espressione più completa e forse più alta.
Composti dietro invito di un nobile committente, il principe Golicyn (ancora un russo, come già il conte Rasumovskij, destinatario dell'op. 59), gli ultimi Quartetti prendono vita in un periodo compreso tra la primavera del 1822 e l'ottobre del 1826, lasciandosi alle spalle le ultime sonate per pianoforte, la Nona Sinfonia e la Missa Solemnis. Sono opere profondamente omogenee per stile e dimensione espressiva, assai più di quanto non lo fossero le opere 18 e 59: un panorama immenso e tuttavia raccolto entro un arco unitario, dove si squaderna tutto l'universo dell'ultimo Beethoven.
Giunto al culmine della sperimentazione dei mezzi espressivi e della propria solitudine storica, il compositore si riserva il privilegio supremo di operare liberamente le proprie scelte linguistiche senza restrizioni di tempo, di genere, di stile. Ciò significa che l'estrema produzione beethoveniana si configura in ultima analisi come una ricapitolazione, talora una giustapposizione di tutti gli stilemi che l'hanno preceduta nel tempo, contemplati dall'alto di un "punto di vista" trascendente che tutti li equipara. Vecchio e nuovo, attuale e inattuale, datato ed aggiornato sono categorie estranee a questo sublime "colpo d'occhio" che sa ravvivare le "macerie" secondo una forte espressione di Adorno - di un passato per altri irreversibile e riciclarle non come citazione inerte, ma come elemento costitutivo reinvestito d'intrinseca necessità.
Entro questo sistema inaudito e guardato a lungo con religioso sgomento ma anche con irritata incomprensione dai posteri, coesistono, pertanto, il giovanile procedimento effusivo-additivo e la più rigorosa elaborazione tematica; le tecniche polifoniche recuperate dal profondo dei secoli su su fino a Bach e Händel, e il moderno sonatismo basato sulla dinamica dei campi armonici, dei temi e della loro elaborazione; l'assoluta oggettività e l'urgere dell'elemento soggettivo negli accenti di un recitativo strumentale vibrante di drammaticità; le sofisticazioni armoniche di gusto modale e il più corrente formulario cadenzale; le forme più auliche e trascendenti accanto a quelle più rustiche; il macrocosmo di strutture ciclopiche come i Quartetti op. 130 e op. 131, e il microcosmo di oggetti miniaturistici come l'enigmatica, ironica op. 135.
Insieme con il contrappunto, che irrora delle sue energie tutto l'ultimo stile beethoveniano e che qui culmina in un terrifico monumento come la Grande Fuga op. 133 (in origine, posta a conclusione dell'op. 130), è la tecnica della variazione a qualificarsi come principio costruttivo basilare anche al di là dei movimenti espressamente ad essa destinati. Il radicalismo di tale tecnica non ha eguale se non nel Bach delle Variazioni Goldberg e degli ultimi Preludi corali, da cui Beethoven prende idealmente l'avvio, senza per questo accantonare le tecniche varianti tradizionali di tipo ornamentale-virtuosistico, integrandole, al contrario, rigenerate e sublimate, in un contesto organicamente onnicomprensivo, conforme anche in questo a quella superiore "disponibilità" cui sembra aprirsi l'ultimo orizzonte creativo del compositore.


I QUARTETTI OPERA 18
Nel numero di sei, consacrato dalla tradizione dell'editoria settecentesca, e preceduti dall'importantissimo introito dei tre Trii op. 9, escono nel 1801 i primi quartetti beethoveniani. Anche se l'autografo è andato perduto, dagli schizzi superstiti consta che la loro elaborazione ebbe inizio almeno dal 1798 e che costò all'autore molta applicazione e numerosi pentimenti, come era da aspettarsi per un impegno creativo che agli occhi del mondo musicale rappresentava la massima qualificazione professionale per un compositore affermato. Come s'è detto nell'introduzione, gli echi ineludibili del patrimonio haydniano e mozartiano giungono qui mediati e rigenerati dall'importante esperienza stilistica che nel frattempo Beethoven aveva maturato in altri generi cameristici, più o meno dominati dal pianoforte. Ciò spiega, tra l'altro, l'incisiva piasticità di molti temi che sembrano conservare, anche all'interno del medium quartettistico, il "tocco" per così dire, del pianista e improvvisatore, e l'addensarsi del suono in una scrittura che sembra subito prendere le distanze dalla trasparenza ed "economia" di quella dei due grandi predecessori.



Questi tratti risultano subito evidenti nel primo Quartetto in Fa maggiore (che in realtà, è il terzo in ordine di composizione), che s'apre con un vigoroso tema enunciato all'unisono dai quattro strumenti, e al quale secondo un collaudato procedimento mozartiano, in realtà più sinfonico che quartettistico - fa eco una risposta sommessa e gentile del primo violino. L'Adagio affettuoso e appassionato va ad accrescere il numero di quelle effusioni di accorata elegia cui ci ha assuefatti il primo Beethoven delle sonate pianistiche: primo violino e violoncello vi assumono un carattere lievemente concertante, mutuato dai Quartetti "prussiani" di Mozart. Lo Scherzo, con le sue modulazioni a sorpresa e il suo Trio a pesanti unisoni ribattuti con effetto quasi di percussione, e il brillante Finale dal tema "à la Clementi" e dalla squisita elaborazione costituiscono i movimenti più spiccatamente provocatori.



Secondo in ordine di composizione e di edizione, il Quartetto in Sol Maggiore si qualifica per una festevolezza pungente e capricciosa che si compiace di sorprese e di un gusto che un tempo si sarebbe detto haydniano, ma che ora è giocoforza definire beethoveniano, quali, nel primo tempo, la splendida ripresa col tema iniziale affidato al registro alto del violoncello, dopo tre battute di attesa emozionante sull'iterazione di un re. Spirito ed eccentricità dominano altresì nel secondo tempo: a una prima sezione, Adagio cantabile, specie di cavatina dal fluente melodizzare neoclassico, si contrappone bruscamente un allegro intermezzo giocoso dopo il quale la "cavatina" riprende e si conclude in un frondeggiare di colorature. Scherzo e Finale, dalla tematica tipicamente haydniana, sfociano in un clima decisamente giocoso, concludendo un'opera tra le più geniali e fortemente caratterizzate del primo Beethoven.



Il terzo Quartetto in Re maggiore, primo nella composizione, è nondimeno il più poderoso e complesso, se non il più equilibrato della serie. Tale ricchezza è rilevante fin dal primo Allegro, robustamente impiantato su un magnifico tema dal lunghissimo respiro che dopo avere spaziato per una quarantina di misure nell'area della tonalità di base, muove verso itinerari armonici imprevedibili che lo portano a sfociare nel secondo episodio della eterodossa tonalità di Do maggiore (in rapporto di "terza" con la dominante di Re): da qui, mediante una radiosa modulazione preschubertiana, l'esposizione perviene alla meta del canonico La maggiore - Nell'Andante con moto Beethoven realizza una mirabile "melodia polifonica" ottenuta nella vanificazione sostanziale di ogni gerarchia tra i quattro strumenti. Lo Scherzo è ravvivato dai tocchi romantici dell'inaspettata cadenza in fa diesis minore e della féerie del Trio e si conclude con la ripetizione della prima parte interamente ripensata nelle sue valenze timbriche. Conclude il Quartetto un Presto in un turbinoso moto di giga ricco di tensioni timbriche e di contrasti dinamici: uno dei vertici dell'intera op. 18.



Composto probabilmente per ultimo, il quarto Quartetto la do minore, ad onta della tragica e peculiarmente beethoveniana tonalità prescelta, si configura in termini alquanto più convenzionali di quelli dei quartetti precedenti. Vi predomina infatti un certo formalismo costruttivo nelle lunghe ripetizioni testuali, nella supremazia del primo violino e nei giri armonici non proprio peregrini. Maggiore interesse rivestono forse i movimenti centrali: un Andante scherzoso quasi allegretto con spunti contrappuntistici usati in senso umoristico come nel Finale della Sonata op. 10 n. 2, e un Minuetto insieme patetico e vigoroso.



Anche nel quinto Quartetto in La maggiore (quarto in ordine di stesura) Beethoven sembra indulgere ad un certo quietismo inventivo nella generica amabilità dei primi due movimenti, il secondo dei quali, un Tema e variazioni, risulta evidentemente esemplato su quello del Quartetto K. 464 di Mozart, senza che il modello riesca ad essere, non che superato, eguagliato. Di gran lunga il migliore è il tempo finale, un'Allegro dall'ampio sviluppo costruito interamente su un inciso tematico anch'esso di ascendenza mozartiana (Finale della Sinfonia "Praga" con una sola nota cambiata) ma destinato a diventare col tempo una delle "idee fisse" dell'universo motivico beethoveniano.



Anche l'ultimo Quartetto della serie, in Si bemolle maggiore (quinto in ordine di composizione) prende le mosse da palesi reminiscenze mozartiane (in gioco, questa volta è il primo tempo del Quartetto K. 590), stravolte tuttavia in chiave squisitamente umoristica. Vi emergono il geniale Scherzo, bizzarramente impostato sullo scontro di due strutture ritmiche diverse, e il celebre Finale intitolato dallo stesso compositore 'La malinconia". La struttura di questo brano, consistente di un Adagio che precede e in seguito interrompe a metà un Allegretto quasi Allegro in un carattere di Laendler, ci richiama a quella del Finale dell'op. 135: riferimento non casuale, giacché ci si trova di fronte ad una tra le più precoci esplorazioni beethoveniane nei domini di quel linguaggio fatto di gesti enigmatici e allusivi (quei violenti accordi di settima diminuita, quasi clusters in un campo armonico immobile, alternati col misterioso motivo in ritmo dattilico) che s'identificherà negli estremi capolavori.


di Giovanni Carlo Ballola (Philips, (p) 1989)

sabato, marzo 10, 2007

Salvatore Sciarrino: Vanitas (1981)

E' una parola, vanità, che usiamo abitualmente. Eppure ne abbiamo perduto il senso. A stento la riconosciamo come la stessa parola dell'antico Ecclesiaste. E il dizionario latino, al quale non abbiamo più consuetudine, ci sorprende: Vanitas vuol dire vuoto.
Con la stessa parola si è definito un genere di pittura dall'ntensa carica allegorica. Tale genere, che conobbe la sua estate nel secolo XVII, suggeriva lo scorrere del tempo e la caducità delle cose. In Italia diciamo anche natura morte. Vanitas inaugurò nel dicembre 1981 la stagione alla Piccola Scala di Milano. Sebbene discosti dalla comune cognizone musicale e teatrale, venne presentata come una normale opera, e con tutti gli apparati affidata all'opulenza registica. Ma paradossalmente Vanitas è un Lied. Ne possiede l'intima espressività, ne contiene le stilizzazioni e le movenze. Come nei sogni, però, le proporzioni non sono le stesse.
Nella nostra tradizione un Lied per canto e pianoforte è piccola cosa. Pur nel nitore che tutto rispecchia dell'universo, le dimensioni scelte da un Lied lo assimilano a un foglio d'album. Vanitas è dunque un Lied di proporzioni mai udite. Si dilatano le maglie del tempo. Allora la musica s'apre spontaneamente ad accogliere sottolineature ambientali. Ecco perchè Vanitas nacque come ipotesi di teatro povero. Infatti nella dilatazione allucinatoria del tempo la musica viene così spazializzata da non sopportare altra messa in scena che la propria nudità.
Il senso di "natura morta" si è fatto interno alla musica stessa, insito negli echi della realtà sonora che essa raccoglie. Oggi possediamo una conoscenza più analitica della realtà. E siamo coscienti che la realtà non esiste se non nella nostra percezione e nei modi di rappresentarla. In virtù di questo possono affiorare nella superficie illusoria dei suoni alcuni ricordi: i grilli della sera, il ticchettio di una vecchia pendola, il rompersi dei vetri, il flauto lontano e altro: tutte cose che il tempo ha già fatto sparire.
Vanitas gravita nel vuoto, non solo per la rarefazione della sua musica, quanto perchè il concetto di vuoto vi è, per così dire, rispecchiato nella realizzazione dei particolari.
La presenza del pianoforte come strumento di accompagnamento, sfoca quel tanto l'atmosfera da proiettarla, lievemente appannata, in un liederismo lontano. Tuttavia è un pianoforte ricco di invenzioni tecniche e timbriche. Sottili fino a sottrarre talvolta il suono protagonista e allontanarlo, suscitando in primo piano un vuoto psicologico, come se "un altro" pianoforte suonasse "di là". Nel silenzio, poi, emergono le risonanze artificiali; e s'intuisce la dimensione dei grandi spazi, inabitati; un vuoto infinitamente echeggiante, dove fluttuano la voce e il suo doppio vibrante, il violoncello: fantasmi lirici d'un usignolo. Le canzoni, sul piano della musica, rappresentano un po' l'equivalente dei fiori: belle sì, ma effimere. Mai potà la musica colta,con la sua pretesa di universalità, dare il senso di morte che una composizione leggera trasuda. Con modi garbati, nella sua massima stilizzazione, questa si offre, non ha pretese; ma di fronte all'eternità proclamata da un'ingannevole sinfonia, la canzone coglie un istante che smaschera la fragilità dell'uomo. In mezzo ai ricordi più abbandonati, più peduti, ciascuno di noi ha qualche canzone che, proprio perchè così legata a un certo periodo del passato, rappresenta il concentrato della nostalgia. Immaginate allora una musica dal tessuto largo al punto da lasciare trasparire un'altra musica: questa è Vanitas, una gigantesca anamorfosi di una vecchia canzone, della quale conserva in modo misterioso il profumo.


Salvatore Sciarrino (1981)

venerdì, marzo 02, 2007

Giuseppe Gazzaniga: il piccolo fratello maggiore di Don Giovanni

Nel teatro d'opera mai soggetto ha avuto più fortuna di Don Giovanni, che dalla fonte originaria di Tirso de Molina El burlador de Sevilla del 1637. ha ispirato moltissimi musicisti nella creazione di melodrammi incentrati sulla figura del dissoluto punito. Dal Seicento al Novecento i casi sono infiniti, anche se il più emblematico resta ovvianiente il capolavoro di Mozart-Da Ponte, andato in scena a Praga il 29 ottobre 1787. In realtà solo otto anni prima - il 5 febbraio - aveva debuttato al Teatro Giustiniani di San Moisé a Venezia un altro Don Giovanni (o sia Il convitato di pietra) al quale Mozart e Da Ponte avrebbero prestato non poca attenzione.
Si trattava del "dramma giocoso" di Giuseppe Gazzaniga, musicista nato a Verona nel 1743 e allievo di Porpora prima a Venezia e poi a Napoli, dove aveva studiato tra gli altri anche con Piccinni. Qui era avvenuto il suo debutto nol 1768 al Teatro Nuovo con l'intermezzo Il barone di Trocchia, primo di una lunga serie di lavori teatrali, seri e buffi, che sino ai primi anni dell'Ottocento avrebbero visto Gazzaniga impegnato in una produzione di una sessantina di titoli, oltre a composizioni sacre e strumentali. Attivo spesso all'ester, come ad esempio presso le corti di Vienna, Monaco e Dresda, il musicista veronese si sarebbe assestato in patria grazie all'incarico tranquillo e remunerato di maestro di cappella, prima nella cattedrale di Urbino e, dal 1791, in quella di Crema, dove sarebbe rimasto sino alla morte, avvenuta nel 1818.
Nonostante la cospicua attività svolta in Italia, il primo effettivo riconoscimento arrivò per Gazzaniga da Vienna - alla cui corte era stato introdotto da Sacchini - con l'opera buffa Il finto cieco, rapprensentata nel 1786 su libretto nientemenoche dello stesso Da Ponte. Quindi, un anno prima dei rispettivi Don Giovanni, i due artisti avevano avuto modo di conoscersi e di lavorare insieme. E nonostante Da Ponte, notoriarriente non generoso nei giudizi, nelle sue Memorie facesse rientrare Gazzaniga tra i "minori" di fine secolo, definendolo "compositore di qualche merito ma d'un stile non più moderno", il suo Don Giovanni non doveva essergli rimasto indifferente. Così pure il libretto di Giovanni Bertati - di lì a poco fortunato autore del Matrimonio segreto di Cimarosa -, nonostante, sempre nelle Memorie, l'avesse liquidato con un commento sbrigativamente sprezzante ("Non era nato poeta e no sapeva l'italiano").
Sta di fatto che tutta la struttura dell'atto unico i Gazzanga, nato ome "capriccio drammatico" a completamento di uno spettacolo organizzato per il carnevale veneziano, preannuncia molte situazioni del più celebre Don Giovanni e proprio nella trama librettistica, visto che sul piano musicale le due opere sono praticamente inconfrontabili. Nondimeno alcune differenze alzano subito all'occhio, a cominciare dalla distribuzione dei ruoli.
Trviamo infatti denominazioni diverse per certi personaggi, come nel caso di Pasquariello per Leporello, di Maturina per Zerlina, di Biagio per Masetto. Soprattutto, però, compaiono due nuove figure, Donna Ximena - terza amante nobile di Don Giovanni, in aggiunta alle già note Anna ed Elvira - e Lanterna, altro servitore a fianco di Pasquariello. A ben guardare si tratta comunque di figure di contorno, risolte più in sede di recitativo che di pagina musicale, come avviene d'altronde anche per Donna Anna, la quale scompare dalla storia dopo l'uccisione del Commendatore. E' questa scena iniziale a svelare affinità immediate con l'opera mozartiana, dal monologo sbuffante di Pasquariello (che anticipa perfettamente il "Notte e giorno faticar" di Leporello) al terzetto seguente, per arrivare allo scontro Don Giovanni-Commendatore e persino al successivo recitativo, dal quale Da Ponte sembra aver attinto a piene mani. La scena tra Anna e Ottavio (qui "Duca" al posto di "Don") presenta simili analogie, anche se il racconto del tentato oltraggio della donna da parte di Don Giovanni troverà in Mozart più ampio e drammatico sviluppo nel grandioso recitativo che introduce "Or sai chi l'onore". Se, come si è detto, Donna Ximena resta personaggio non contemplato da Da Ponte (anche se in Bertati viene ad occupare il posto lasciato vacante da Donna Anna per l'adeguato equilibrio degli insiemi), Donna Elvira prelude senz'altro a quella mozartiana, seppure con un'animosità meno spiccata e furente. Si presenta comunque come il ruolo femminile più definito, sia psicologicamente che musicalmente, scoprendo un lato addirittura colorito nel pittoresco duettino con Maturina, in cui le pungenti schermaglie tra le due contendenti del seduttore rievocano quelle di Susanna e Marcellina nelle Nozze di Figaro (di un anno prima) e anticipano esempi illustri, dai battibecchi di Carolina ed Elisetta nel Matrimonio segreto sino alle baruffe di Fiorilla e Zaida nel Turco in Italia di Rossini. Ancor prima, però, ci imbattiamo nel caso più eclatante di "plagio" e cioé nella "lista -catalogo" di Pasquariello, che solo la maestria mozartiana saprà trasformare in pagina affatto diversa da questa, similissima invece nel testo. Lo stesso dicasi anche per quanto riguarda la coppia contadina dei promessi sposi, per la quale le situazioni si ripetono, seppure con un paio di ceffoni in più al recalcitrante Biagio e con un "Là ci darem la mano" in meno per Maturina. Questa si aggiudica in compenso un'aria, "Se pur degna voi mi fate", alla cui conclusione il suo appartarsi in casa insieme a Don Giovanni fa supporre che - diversamente da Mozart - il fattaccio tra i due si compia. Ma ancora molti sono gli episodi ripresi fedelmente da Da Ponte (che per altro avrebbe rielaborato anni dopo il testo di Bertati e la partitura di Gazzaniga in forma di "pasticcio" per una fortunata rappresentazione londinese): dalla celebre scena dell'invito a cena rivolto alla statua del Commendatore alla cena stessa, in cui a servire è in questo caso il valletto Lanterna, mentre Pasquariello siede a tavola con il padrone. Come in Mozart è questa la scena più grandiosa, anche se ben lontana dagli effetti apocalittici e incommensurabili del Salisburghese. Vi figurano ugualmente un breve concertino strumentale e un finale di identico svolgimento, con tanto di sprofondamento di Don Giovanni agli Inferi, mentre d'occasione sono i brindisi che il signore e il servo fanno opportunisticaniente a Venezia e alle sue donne, collegando di conseguenza non solo l'opera alla città destinata alla rappresentazione ma anche la figura del gaudente spagnolo a quella del nostro Casanova. E il clima carnascialesco della Serenissinia si esprime dichiaratamente nel finale, in cui tutti i personaggi si lanciano in una festosa tarantella, punteggiata - con un gusto che dall'opera buffa napoletana sembra spingersi sino a Rossini - dai suoni onomatopcici della chitarra del Duca Ottavio ("Tran, tran trinchete, trinchete trà"), del contrabbasso di Lanterna ("Flon, flon, flon") e del fagotto di Pasquariello ("Pu, pu, pu").
Sul piano nuisicale, come si è detto, i confronti con il capolavoro mozartiano non sono azzardabili, visto che, oltre alla confezione più concisa e occasionale, l'opera di Gazzaniga non rivela un approfondiniento psicologico dei personaggi (in questo anche Bertati non è Da Ponte), nè la capacità di creare atmosfere di autentica suggestione drammatica. Infatti le scene cardine in cui è coinvolto il Commendatore (sia come padre di Donna Anna che come convitato di pietra) non sfiorano mai il tragico e solo debolmente increspano l'aria brillante e festosa che pervade tutta l'opera.
Nondimeno la fattura delle arie - spesso con strumento obbligato - è pregevole, anche se fedele alle convenzioni dell'opera settecentesca e raramente spinta a una scrittura vocale elaborata, salvo il caso di quella di Donna Elvira "Sposa più a voi non sono", in cui la voce è impegnata su un'ampia estensione e in passaggi fioriti. E, quanto a vocalità la più evidente differenza con l'opera mozartiana emerge proprio nella scelta timbrica del protagonista, che in Gazzaniga è tenore e non basso-baritono, tale da contrapporsi quindi all'altro nobile della storia (il Duca Ottavio) e non al servo, come avverrà con Leporello, complice negli scambi di persona grazie proprio allo stesso colore vocale del padrone. La voce chiara scelta da Gazzaniga delinea così un Don Giovanni forse più giovanile e incipriato, ma a cui manca - rispetto a quello di Mozart - la sottile ombrosità diabolica e sansuale, fondamentale all'immagine autentica dell'infernale libertino.
di Davide Annachini (Nuova Era , (p) 1999)