Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, gennaio 17, 2015

Mahler: La Settima sinfonia trascritta per pianforte

Alfredo Casella (1883-1947)
Mahler era convinto che tutte le vere composizioni mantengono la loro pregnanza anche nelle cosiddette riduzioni pianistiche, e che dunque queste ultime risultino di valore insostituibile per lo studio e la divulgazione della musica per orchestra. Può sorprendere - per portare un esempio - che la prima stesura di quel capolavoro di cesello timbrico che è Das Lied von der Erde sia stata realizzata da Mahler per canto e pianoforte: non è possibile evidentemente pensare a due momenti creativi distinti, meno che meno, ovviamente, ad una fase di “orchestrazione”, vista come elemento di abbellimento ultimo, o di ornamento decorativo. È piuttosto vero – e Igor Stravinsky lo dichiarò apertamente – che la pratica del pianoforte (si presti attenzione: non la composizione al pianoforte) sprigiona illuminazioni coloristiche. Come una fotografia in bianco e nero riesce ad evocare potentemente i colori, così un’esecuzione pianistica, che a noi pare timbricamente imperfetta, consente in realtà di accedere con più gradi di libertà a quel mondo fantasmagorico che ci si accinge a descrivere con i suoni. Sebbene vari musicologi e critici si siano detti convinti che uno dei motivi delle difficoltà di ricezione dell’opera di Mahler (avvolta da un ingiustificato oblio per cinquant’anni dalla morte del suo autore) sia risieduta proprio nella pratica, comune prima dell’avvento dei mezzi di riproduzione fonografica, di affrontare la conoscenza delle partiture attraverso lo studio delle versioni per pianoforte a quattro mani, Mahler fu determinato riguardo il valore delle trascrizioni pianistiche e scelse con grande cura a chi affidarle: tra questi Bruno Walter, Alexander Zemlinsky e Alfredo Casella): non riteneva dunque tali trascrizioni colpevoli di depauperare la partitura originale dei suoi valori intrinseci.
Nel suo saggio "Casella mahleriano a Parigi" Roberto Calabretto delinea con magistrale tratto investigativo il clima di vivace polemica che, nei primi anni del secolo, investiva la figura Gustav Mahler, violentemente criticato dai musicisti francesi sia nella veste di direttore (in particolare per quanto riguarda i suoi interventi sulle partiture beethoveniane) che in quella di compositore (in particolare per la banalità dei temi, la ripetizione dei materiali, l’uso di masse sinfoniche inutilmente gigantesche). In questo ambiente polemicamente ostile Casella risulta l’unica figura musicale di rilievo che prende apertamente le difese della musica di Mahler, sapendone cogliere la portata e impegnandosi con convinzione (nelle sua duplice veste di critico e organizzatore musicale) a farla conoscere in Francia («A Casella pioniere... Parigi, aprile 1909» si legge scritto dal maestro sulla copia della partitura della Terza Sinfonia che troviamo nella biblioteca di Casella).
Grazie a Paul e Sophie Clemenceau – che avevano dato vita ad un salotto brillantissimo, tra i più importanti di Parigi – Casella incontrò Mahler, di ritorno da New York, nell’aprile del 1909. Stando alle sue parole «Mahler fu subito assai affettuoso con lui e quando vide che sapeva a memoria tanta musica sua, ne rimase sinceramente commosso».
Quanto alle circostanze dell’incarico dato da Mahler a Casella di trascrivere per pianoforte a quattro mani la Settima (a parte l’episodio curioso del dono di una foto ritratto con dedica «An meinem besten Freund» accanto ad un breve frammento del primo movimento della Settima Sinfonia, il tema del corno), non vi sono documenti né – stranamente – notizie nell’epistolario mahleriano. In merito alle motivazioni che spinsero Mahler ad affidare questo importante compito a Casella possiamo dunque solo arrischiare delle congetture: oltre alla stima per Casella ormai affermato virtuoso del pianoforte sicuramente Mahler aveva potuto apprezzare alcune raffinatezze armoniche e timbriche della Seconda Sinfonia di Casella (allora fresca di stampa). Letteralmente entusiasta per questo lavoro, Casella dichiarò spesso che la conoscenza delle Sinfonie di Mahler fu l’evento più importante e decisivo della sua formazione artistica. Quanto alle testimonianze di stima di Mahler per il giovane Casella dobbiamo citare la preziosa raccomandazione presso Universal Edition in merito alla pubblicazione della Rapsodia Italia e della Suite in Do maggiore (che avevano ricevuto “cortesi rifiuti” da parte degli editori francesi). Casella non avrà il piacere di vederle “tenute a battesimo” da Mahler. La Rapsodia Italia e la Suite in Do maggiore, in programma a Roma per la stagione primaverile del 1910, non vennero infatti eseguite per l’annullamento del concerto in quanto Mahler, come si legge nella sua lettera a Casella del 31 aprile 1910, a Roma trovò che «L’orchestre est abominable. Il m’a été impossible d’en faire quoi que ce soit. J’ai annulé mon troisième concert, dans lequel devaient être données votre Italia et votre Suite, et je m’en vais. Ces concerts ont été un purgatoire pour moi, surtout les répétitions. Jamais je ne me suis trouvé devant une société aussi ignorante et insolente…» (L’orchestra è abominevole. Mi è stato impossibile farne alcunché. Ho annullato il mio terzo concerto, in cui dovevano essere date la vostra Italia e la vostra Suite, ed io me ne vado. Questi concerti sono stati un purgatorio per me, soprattutto le prove. Mai mi sono trovato di fronte ad una società così ignorante e insolente ...). A Casella spetterà l’onore di tenere la prolusione al Mahlerfest di Amsterdam nel maggio 1920 dove, sotto la direzione di Mengelberg, per la prima volta al mondo verrà eseguita l’opera omnia mahleriana. In questa prolusione Casella dirà che «ciò che particolarmente lo afferra nell’arte di Mahler, non è tanto la sua volontà di creare una Sinfonia libera e universale ... ma il suo senso meraviglioso e acutissimo della qualità sonora, del timbro».
Quanto alle vicende che videro la nascita della Settima Sinfonia, la musicologia ci documenta di molti giovani colleghi e di ammiratori di Mahler presenti a Praga per la création dell’opera, il 19 settembre 1908, in particolare Alban Berg, oltre ai direttori Otto Klemperer, Bruno Walter, Artur Bodanzky e Klaus Pringheim. Klemperer racconta che Mahler, tra una prova e l’altra, ritirò l’intero materiale orchestrale e, ritornato al suo albergo, revisionò, limò, ritoccò l’orchestrazione correggendola direttamente sulle parti degli strumenti. Rifiutò ogni aiuto: il pavimento della sua grande camera di albergo era letteralmente ricoperto dalle parti di orchestra della sinfonia. Al di là del “successo di stima” per la prima praghese la Settima, nelle successive esecuzioni di Amsterdam e Vienna suscitò molte riserve della critica. Thomas Mann fu probabilmente presente alla prima praghese, ed è anche possibile che abbia ascoltato la versione di Monaco del 27 ottobre 1909: Henry-Louis de La Grange, nella sua monumentale biografia, sottolinea che la descrizione di due delle composizioni immaginarie di Adrian Leverkühn nel Doktor Faustus, il concerto per violino e la cantata Faust, fanno manifesto riferimento, rispettivamente al secondo e al quarto tempo della Settima, cioè alle due Nachtmusik (composte per prime, contemporaneamente al Finale della Sesta Sinfonia, nell’estate del 1904, a Maiernigg am Wörthersee, in Carinzia). Già nel contesto della création a Praga nel 1908 i discepoli di Mahler proposero di ribattezzare l’insieme dei tre movimenti di mezzo della sinfonia come Nachtwanderung (vagare nella notte): la prima Nachtmusik (costantemente percorsa da alternanze del modo maggiore e minore e di risposte in eco), una lenta marcia attraverso la notte in ascolto dei suoi rumori e dei suoi suoni misteriosi, sembra ispirata alla Ronda di notte di Rembrandt; lo Scherzo (Schattenhaft, spettrale) come un passaggio tormentato e inquietante nell’oscurità, un pandemonio nel quale gli spiriti danzano, un riflesso del mondo passato, popolato d’ombre; infine nella seconda Nachtmusik questa progressiva discesa verso gli inferi si inverte, il pathos si dissolve, lascia spazio ad un Andante amoroso, di fattura pressoché classica, sottilmente policromo nella raffinata orchestrazione con arpa, chitarra e mandolino.
Il passaggio che si oppone alla notte è il giorno. Il Rondò-Finale fu composto (con lo Scherzo e, per ultimo, il primo movimento) nell’estate del 1905 e fu il frutto del superamento di una acuta crisi creativa che sfociò in uno slancio produttivo folgorante. Questo movimento costituisce una grande kermesse della gioia collettiva, un mosaico, un gigantesco potpourri che celebra l’azione, l’ottimismo, il giubilo per la ritrovata creatività. Mahler esalta l’orchestra in tutte le sue sezioni e non si vergogna di apparire rumoroso fino al banale nell’esprimere un tripudiante e festoso sinfonismo: usa tutti i mezzi, dallo stile rococò del minuetto, alle turcherie (con tanto di piatti e gran cassa) a movenze tipiche del cancan francese, fino ad una citazione del preludio dei Maestri cantori di Wagner (che Mahler, quando dirigeva la Settima, usava far significativamente precedere alla sinfonia). Alla fine del movimento la ripresa del doloroso tema principale del primo movimento può essere letto come l’epilogo di un processo che conduce “dall’oscurità alla luce”, come una vittoria riportata sulle miserie del mondo. In molti, a cominciare da Adorno hanno trovato questo movimento teatrale, superficiale, pomposo, fallimentare. Altrettanto polemicamente sembra rispondergli il filosofo Eugenio Trías: «Questo finale, in un ironico tono “assertivo” in do maggiore, riempiva di circospetta diffidenza Adorno, grande puritano, con poco senso dell’umorismo e incapace di godere di una musica altamente comica senza sentirsi in colpa. Nell’analisi di questo delirante e spropositato finale, infatti, [Adorno] supera se stesso quanto a ristrettezza di vedute: probabilmente anch’egli temeva che questa musica, tanto amata, finisse con il ritrovarsi sommersa e annegata da questa “volgarità”, che in fondo lo disturbava.» Come disse di Adorno, con pungente acume, György Ligeti: «era un personaggio contraddittorio. Geniale e stupido insieme. Una volta ho affermato che Adorno è la persona più intelligentemente stupida che abbia mai conosciuto».
Per finire un’osservazione sul Primo movimento, sicuramente il più complesso e profondo dell’intera Sinfonia. Fondato su un inusuale schema tonale esso fornisce senza dubbio uno dei primi esempi di tonalità progressiva e al quale Arnold Schoenberg ha più volte guardato nel comporre la sua (quasi coeva) Kammersymphonie op. 9. Una introduzione lugubre in si minore, con un ritmo di marcia funebre e una dolorosa melodia del corno tenore germinatrice di tutti i temi del movimento (qui la natura ruggisce, fu la descrizione di Mahler a Mengelberg, che troviamo annotata sulla sua partitura della Settima), conduce (attraverso numerose divagazioni motiviche) ad un Allegro con fuoco in mi minore, spavaldo, ove il carattere di marcia funebre si trasfigura in quello di una grottesca marcia militare; e poi in solenne inno, per liberarsi infine in una impetuosa coda, ove la tonalità di mi maggiore assume le sembianze beffarde di un ghigno spietato. Le sezioni dei secondi temi, sempre in tonalità maggiori, nostalgiche e imploranti, sembrano promettere un sollievo, sempre disatteso dalle dure riprese dei temi di marcia.

Ex Novo Musica 2011

venerdì, gennaio 09, 2015

Addio a Benedetti Michelangeli: "Non ha mai odiato gli italiani"

Arturo Benedetti Michelangeli
(Brescia, 5/1/1920 - Lugano, 12/6/1995)
Crisi cardiaca o altro? Arturo Benedetti Michelangeli era ricoverato da una settimana all'Ospedale Civico di Lugano. E mentre i familiari preferiscono accennare a una morte imprevista, due medici, in un angolo della piazzetta di fronte alla chiesa dove si è officiata la messa funebre del maestro, rivelano sottovoce il mistero di un male all'ultimo stadio di cui lui stesso era a conoscenza. Gli amici lo ricordano allegro e sereno ancora domenica mattina, ma dopo qualche ora l'aorta avrebbe ceduto. Essere sepolto nella nuda terra. Era questo l'ultimo suo desiderio. Durante la messa, il suo consulente finanziario Paolo Mettel è salito sull'altare, ha estratto un foglietto e ha letto le ultime volontà del maestro, scritte di suo pugno a Zurigo il 6 ottobre 1986, in una grafia tremolante e minuta e concluse da un semplice "grazie". Dunque: non voleva che la sua morte venisse annunciata; chiedeva un funerale non pubblico, la benedizione di "un religioso" e una cassa "semplice". Una sola croce, senza lapide. Ha voluto essere sepolto a Pura, dove arrivò nel 1972, un piccolo paese che guarda il lago di Lugano, e a Pura è stato sepolto ieri pomeriggio, alle tre, dopo una funzione sobria. Qui, tra alti abeti e castagni imperiosi (poco distante dalla casa di Vladimir Ashkenazy), aveva acquistato una bella villa da cui il maestro ogni mattina partiva per lunghe passeggiate a piedi. Qualche volta i vicini sentivano il suo pianoforte: "Suonava anche di notte", dice il giardiniere. Dalle parole dell'imprenditore Mettel è venuto fuori un ritratto inedito del maestro: "Non ha mai avuto una parola di acrimonia contro gli italiani, odiava solo i cretini". Mettel parla di mistificazione, ma non nega che fosse amareggiato negli ultimi anni dal mercato clandestino: "Dopo la scoperta di due suoi dischi pirata nell'autunno 1993, aveva giurato di non esibirsi più". Quei dischi, recapitatigli dal Giappone, erano stati prodotti in Brianza. "La vicenda di Londra - prosegue Mettel - fu stravolta". Rifiutò di esibirsi davanti a turisti italiani perché "il suo nome era stato sbattuto sulla locandina come una star da Crazy Horse". Vicini alla bara di abete, coperta di gerbere e rose bianche, la compagna Anne Marie Gros Dubois, la moglie, bresciana - da cui il maestro non si separò mai, ma con cui non viveva da anni -, Maurizio Pollini, la pianista argentina Martha Argerich, l'accordatore personale, i dirigenti della Steinway. Il fratello, violinista, è partito in mattinata. Davanti a 150 persone, ben cinque officianti, tra cui il parroco di Pura e il suo anziano confessore don Antonio Sfriso. Il quale ha ricordato la sua fede severa, "francescana": "Nella sua cartella portava i Vangeli e "L'imitazione di Cristo". Senza dimenticare la generosità: la colletta fatta durante la messa è destinata, per suo espresso desiderio, a un gruppo di bambini indiani e a una missione nello Zimbabwe. "Io sono fatto di musica", disse un giorno durante un pranzo al suo assistente spirituale tamburellando con le dita sul tavolo. Non per ascoltare la musica, ma per sentire la messa, domenica mattina, qualche ora prima di morire, dal suo letto d'ospedale chiese una radiolina. "Era allegro e sereno - ripete Mettel -, e ultimamente pensava di riprendere a suonare in pubblico". Forse sapeva che era solo un sogno. Forse aveva già un progetto. Lo si saprà quando verranno aperte le porte del suo studio, in cui si conservano tonnellate di carte.
 
Di Stefano Paolo ("Corriere della Sera", 14 giugno 1995)

venerdì, gennaio 02, 2015

Carlo Maria Giulini e Bolzano

Carlo Maria Giulini (1914-2005)
Carlo Maria Giulini (1914-2005), uno dei più grandi direttori d'orchestra del secolo passato, ha trascorso la sua prima gioventù a Bolzano e qui ha iniziato la sua educazione musicale. La storia della sua vita annovera incontri tra i più illustri, a incominciare da Toscanini che, dopo averlo sentito alla radio, volle conoscerlo e l'invitò a casa. Ma è nella nostra città che Giulini ha mosso i primi passi, all'unisono con il progressivo crescere della scuola di musica, partita dall'originario Musikverein dei tempi asburgici (1855) per giungere all'odierno Conservatorio Monteverdi. La famiglia del futuro direttore Giulini era originaria di Ponti sul Mincio ma Carlo nacque a Barletta. La vocazione per la musica gli nacque quand'aveva quattro anni: aveva visto un musicista da strada suonare un violino, ne chiese uno per sé e lo ottenne come regalo di Natale: fu una suora a insegnargli a muovere l'archetto sulle corde. Poi (1920) la famiglia si trasferì a Gries e così il bambino prese a frequentare la civica scuola musicale bolzanina in via Portici 30. Nel 1927 questa fu trasformata nell'istituto musicale Gioacchino Rossini e trasferita nel 1930 in via Vintola, ove oggi si trovano gli uffici dell'anagrafe. Quattro anni più tardi (1931) la famiglia Giulini traslocò in un nuovo edificio al civico 20 di via Leonardo da Vinci. Poi nel 1932 avvenne la parificazione dell'istituto a liceo musicale statale, ed è del 1940 l'elevazione a Conservatorio (intitolato a Claudio Monteverdi) con trasloco nell'attuale sede di piazza Domenicani. Carlo Giulini si esercitò nel violino (poi nella viola) a Bolzano fino al 1929, quando, quindicenne, ottenne l'iscrizione al Conservatorio Santa Cecilia di Roma. Il diploma è del 1932. Come violista Giulini suonò con direttori come Wilhelm Furtwängler, Bruno Walter, Victor De Sabata, Richard Strauss, Igor Strawinsky, finendo col farsi un'idea sua ed ambirne la carriera. Riuscì allora ad organizzare un gruppo di allievi disposti a seguire la sua bacchetta ed ad esercitarsi con lui. A questo punto giova fare un balzo in avanti e sfogliare "La Provincia di Bolzano" del 29 dicembre del 1940. Vi si legge: ": "Negli ambienti artistici cittadini già da tempo si è conquistata meritevole e larga notorietà il giovane maestro Carlo Maria Giulini, che da anni va svolgendo in Roma e in altre città festeggiatissima attività di direttore d'orchestra. Recentemente al Giulini è stato affidato dalle gerarchie romane il lusinghiero e non lieve incarico di dirigere il concerto inaugurale della stagione indetta dal G.U.F. (Gioventù Universitaria Fascista, ndr) dell'Urbe, e la manifestazione ha avuto luogo nella magnifica sala del Collegio Romano. Sulla composizione dell'orchestra così dice il critico del Giornale d'Italia: L'orchestra è numerosa e ricca di bravi elementi, .... disciplinata e compatta. Falange di giovani i quali danno subito la confortante sensazione di essere animati da ardore giovanile e da sincera passione artistica". Dell'arte del direttore cosi scrive lo stesso giornale: "Un giovane che dimostra una bella conoscenza della partitura... un notevole temperamento, ed autorità: che possiede un preciso ed eloquente gesto al servizio di un'attenta sensibilità". E il Popolo di Roma: "Vivaldi, Schubert, Beethoven non sono autori per dilettanti: imporli ad un pubblico, vuol dire aver già nel braccio forza di direttore. Di tale forza il Giulini si dimostra fornito". E il Tevere: "II giovane direttore... ha affrontato un difficile compito che ha benissimo assolto dimostrando larghe capacità". Ed il Piccolo: " ...un giovane che di passione e di intelligenza ne ha da vendere..."; e il Lavoro Fascista: "... giovane ricco di talento". Al camerata Giulini, che nelle prossime settimane dirigerà un importante concerto a Milano, le più fervide feli-citazioni e 1'augurio per l'immancabile luminosa carriera". Fin qui la "Provincia di Bolzano", e a questo punto la storia della sua successiva attività emerge da una lunga intervista pubblicata sul mensile musicale giapponese Ongaku No Tomo (1994), nella quale colpisce la risposta data a chi gli chiede quale sia stato il più bel momento della sua vita: "A distanza di tanti anni (...) rispondo 'l giorno in cui vinsi il concorso per ultima viola dell'orchestra dell'Augusteo' (orchestra del S.Cecilia, ndr)". Una risposta che mette in luce la distaccata modestia del personaggio. Venne la guerra: sottotenente in Croazia (la sua alta statura lo designò granatiere), poi nel 1943 Giulini si trovava ad Anagni al Comando del gruppo Armata del Sud, con il principe Umberto, che l'8 settembre scomparve: i reali erano fuggiti a Brindisi. Giulini tornò sul podio con la liberazione di Roma: si voleva festeggiare il momento con un concerto, direttori sulla piazza non ce n'erano e ci si ricordò allora di un giovane che s'era fatto luce con l'orchestra del GUF, "nella magnifica sala del Collegio Romano". Fu un trionfo e vennero i contratti. Direttore di orchestra alla RAI dal 1946 al 1951, poi la Scala come assistente di Victor De Sabata, poi come direttore stabile (1953). Epica nel teatro milanese un'edizione della "Traviata" diretta da Giulini con la Callas e per la regia di Luchino Visconti, tuttora un classico. Nel 1955 debutta a Chicago con quell'Orchestra sinfonica. Lascia l'opera per dedicarsi unicamente alla sinfonia. Nel 1960 in tournée in Giappone. Dal 1973 al 1976 dirige i Wiener Symphoniker. Dal 1978 al 1984 alla Los Angeles Philharmonic Orchestra. Dirige anche la Philharmonia Orchestra di Londra. Nel 1989 vince il Grammy Award. Una severa svolta alla sua vita gli viene dalla malattia di sua moglie. Non vuole più allontanarsene e rinuncia a contratti prestigiosi, concludendo la sua carriera ("la mia famiglia, anzitutto"). Il maestro è sempre stato schivo e riservato. Non ha mai fatto vita mondana, non ha mai avuto press-agent, non è mai stato legato a partiti politici, difficilmente concedeva interviste. Gli chiese l'intervistatore giapponese: "Qual è il repertorio che predilige?" "Quello che sto eseguendo in quel momento. Non è una battuta, è una realtà. Dirigere, è un 'atto d'amore'. Prima del concerto, io sono niente, il musicista è un genio. Nel momento in cui si arriva al 'fatto magico', quando, attraverso il mio gesto le note, mute sulla carta, prendono vita nei vari suoni, allora si consuma un atto d'amore e quella musica, in quel preciso momento, diventa mia. Ecco perché è la prediletta. Poi, finito il concerto, si torna da capo: io sono niente e il compositore è un genio". Carlo Maria Giulini riposa nella tomba di famiglia, nel cimitero di Bolzano, ultima a destra del viale d'accesso.
 
Ettore Frangipane (da "Bolzano scomparsa", Ed. Cuccu & Genovese, 2011)