Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, dicembre 20, 2021

Concerti 2020/2021


26 gennaio 2020
Bologna, Teatro Comunale, ore 15,30
Richard WagnerTristan und Isolde (Dramma musicale in tre atti)
Direttore: Juraj Valcuha
Ideazione artistica: Ralf Pleger & Alexander Polzin
Regia: Ralf Pleger
Maestro del Coro: Alberto Malazzi
Scene: Alexander Polzin
Costumi: Wojciech Dziedzic
Luci: John Torres
Luci riprese da: Kate Bashore
Coreografia: Fernando Melo
Assistente alla regia: Emilie Rault
Assistente coreografo: Sonoko Kamimura
Interpreti: Stefan Vincke [Bryan Register] (Tristan), Albert Dohmen (Re Marke), Ann Petersen [Catherine Foster] (Isolde), Martin Gantner (Kurwenal), Ekaterina Gubanova (Brangäne), Tommaso Caramia (Melot, un pilota, un pastore), Klodjan Kaçani (Un giovane marinaio)
Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna con La Monnaie / De Munt

5 febbraio 2020
Modena, Teatro Comunale "Luciano Pavarotti", ore 20,30
Franz Joseph Haydn, La Creazione / Die Schöpfung (Oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra)
Direttore: Philippe Herreweghe
Soprano: Mari Eriksmoen
Tenore: Mauro Peter (Patrick Grahl)
Baritono: Christoph Filler (Florian Boesch)
Orchestre des Champs-Elysées
Collegium Vocale Gent

Domenica, 16 febbraio 2020
Correggio, Palazzo dei Principi, Salone degli Arazzi, ore 17,00
Torna Ruggier deh torna
Monologhi di Bradamante in musica
Testi tratti dall'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto
Madrigali musicati da Claudio Merulo
Soprano: Monica Piccinini
Mezzosoprano: Maria Chiara Gallo
Tenore: Gianluca Ferrarini
Capella Regiensis
Letture a cura di Cristina Calzolari
Presentazione a cura di Silvia Perucchetti e Sauro Rodolfi

Sabato, 14 marzo 2020
Modena, Nuovo Cinema Teatro Italia, ore 21,00
Pianoforte: Emanuele Arciuli
C. Debussy, Preludes 1er livre (1909-11)
J. Corigliano, Fantasia su un Ostinato (1985)
F. Poulenc, Trois Pièces (1928)
L. Gregoretti, prima esecuzione assoluta di un brano commissionato da AdM
F. Rzewski, Winnsboro Cotton Mill Blues (da "North American Ballads", 1979)


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Giovedì, 15 luglio 2021
Cortile d'Onore del Castello di Torrechiara, Parma, ore 21,15
Serata inaugurale dedicata a Nikolaus Harnoncourt
CONCENTUS MUSICUS WIEN
Stefan Gottfried, clavicembalo e direzione
Musiche di Johann Sebastian Bach
- Concerto Branbeburghese n. 5 in re maggiore, BWV 1050
- Concerto Brandeburghese n. 4 on sol maggiore, BWV 1049
- Ouverture n. 2 in si minore, BWV 1067
- Concerto Brandeburghese n. 2 in fa maggiore, BWV 1047

Domenica, 3 ottobre 2021
Aula Magna Rita Levi Montalcini, Mirandola, ore 21,00
Pianoforte: Maria Perrotta
Voce narrante: Sandro Cappelletto
L'Arte della Fuga di Johann Sebastian Bach

Sabato, 21 ottobre 2021
Chiesa di Sant'Agostino, Modena, ore 21,00
Soprano: Joo Cho
Baritono: Sergio Foresti
Due pianistico: Olaf John Laneri & Francesco Frudua
Coro filarmonico di Modena Luigi Gazzotti
Direttore: Giulia Manicardi
Johannes Brahms, Ein deutsches requiem
(versione dell'autore per soli, coro e pianoforte a quattro mani, Londra 1871)

Sabato, 30 ottobre 2021
Nonantola, Abbazia di San Silvestro, ore 21,00
I MADRIGALISTI ESTENSI
Michele Gaddi, direttore
Musiche di;
M.A. Cavazzoni, Recercada (organo)
J. Desprez, Missa Hercules Dux Ferrariae
Julio Segni da Modena, Ricercare III (organo)
G. Belli, Mottetti dalle "Sacrae Cantiones Sex Vocibus Concinendae": O Pastor optime, Veni amica mea, O admirabile commercium, Exaudi Domine, Peccantem quotidie, Duo Seraphim, Clamavi in toto corde meo. (prima esecuzione in epoca moderna)

Venerdì, 11 novembre 2021
Bologna, Sala Bolognini convento di San Domenico, ore 20,30
Violino: Rainer Honeck
Violoncello: Yves Savary
Pianoforte: Pierpaolo Maurizzi
Musiche di;
Ludwig van Beethoven, Trio in si bemolle maggiore, Op. 97 "Dell'Arciduca"
Johannes Brahms, Trio in do minore, Op. 101




sabato, dicembre 11, 2021

Gentilucci: Attualità del "caso Bruckner"

Con l'apparizione, nel ventiquattresimo e conclusivo numero dell'Approdo 
Musicale, di un vastissimo saggio di Sergio Martinotti (un autentico libro che si mimetizza dietro l'apparenza del contributo di rivista, in carattere del resto con la tradizione monografica dei grossi fascicoli della ERI), la Bruckner-Renaissance italiana ha ricevuto un ulteriore attestato, probabilmente decisivo sotto il profilo dell'individuazione critica.
Non è un mistero per nessuno il fatto che nel nostro paese la musica bruckneriana è stata per lungo tempo ignorata o sottovalutata, e comunque è stata assente quasi del tutto dai programmi dei concerti; il compositore austriaco veniva relegato nel sottobosco dei minori, dei musicisti senza personalità, senza adeguata autonomia stilistica. Assai diversa, e da sempre, la situazione nei paesi tedeschi, scandinavi e nordici in genere, dove il musicista è ritenuto addirittura il «quarto B››, dopo Bach, Beethoven, Brahms.
Il punto sulla situazione venne fatto nel 1956, allorché fu fondata a Genova un'Associazione dedicata al compositore austriaco, con lo scopo di propagandare e diffondere con ogni mezzo anche da noi la sua opera e la sua figura. Nel '58 la singolare Associazione diretta da Edward D. R. Neill, che combatteva la sua battaglia con un ardore sorprendente e un tantino fanatico, curò un Anton Bruckner Simposium, cioè una raccolta di articoli e documenti critici intesi, come era scritto nella prefazione, a «saggiare... i nuovi moduli che la critica oggi propone: accertarne le aperture e le nuove vie, e così accogliere l'invito a nuove aperture, a nuovi sviluppi». Per la prima volta si tentava, soprattutto con i saggi di Alberto Basso (Introduzione alle Sinfonie di A.B.) e dell'allora giovanissimo Sergio Martinotti (Aspetti e caratteri del sinfonismo di A. B.), di impostare seriamente il problema critico di un'acquisizione della musica del compositore austriaco al di la delle fitte incrostazioni di luoghi comuni che ne vietavano la comprensione e ne occultavano gli aspetti più singolari.
Le ragioni del rifiuto che in Italia è stato posto per lungo tempo al mondo sonoro bruckneriano, solitamente sono messe sul conto della lunghezza dell'apparato procedurale articolato ad ampissimo raggio, dell'amore teutonico per la costruzione ramificata, dell'esistente sproporzione tra idea tematica e sviluppi, delle frequenti ripetizioni sia pure variate, dell'assenza di ogni «distinzione fra tema e sviluppo, la quale del sinfonismo classico-romantico è la conditio sine qua non›› (D'Amico). Su una linea critica radicalizzata molti studiosi si erano spinti sino a formulare giudizi sommari dettati da luoghi comuni quali la «misura latina›› insofferente di lungaggini, giudizi del tutto incapaci, anche quando non erano avari di osservazioni marginali assai pertinenti, di comprendere le ragioni del parziale divorzio fra forma e contenuto, della sempre più problematica possibilità di raggiungere un'assoluta organicità strutturale, di una mancanza di rispondenza tra le idee tematiche che in Beethoven erano invece luminose e riassuntive, e le travagliate conseguenze discorsive; col risultato di estendere anche a un musicista «attuale» come Gustav Mahler la cortina d'indifferenza e il velo d'incomprensione, e senza accorgersi del fatto che 1'incapacità di «vedere» i limiti del buonsenso formalistico la disperata aspirazione verso un assoluto assunto nelle arbitrarie connotazioni delle più soggettivistiche ricerche introspettive, altro non sono che testimonianze inquietanti dell'uomo immerso nella dimensione storica del suo tempo, paralizzato dall'impotenza (presunta o reale, questo dipende dalla prospettiva ideologica) di ogni affermazione, travagliato da quei problemi e da quelle contraddizioni che porteranno nel giro di pochi anni a terribili conflitti. Se il formalismo critico si mostrava incapace di far presa sull'arte mahleriana, (dove la mancata fusione, l'assenza di classica "misura", la presunta indisponibilità a sceverare ciò che è essenziale da ciò che non lo è, rappresentano in realtà altrettante colonnine di mercurio che registrano la febbre e diagnosticano la "malattia"), nel caso Bruckner s'ha da parlare di motivi meno complessi per quanto concerne l'opposizione alla sua musica. Si sa che l'austriaco era compositore senza problemi, fuori anche dal gran filone della Decadenza, ancorato ad un goticismo strumentale, ad una concezione organistica dei rapporti tra famiglie timbriche, decisamente inattuale e addirittura «a-temporale», legato all'oscura prassi tradizionale della fabbriceria germanica. Senonché questa condizione di scarso legame eteronomico, sfuggente alla presa ghermente e impietosa di una cultura avviata alle più dure consapevolezze, ad una fase di totale autocritica, avrebbe potuto anche rappresentare una condizione di privilegio in pieno clima idealistico italiano, se non fossero intervenuti nel giudizio complessivo motivi più sfuggenti e in certa misura "provinciali", come un nazionalismo nemico non solo dell'avanguardia, ma anche di una tradizione che affondasse le radici sul terreno linguistico del cromatismo, troppo saturo di storicità.
La situazione è recentemente mutata, ma è stato osservato, non senza fondamento, che si è venuta determinando, nella più aperta e serena valutazione del post-romanticismo, una sorta di bipolarità fondata sull'opposizione Mahler-Bruckner, come individuazione della tendenza progressiva imperniata sull'evidenziazione delle ombre esistenziali e, all'opposto, di quella conservatrice e riformista. In seguito a questi "distinguo", Mahler gode oggi della simpatia dei musicisti d'avanguardia, per la sensibilità timbrica già incline a soluzioni che saranno proprie dell'espressionismo, mentre Bruckner è preferito dai «moderati» e dai conservatori. Intendiamoci, questa regola, al solito, non esclude le proverbiali eccezioni, e se ne potrebbero citare di illustri: ma è un fatto che, accanto a Gavazzeni, uno dei più assidui, favorevoli e anche efficaci commentatori bruckneriani, è stato il Confalonieri, notoriamente attestato su posizioni di manifesta avversione per le nuove correnti. Segno che la strada del musicista austriaco, percorsa in assoluta indipendenza, offre motivi sufficienti di tranquillità, essendo gli elementi più nuovi del linguaggio ricondotti sempre entro i rassicuranti argini della tonalità e soprattutto collocati, malgrado l'intenso cromatismo in una dimensione lineare. Non a caso, Paul Hindemith è stato un ammiratore sincero di Bruckner, e nell'ultima fase creativa ne ha quasi ricalcato le orme: anch'egli, dopo gli anni giovanili, durante i quali aveva accentuato drammaticamente il segno compositivo nel senso di una inesorabile meccanica motoria, di una durezza fonica in funzione di sarcastica polemica anti-borghese, era approdato, attorno agli anni '35-45, ad una rinnovata serenità interiore. Il Mathis der Maler rende esplicito, anche semplicemente nella scelta del soggetto, il mutato clima spirituale: la storia del pittore Mathias Grünewald, che dalla convinzione dell'inutilità della semplice contemplazione estetica in un momento nel quale gli uomini combattono per la causa popolare (l'opera è ambientata in Germania ai tempi di Lutero e tratta della guerra dei contadini), e dalla partecipazione attiva alla lotta, deluso poi dalle dure leggi della lotta concreta e dagli inevitabili errori che oscurano l'attuazione delle idee allo stato puro, torna utopisticamente alla pittura come al solo mondo in cui sia possibile realizzare una sostanziale e incontaminata moralità, altro non è, in fondo, che la storia di Hindemith stesso: cioè di un musicista che ha incrociato le poetiche dell'avanguardia senza saperle o volerle seguire fino in fondo, senza mettere in discussione la musica nella sua presunta struttura "naturale": tutte le volte che una crisi sociale ha preteso di estendere la sua capacità corrosiva all'arte, il compositore ha reagito difendendo appunto quelli che per lui erano valori eterni.
Bruckner, spirito ligio alle istituzioni e alle tradizioni, in un certo senso haydniano, è dunque il tipico esponente della tradizione artigianale germanica: l'assenza di problemi, l'aderenza tutt'altro che critica al circostante mondo del provincialismo austriaco, non sottintende affatto l'attardamento su posizioni tecniche superate: già nel '47 Gavezzeni lo aveva rilevato, precisando che "il rapporto fra l'intervallo che rientra in 'media consueta (...) e l'intervallo nuovo, uscito di getto da un'esigenza individuale» deve essere oggetto di precisa valutazione, dato che su questo rapporto s'instaura e cresce il melos di Bruckner ". In un certo senso analogo discorso si può fare, pur tenendo conto delle dovute differenze di cultura e anche di personalità, per Hindemith, come già s'è visto: musicista certamente più colto, informato e teoricamente consapevole, anch'egli opera muovendo da un dato immediato e indiscutibile, avvertito addirittura come un'organizzazione dei suoni secondo "natura"; la tonalità più o meno riformata. Ma a partire da essa, e anzi rimanendo all'interno di essa, Hindemith modifica parzialmente il sistema elaborando un gioco di piani armonici e tonali quasi inconfondibile, per un certo periodo addirittura "avanzato".
Studiare il terreno culturale sul quale Bruckner crebbe e pianto le radici è il primo passo che deve compiere chiunque voglia stabilire la prospettiva critica della sua opera, come s'è visto legata alla cultura germanica ma anche a quella editio minor che è la provincia austriaca. Come annotava giustamente Mila recensendo lo studio del Martinotti sull'Espresso, "se può sembrare relativamente facile stabilire radici e contatti nel campo del sinfonismo, mostrando i rapporti di Bruckner con la tradizione viennese da Haydn a Schubert, sia con le sirene romantiche della «giovane scuola tedesca» e del descrittivismo poematico di Berlioz, per contro la ricognizione del terreno su cui la musica sacra di Bruckner nasce, obbliga il nostro studioso ad una difficile perlustrazione di quel settore ingrato e arido che è il conservatorismo della provincia musicale austriaca, afflitto dalla paralizzante influenza dei luoghi comuni connessi con le convenzioni della musica sacra".
I tempi erano abbastanza maturi perché un'investigazione completa venisse condotta finalmente da un musicologo non solo preparatissimo, ma anche giovane come Martinotti (da tempo riconosciuto «vicario›› bruckneriano in Italia), libero dall'impaccio di pregiudizi fossilizzati e soprattutto non sospettabile di apologetica post-romantica in funzione di ideale baluardo contro le presunte «aberrazioni» delle esperienze contemporanee. Lo studio apparso sull'Approdo è di gran lunga il più esteso e valido pubblicato in Italia sull'argomento. Alla vastissima documentazione storica, che si pone come dato oggettivo, si deve aggiungere lo stile dello scrittore, ramificato e sensibile, saturo di passione letteraria ma sempre applicato in maniera pertinente all'oggetto critico, di apparenza quasi torrentizia, mirante alla conquista complessiva della sigla terminale bruckneriana non attraverso la ferrea deduzione logica del pensiero, bensì mediante il ricorso a piani discorsivi multipli, mediante la somma delle immagini evocative. Per questo la prosa di Martinotti, così aderente all'assunto, lascia ancora aperta la discussione sul rapporto autentico, dialettico, tra la musica di Bruckner e la problematica dei compositori d'oggi, tra due mondi così lontani da apparire irrelati. La linea tenuta dal critico piemontese è quella intesa a recuperare la realtà studiata nella sua zona specifica e quasi "neutra" rispetto all'inevitabile dislivello storico. Appunto per questo la parte più viva è quella di ricostruzione d'ambiente oppure quella che mette in luce le sottili relazioni tra suggestioni native e autonomi fermenti. Si legga l'esemplare confutazione della dimensione unicamente religiosa della musica di Bruckner.
«Ora quella sua apparente inconsapevolezza storica, quella fede più o meno cosciente di accogliere e di tradurre una vocazione estetica magari anacronistica (o atemporale) ci avvia a comprendere il suo anelito, non tanto verso la trascendenza quanto verso l'Assoluto romanticamente inteso. Così il Dio bruckneriano, da privato e particolare, cresce ad orientamento finalistico, dietro ad un impulso, etico prima che mistico, di trascendere la condizione umana verso un esito metafisico. Il giudizio critico più trito ed immediato sembrerà così arrestarsi alla constatazione solo di particolari momenti, alla presenza umana ed artisticamente rapsodica di Bruckner, al rilievo quasi diaristico di una disposizione articolata (drammatica o giubilante), ma sempre religiosa. La religiosità di Bruckner, invece, più che riassunto totale dell'esistenza, pare un momento, accanto ad altri virtualmente possibili››. E ancora l'efficacissima messa a punto del significato dell'arcaismo, immesso nel contesto della timbrica «spazialistica» e del linguaggio cromatico: «Tutti echi di un mondo remoto e decaduto, dunque: e già accennammo come Bruckner, nel suo acquisto paziente (che gli veniva dal ritmo stesso della sua lenta e lunga formazione), nel suo riscatto così minuzioso, esprimeva l'insicurezza della società circostante, l'evasione verso un mondo feudale, verso quella Età dell'Oro che non casualmente dava il titolo ad un quadro di Hans von Marées dipinto mentre Bruckner scriveva la sua Settima Sinfonia››. Francamente un po' forzata e probabilmente dovuta alla preoccupazione polemica di «recuperare» fino in fondo il compositore dilatando alcuni aspetti «moderni» della sua scrittura musicale per farne vettori proiettati verso il futuro, è invece la sottolineatura del «presentimento di una condizione espressionista››: laddove la prosa del Martinotti, dotata della rara capacità di evocare certe immagini, sembra però respingere costituzionalmente un rigoroso inquadramento che stabilisca una prospettiva ideologica in base alla quale sia possibile dare senso più ampio agli eventuali turbamenti esistenziali del candido Bruckner.
Armando Gentilucci
("Rassegna Musicale Curci", anno XX n. 4 dicembre 1967)

mercoledì, dicembre 01, 2021

Alcune considerazioni sull'orchestrazione moderna

Se Vittorio Ricci, morto pochi anni dopo aver pubblicato il suo 
rinomato trattato sull'0rchestrazione, rinascesse a distanza di quarant'anni, avrebbe di che rimanere sorpreso dinnanzi all'orchestra moderna.
Le sue impressioni; credo, sarebbero fondamentalmente positive per quanto riguarda sia la resa degli strumenti che la ricchezza della orchestrazione.
Oggi, in generale, si strumenta bene. A ciò ha contribuito sia la maggior pratica (ossia la maggior possibilità di contatto diretto col suono) da parte dei compositori, sia la concorrenza (o l'esempio) di certi arrangiatori transoceanici, sia la consacrazione in orchestra di parecchi strumenti ritenuti, sino a poco fa, d'uso eccezionale, che hanno arricchito la tavolozza di timbri e di colori.
Ai tempi del Ricci addirittura l'Arpa era considerata eccezionale. Il vibrafono, nel suo trattato, non esisteva. Oggi celesta, campanelli, xilofono, campane, pianoforte, sono divenuti quasi normali. Gli strumenti a percussione poi, anche per influsso del jazz, sono aumentati a dismisura, fino a comprendere temple-block, wood-block, tom tom, tumba, guiro, ecc..
Sono inoltre abbastanza usati, pur restando d'impiego sporadico, il mandolino, la chitarra, la fisarmonica, il saxofono, le Ondes Martenot, la sega, l'organo Hammond, il clavicembalo, il flauto à coulisse.
Ad ogni modo, se al cospetto di questa doviziosa policromìa di chimismi sonori il nostro Vittorio Ricci avrebbe oggi da restar sbalordito, non so per contro quali potrebbero essere le sue reazioni di fronte al capovolgimento di certe proporzioni foniche, all'alienazione di certe strutture, alla pratica di certi impasti tra famiglie non omogenee. E ciò perché la tecnica, in questo quarantennio, ha sviluppato (e talvolta violentato) le cosiddette leggi naturali attraverso un graduale processo, da noi stessi seguito anno per anno, secondo princìpi di correlazione e di necessità contingenti.
Chi avrebbe immaginato, ad inizio di secolo, gli assoli di Tuba di Strawinshy o di Petrassi, galleggianti sopra le armonie degli ottoni principali? L'emancipazione dei contrabbassi dal raddoppio coi violoncelli o coi fagotti? I brividi enigmatici degli archi) dimissionarii per quanto riguarda la funzione di strappa-cuori, e sprizzanti trilli in Bartók, armonici in Ravel, pizzicati sul ponticello in Schönberg, tremoli sulla tastiera in Webern, arabeschi ad intarsio in Ghedini, martellatí e picchettati in Strawinsky?
Chi avrebbe immaginato gli accordi eolici di Salzedo sull'arpa, i passi di agilità degli ottoni in Milhaud, dei legni in Schönberg e Strawinsky, e i nitriti delle trombe, e il russare dei contrabbassi, e i vagiti degli oboi, e le risate dei saxofoni, e le picchiate dei clarinetti e il mitragliamento della sola percussione, insomma tutta l'effettistica moderna?
Chi infine avrebbe immaginato la frattura ritmica e la sillabazione sussultoria di tutta l'orchestra nel puntillismo postweberniano?
Una volta la maggior preoccupazione dell'orchestrale era quella di contare le battute d'aspetto tra frase e frase, tra kolon e kolon. Adesso chi suona in orchestra deve possedere una costante facoltà di controllo delle pause esistenti tra nota e nota, incastonate il più delle volte (vedi Stockausen, Boulez, Nono, Maderna, Berio) in ritmi di natura sovrabbondante (7 su 4, o 5 su 2), tali pertanto da esigere unitamente ad una padronanza delle suddivisioni un'assoluta immediatezza di emissione del suono.
Anche la pratica strumentale ha subìto una sua rivoluzione.
Quanta strada dal principio wagneriano (che era ancora quello del Ricci) di «trattare i diversi gruppi di strumenti in modo autonomo col dare a ciascuno di essi un'armonia completa!››.
Oggi ogni strumento ha consentito la sua patente di individuazione e la sua autonomia. Si è responsabilizzato. Non esistono più strumenti dl ornamento e strumenti di fondamento. Il 4° Corno può essere più importante del 1°, i secondi violini non sono più vassalli dei primi, nè da un punto di vista di rilievo nè in relazione alla zona d'azione.
Tutto ciò, nel grande consorzio orchestrale, è molto bello. E' una specie di conquista democratica che indubbiamente va salutata con gioia.
Però comporta un grosso pericolo.
L'Ombra del vecchio Ricci, ora tutta raggomitolata in se stessa, mi sta chiedendo: una volta ridotti tutti gli strumenti a denominatore comune, unificate le frequenze come quelle della luce elettrica, aboliti (o quasi) i raddoppi, violata la legge dello sposalizio tra suoni di timbro omogeneo, saranno in grado tutti i compositori di controllare questi spruzzi di suoni balenanti nei varii registri degli strumenti in modo che, sia per quanto riguarda la rispondenza fonica che per quanto riguarda la logica e l'ordine interno, essi costituiscano un tessuto compatto e compiuto, dove tutto abbia un carattere di necessità, senza che il caso (o il caos) prenda il posto della coscienza?
Come su tutte le conquiste della tecnica anche sull'orchestrazione moderna pesa il pericolo dell'assorbimento del soggetto nell'oggetto, giacchè ogni sviluppo scientifico può produrre parimenti prodigi e catastrofi a seconda se lo si pone al servizio del bene o del male.
Luciano Chailly
("Rassegna Musicale Curci", anno XVI n. 3-4 giugno-agosto 1962)