Lorenzo Ferrero, giovane compositore torinese, interessato da sempre ad esperienze di musica elettronica - lavorerà per tre mesi all'Ircam di Parigi per una ricerca - del quale è andata in scena il 23 febbraio al Teatro dell'Opera di Roma, in prima rappresentazione assoluta, l'opera "Marilyn - scene degli anni '50 in due atti". Gli abbiamo chiesto un breve saggio sulla figura e sulla musica di Luciano Berio.
Insieme a pochi altri compositori Luciano Berio è indicato ormai ovunque come uno dei maggiori protagonisti musicali del secondo dopoguerra. Non è quindi il caso di spendere parole celebrative, rivolte a convincere chissà chi della qualità della sua musica. Semmai, tanto per non usare a vuoto comuni modi di dire, è bene chiarire cosa significhi protagonista: non solo figura di spicco e non solo la notorietà diffusa fino ai più larghi mezzi di comunicazione, ma soprattutto compositore che rappresenta ad un altissimo grado di consapevolezza una o molteplici risposte alla domanda «come è perché scrivere musica oggi».
Una domanda del genere non nasce oggi dalle generiche incertezze di un adolescente aspirante compositore, ma accompagna costantemente l'attività di chi scrive musica «colta», se non altro nella forma estrema della rimozione del problema.
Mancando, a differenza di quanto avveniva nell'ottocento e fino a Schönberg e Strawinsky, il confronto con una opinione pubblica (borghese) in grado di definire, discriminare, determinare le forme e i modi della comunicazione, è oggi più che mai significativo osservare con quale grado di consapevolezza ogni compositore mette in relazione il proprio linguaggio musicale con le proprie idee sul ruolo del musicista nella società, con i «mezzi di produzione» che decide di mettere in gioco in relazione a contesti sociali determinati, scontrandosi spesso con le resistenze delle istituzioni musicali, o accettando come inevitabile il rapporto privilegiato con una ristretta cerchia di conoscitori, o ancora stimolando e prefigurando condizioni alternative di ascolto.
E' persino banale notare come l'impegno esplicitamente politico di Nono si esprima spesso attraverso grandi forme sinfonico-corali, in modo che l'esecuzione di certe sue composizioni nel momento stesso in cui giunge davanti a un grande pubblico pare quasi essere l'occupazione di uno spazio politico-istituzionale. Come hanno dimostrato le polemiche di destra intorno alla rappresentazione da parte della Scala di - «AL grande sole carico d'amore» -. Diversamente, l'atteggiamento di Bussotti che giunge alla dimensione collettiva attraverso l'amplificazione del privato e del privatissimo, trova la sua strada fra raffinatezze studiatamente eccessive, echi del passato e di un presente filtrato dalla memoria, ed è a suo agio tra forme cameratistiche, impegni solistici, «ad personam» o per contrasto si affida ai grandi complessi sinfonici con intenzioni dichiaratamente «romantiche».
Ancora diversa è la posizione di Berio. La sua musica tocca vari generi musicali, che vanno dalla sperimentazione più vicina al «laboratorio», all'impegno difficile nel campo del teatro musicale di grandi dimensioni (Opera), e comprendono tante musiche di rigoroso impegno stilistico quanto elaborazioni di musiche popolari, non soltanto per l'ovvia ragione della sua fin troppo spesso ricordata abilità artigianale, ma per il bisogno di intervenire in ogni campo in favore di un avvicinamento e persino di una conciliazione delle forme molteplici di comunicazione musicale che sono intorno a noi. Tentativo che ha la sua ragion d'essere nel fatto che la separazione fra musica colta e musica di consumo non è nella realtà dell'esperienza individuale e sociale contrapposizione netta, ma è intersecata da un'infinità di aspetti intermedi e interagenti, non solo sul piano della molteplicità dei generi (jazz, rock, canto popolare, musica classica ecc.,), ma anche nella più riposte stratificazioni di codici. Tanto che si potrebbe polemicamente (e paradossalmente) affermare che vi è distanza minore tra le banalizzazioni meolodico-armoniche del linguaggio tonale nella canzonetta e le riduzioni arbitrarie del linguaggio musicale ad un limitato repertorio di materiali operato da qualche compositore «colto», che fra il jazz non necessariamente più avanzato e alcune delle più serie produzioni contemporanee. Nel contesto più generale di un'intervista sulla sua musica, Berio si è espresso in modo che vale significativamente per questi temi: «La coordinazione del molteplice è una condizione essenziale alla sopravvivenza, non solo musicale».
E in altra occasione, rispondendo ad una domanda sull'impegno politico che considera significativo soltanto se riferibile organicamente alla produzione musicale o altrimenti inutile o quanto meno accessorio (ciò spiega come anziché sviluppare una tematica riferibile facilmente a «contenuti» particolari l'attività di Berio si sia sviluppata coinvolgendo il massimo numero di manifestazioni e generi musicali): «Oggi c'è un solo problema che mi interessa nel rapporto musica-politica: quello di colmarne il fossato fra la musica linguisticamente «popolare» - che si paga da sé, sulla quale si specula industrialmente e ideologicamente - e la musica che non si mantiene da sola e deve essere clamorosamente protetta. I modi di gestire questa protezione sono politicamente più significativi dell'opera musicale che, per sua natura, non è politica ( ... ).
Quando il musicista che crea si pone il rapporto musica-politica come un problema da risolvere e da rappresentare in un pezzo di musica, allora quel rapporto diventa una faccenda piuttosto arbitraria, musicalmente astratta e, per assurdo, politicamente privata».
Il discorso fatto fin qui potrebbe essere riduttivo, e richiamare soltanto una parte delle composizioni di Berio, che va dai «Folksongs» il cui titolo parla da sé, fino alle più complesse ricerche sulla voce e sull'articolazione del messaggio verbale («A-Ronne»), e comprende anche quei momenti in cui le varie espressioni della nostra cultura musicale si presentano nella loro immediatezza, in forma di citazioni più o meno identificabili, come gli stacchi jazzistici di «Laboriutus II» o nella riscrittura Mahleriana del III Movimento di «Sinfonia».
Sono questi gli aspetti in cui la ricerca di Berio nel senso della «coordinazione del molteplice» è più evidente e nello stesso tempo meno radicale, poiché si presenta in modi non ignoti alla nostra storia musicale, dal rinascimento in poi.
Nelle composizioni più neutre da questo punto di vista, che appaiono come elaborazioni e sviluppi di materiali di pura invenzione (da alcune delle «Sequenze» a «Points ori the curve to find» ed altri movimenti di «Sinfonia») si trovano indizi più profondi della disponibilità ad accettare, aldilà dei confini imposti dalla seprazione fra i generi, e dai primitivi strumenti di cui anche la musicologia sedicente radicale si serve per determinarli, il fatto che «quella cosa... alla quale diamo per convenzione il nome di musica, può essere fondata su qualsiasi elemento base, su qualsiasi «signifiant» e può produrre ed elaborare segni specifici da apprendere e da porre in relazione... con un universo generale dei segni in lieve ma continua trasformazione. Questo universo generale dei segni non è un fatto privato, riducibile ad una fenomenologia dell'«io»... ma, piuttosto, a una interazione di archetipi percettivi, nel senso più responsabile, dinamico, e anche un po' junghiano del termine».
Si trova qui un'espressione («archetipi percettivi») che illumina un altro e complementare carattere della musica di Berio: le speculazioni astratte che tanta parte hanno avuto in certa musica contemporanea, che ha tratto dal proprio isolamento giustificazione per sdegnosi ritiri aristocratici, gli sono piuttosto estranee.
La sua musica vive nella realtà della percezione, non soltanto nel senso cui lo spinge la sua natura particolarmente musicale nel senso tradizionale del termine, la propria curiosità per il suono nelle sue più diverse dimensioni (a cui si è dato il nome di artigianato confondendo l'interesse per l'effetto con la capacità di ottenerlo), ma soprattutto attraverso l'assimilazione consapevole delle più recenti richerche psicologiche, semiologiche, linguistiche, verso le quali ha dimostrato sempre un interesse superiore a qualunque altro compositore.
Il fatto poi che i risultati di tale consapevole lavoro, tra cui la relativa immediatezza anche per pubblici piuttosto vasti di molte sue composizioni, siano stati rubricati come piacevolezza istintiva da commentatori ignari degli strumenti culturali di cui sopra, non è che un segno delle difficoltà che incontra il rinnovamento, nel senso anche più direttamente politico-sociale, della vita musicale.
di Lorenzo Ferrero (Laboratorio & Musica, Anno II, n.10, marzo 1980)
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