Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, agosto 27, 2006

Amadeus di nome... Quartetto di professione

"Un quartetto non si può formare o fare, deve nascere"
Dalla voce del primo violino la storia di un complesso che ha saputo conservare dopo quarant'anni d'attività l'amicizia d'un tempo.

Quattro autorevoli e rispettabili signori di mezza età e un miracolo di equilibrio sonoro, di impasto timbrico: il Quartetto Amadeus. La loro storia è iniziata tanti anni fa, quando tre giovani austriaci - Norbert Brainin, Sigmund Nissel e Peter Schidlof - press'a poco coetanei, fuggirono dall'Austria invasa dalle truppe naziste per rifugiarsi in Inghilterra; là si conobbero, in un campo di prigionia, e cominciarono a suonare insieme per poter sopportare - come amano dire - gli orrori della guerra. Finita la guerra, si ritrovarono a studiare da Max Rostal, presso cui studiava anche Martin Lovett; per formare il quartetto uno di loro, Peter Schidlof, rinunziò al suo strumento, il violino, per assolvere la parte di viola che mancava. Da allora non si sono più lasciati, hanno suonato e ottenuto onorificenze in tutto il mondo, fra cui il Diploma Onorario alla York University al termine dell'incarico come quartetto stabile, il Disco d'Oro della Deutsche Grammophon a suggello di una lunga collaborazione. Nel '73, in occasione del loro venticinquesimo anniversario, fu loro consegnata la Gran Croce al Merito nel corso di una grandiosa cerimonia tenutasi presso l'Ambasciata Tedesca di Londra; pochi anni fa il musicologo inglese Daniel Snowman ha dedicato loro un libro: Il Quartetto Amadeus - Gli uomini e la musica.

Norbert Brainin, primo violino del Quartetto Amadeus, è un signore di oltre sessant'anni che possiede comunque ancora qualcosa di quella dinamitica esuberanza per cui era celebre in gioventú; inoltre sembra molto più giovane della sua età anagrafica vestito con una giacca inglese chiara, non di nero com'è in concerto. C'è una ovvia nota di orgoglio nella sua voce mentre parla della splendida formazione del Quartetto, di cui però considerarsi un po' il padre spirituale.
Alla fine di quest'anno saranno quarant'anni dall'inizio dell'attività. Il fatto è che non esiste un quartetto, per lo meno di questo livello professionale, che abbia lavorato insieme senza che sia cambiato uno dei componenti. Credo che non sia mai accaduto nella storia del quartetto d'archi, il che vuol dire dai tempi di Haydn. Ci sono quartetti che hanno avuto un'esistenza più lunga dell'Amadeus, per esempio il Quartetto Budapest, ma alla fine non c'era più uno degli originali componenti.

Un incredibile equilibrio, una meravigliosa intesa sono stati raggiunti nel corso di questi anni, l'unicità di questa esperienza dipende forse dal fatto che vi siate conosciuti in un momento difficile, durante la guerra, cosa che rinsalda i legami?
Non so. Vede, un quartetto non si può formare o fare, deve nascere, è qualcosa come un miracolo, un'Immacolata Concezione: è accaduto. Certo io ho voluto un quartetto; già a dodici anni, a Vienna, ho suonato in quartetto: la mia insegnante aveva invitato altre due persone e così abbiamo suonato in quartetto. In realtà era pessimo, ma io vi ho sentito qualcosa, mi sono figurato un certo suono e ho pensato che se avessi trovato le persone giuste l'avrei fatto volentieri. Poi ho conosciuto i miei colleghi durante gli studi, una volta l'ho proposto loro ed essi erano d'accordo e così abbiamo cominciato a lavorare; era il gennaio 1947. Li conoscevo da molto prima, ma allora abbiamo cominciato a preparare un programma e un anno dopo c'è stato il nostro debutto a Londra. Dopo è stato un periodo molto difficile e faticoso, ma era scattato qualcosa, eravamo molto impegnati e ogni volta era un po' come una prima assoluta.

E oggi?
Oggi no, anche se noi ci esercitiamo come se lo fosse. Ma allora fu veramente un periodo duro; poi improvvisamente, circa dieci anni dopo, ci siamo accorti di essere diventati famosi: così è stato.

Come avete scelto il vostro repertorio?
Naturalmente insieme. Abbiamo in pratica un repertorio classico con piccole eccezioni. Senz'altro c'è stata una connessione fra ciò che noi mettevamo in programma e le case discografiche per cui abbiamo inciso: negli anni '50 per La Voce del Padrone e per la Deutsche Grammophon, poi dal '57 esclusivamente per quest'ultima; ancora oggi incidiamo per la Deutsche Grammophon, ma non più in esclusiva. In quei trent'anni abbiamo inciso praticamente tutto ciò che si può incidere della letteratura classica. Vede, perché si suona professionalmente in quartetto? Per via della splendida letteratura che esiste: Beethoven, Mozart, Schubert, Haydn - degli 82 quartetti di Haydn ne abbiamo suonati circa la metà -, Bartók - che non abbiamo mai inciso perché la Deutsche Grammophon ha la singolare idea che Bartók possano suonarlo soltanto gli ungheresi; è un'imbecillità, come quella per cui possano suonare Schubert soltanto dei viennesi, ma su queste imbecillità si regge il mercato.

Non c'è musica contemporanea nel vostro repertorio?
Non è vero, è piuttosto vero che ci viene richiesto sempre il repertorio classico: tutti pensano "abbiamo il magnifico Quartetto Amadeus, facciamogli suonare qualcosa di bello, non questa musica moderna che non ci piace". Ci sono stati anche dedicati brani da compositori contemporanei, per esempio da Britten, abbiamo suonato molte cose della seconda scuola di Vienna, Schönberg e poi Bartók. Ma certe volte sento della musica che sembra un'acrobazia di note, e la cosa non mi interessa particolarmente. Poi questo grattare sul violino sarebbe un peccato per il mio Stradivari... Non vorrei essere frainteso, la sperimentazione è una cosa interessante, anche Beethoven non era compreso perfettamente dai suoi contemporanei, ma io cerco qualcosa nella musica, qualcosa di divino... non è la parola giusta, spirituale, forse.

Cosa ritenete sia fondamentale per l'interpretazione?
Per prima cosa si deve leggere esattamente la partitura, seguire precisamente le istruzioni e sentire come suona; le prescrizioni del testo non devono solo essere seguite, si deve anche interpretarle e trasformarle in suono, senza interventi, altrimenti ciò che ne viene fuori è qualcosa d'altro. Alcuni pensano che questo qualcosa d'altro possa essere migliore, ma non è migliore; è soltanto una falsificazione, e io mi guardo da ciò. Per esempio Beethoven scrive precisamente cosa vuole, e se scrive piano, dolce e null'altro, così dev'essere fatto con piena espressione, senza effetti di su e giù con il suono. Va interpretato con abnegazione, compreso e interpretato, sentendo attentamwte come suona; se sembra venir fuori qualcosa di non perfettamente bello, un po' duro, difficile, alcuni tentano di lisciarlo, di renderlo completamente tondo, ma se quello è ciò che Beethoven intendeva, così va fatto, anche se suona brutale. E' un po' come una religione, come nella Bibbia: noi crediamo che i Profeti siano stati estremamente saggi e abbiano riportato esattamente ciò che Dio attraverso loro ha prescritto, e anche se qualcosa può sembrare strano, nessuno oserebbe contraddire. Così ci si deve confrontare anche con Beethoven, Mozart, Brahms o Schubert, senza lasciarsi infastidire da qualcosa che può non piacere. Questo chiamo io interpretazione. Sono profondamente convinto che ci sia qualcosa di divino nell'ispirazione dei compositori; sa cosa diceva Furtwägler di Beethoven? "E' la legge": in altre parole Beethoven era un profeta, i compositori ci parlano come profeti, nel corso del tempo me ne rendo sempre più conto. Poi c'è il grosso spazio interpretativo del colore strumentale, del fraseggio, che sono un po' i nostri attrezzi di lavoro. Così vengono fuori le diverse interpretazioni, e questo va benissimo, dev'essere così, sempre però tenendo in gran conto le intenzioni del compositore.

Siete sempre d'accordo sull'interpretazione?
Noi ci lavoriamo tanto finché siamo d'accordo. Se non si è d'accordo non viene fuori alcuna musica. Ma è proprio per questo che abbiamo così tante cose in comune e che siamo rimasti così a lungo insieme: vuol dire pur qualcosa, no? Su numerosi punti discutiamo, su cosa significhino e come vadano eseguiti: si arriva sempre ad un punto in un brano in cui non si riesce ad essere uniti, ci si allontana, ma noi discutiamo e impariamo sempre, e grazie a Dio siamo ancora insieme.

Cosa pensa del fatto che la musica da camera venga eseguita in grossi spazi?
C'è un fraintendimento: si pensa che la musica da camera presupponga spazi ristretti... magari una soffitta! In realtà musica da camera non ha niente a che fare con la "camera", "camera" è la camera del tesoro: questa musica veniva pagata dal Ministero del Tesoro perché destinata al re o al principe. Può sicuramente essere suonata anche in grossi spazi - acustica permettendo - e poi io penso che il messaggio filosofico della cosiddetta musica da camera travalichi spesso di molto la propria stessa orbita. Per esempio Beethoven scrisse la propria musica da camera per un pubblico immaginario, senza pensare che potesse essere suonata davanti ad un grosso pubblico, come avviene oggi. Certe cose di Beethoven non le comprendiamo ancora.

Non ha mai avuto il desiderio di suonare come solista?
Sì, e lo faccio anche. Anche il nostro violista, Schidlof, quando ce n'è l'occasione; gli altri meno; suoniamo anche insieme, brani per violino, viola e orchestra. Ciò che forse non sa è che noi suoniamo anche in trio; il nostro secondo violino, Sigi Nissel, ha avuto un infarto sei anni fa, e i medici gli hanno prescritto non più di quaranta concerti l'anno. Così per quelli che facciamo in più ci presentiamo come trio, o in qualsiasi altra formazione che non richieda un secondo violino, trio con pianoforte o cos'altro.

Non pensate ad una sostituzione?
Non avrebbe senso, significherebbe ricominciare tutto da capo. E poi sarebbe estremamente sgradevole.

Ad un certo punto emerge la sua viennesità, e divaga, in una lunga digressione, sui capolavori della produzione di Schubert.
Sì, nonostante siano ormai quarantotto anni che vivo a Londra, da qualche parte di me sono ancora viennese; quando sono a Vienna poi sono più viennese che mai. Ma - si stupirà - quando sono fuori dall'Inghilterra mi rendo conto di essere diventato estremamente british.

Avete fissato un termine alla vostra attività?
Accetto il fatto che prima o poi dovrà accadere, ma non sono stati fatti piani a proposito.

Tutti i membri dell'Amadeus insegnano; vedete fra i vostri allievi dei possibili eredi?
A Colonia abbiamo avuto degli allievi che sono già entrati nel mondo della musica, il Quartetto Cherubini o il Quartetto Aurin, che sono entrambi tedeschi, il Voces, che è rumeno. C'è una certa continuità... Si spera che trovino la forza di continuare ad evolversi, perché non sono molti i quartetti veramente di prima qualità nel mondo, si contano veramente sulle dita di una mano. E arrivare a certi punti di concezione spirituale richiede molto, molto tempo... Arrivare al punto che ai concerti la gente senta la musica con grande piacere e anche rispetto, devozione. Credo che uno di questi ensemble farà parlare di sé, e ne sono molto fiero.

Qual è il ricordo più bello di questi quarant'anni di attività?
Difficile a dirsi; forse quando nel '57 o '58, a Londra, abbiamo suonato al Festival Hall, che contiene 2400 persone, ed era completamente pieno, incredibile. Allora ho pensato "siamo arrivati".

Avete mai avuto problemi fra di voi?
Certo problemi ne abbiamo affrontati, ma mai questioni personali; niente di serio.

Vi frequentate solo per lavoro o anche per amicizia?
Noi siamo intimi amici, ci invitiamo a vicenda, siamo sempre insieme: è più il tempo che passo con i miei colleghi che con la mia famiglia! Così siamo contenti quando torniamo a casa e non ci si vede per un paio di giorni: bisogna equilibrare, razionalizzare. Ma noi siamo ancora vivamente amici.

Conoscendo il pubblico di tutto il mondo, quale preferite?
Mah, per lo più quello delle grosse città; per esempio il pubblico di Parigi è fantastico, elettrizzante, ma nel resto della Francia... Firenze, poi Colonia, certamente Londra. Ho amato molto il pubblico del Conservatorio di Torino, perché c'erano molti giovani. A Buenos Aires c'è un pubblico assolutamente fantastico. Vienna è interessante per la psicologia del pubblico: la gente non si cura dei concittadini, ma quando uno ha ottenuto successo all'estero e torna famoso, allora viene incredibilmente festeggiato, e ne sono fieri: nemo propheta in patria. Il pubblico è importante, è difficile superare certe barriere di mediocrità; se il pubblico è noioso è tutto più difficile.

Parliamo ancora di questo e quello, mi racconta una deliziosa storiella viennese (due nobilotti si incontrano al Friedhof, a uno è morta la moglie di influenza, l'altro esclama "Grazie a Dio non è stato niente di serio!" e mi confida:
Lo sa che ho un possedimento in Italia? Una casa a Barga, dove allestiscono Opera Barga, vicino a Lucca. Di tutti i posti in cui sono stato nel mondo, amo particolarmente l'Italia, per me è il posto più bello. I barghiani poi sono convinti che Barga sia il più bel posto nel mondo, e lo credo anch'io.
intervista di Luciana Galliano (Musica Viva, Anno XI n.6, giugno 1987)

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