Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, settembre 25, 2006

René Jacobs, tra Classico e Barocco

A quasi sessant'anni René Jacobs appare oggi come uno dei musicisti più completi e maturi della sua generazione; un direttore le cui esperienze come cantante, filologo e docente permettono di affrontare i problemi esecutivi con consapevolezza rara; un interprete che soprattutto in questi ultimi anni ha saputo realizzare tutte le sue potenzialità, collezionando nel frattempo ina serie invidiabile di premi e riconoscimenti. Fedele all'atteggiamento artigianale che distingue la scuola fiamminga (nato a Gand nel 1946, Jacobs ebbe presto incontri con i fratelli Kuijken e con Philippe Herreweghe), la prima metà della sua carriera appare oggi come un lungo apprendistato che prepara gli esiti raggiunti nella piena maturità. Già negli anni settanta, comunque, quando cominciò ad affermarsi seriamente come controtenore e quando iniziò una collaborazione trentennale con la sua casa discografica Harmonia Mundi, Jacobs mostrava non solo doti vocali e interpretativi di assoluto rilievo, ma anche un'intelligenza culturale fuori del comune, paragonabile a quella evidenziata dal suo idolo Dietrich Fischer-Dieskau negli anni cinquanta. Al 1977 risale la fondazione del suo Concerto Vocale, nel quale suonavano strimentisti come il gambista Wieland Kuijken, il liutista Konrad Junghänel e il clavicembalista William Christie, e memorabili in quegli anni furono i programmi dedicati a Cesti, Charpentier, Marenzio e Monteverdi. Nel 1978 Jacobs divenne docente alla Schola Cantorum di Basilea (dov'era stato allievo di August Wenzinger) e già nel 1983 salì sul podio per dirigere un'opera, quell'Orontea di Cesti che ebbe un grande successo ad Innsbruck: una città con cui mantiene tuttora uno stretto legame, essendo diventato nel 1991 direttore artistico delle Festwochen der Alter Musik. Negli anni ottanta si divise poi sempre di più tra il ruolo di cantante (nel 1985 pubblicò con Actes Sud il saggio «La Controverse su le timbre de contre‑ténor») e quello di direttore, che divenne invece dominante negli anni novanta.
Il René Jacobs di oggi, che ci accoglie con calore nel suo luminoso appartamento nel Marais, a Parigi, il giorno dopo una splendida esecuzione di Solomon di Händel al Théátre des Champs Elysées, non è conosciuto quanto meriterebbe dal pubblico italiano (anche se il suo Messiah di Händel ‑ che prossimamente uscirà anche in disco ‑ ha avuto un'ottima accoglienza sia a Milano che a Roma lo scorso inverno). Ma per fortuna ha inciso buona parte del suo repertorio ‑ ci sono ventisette titoli attualmente nel catalogo ‑ con l'Harmonia Mundi (il prossimo progetto è Don Giovanni, da realizzare in autunno dopo recite a Innsbruck e a Baden Baden), firmando negli ultimi tre lustri una serie sorprendente di edizioni di riferimento. Tra quelle monteverdiane spiccano Il ritorno di Ulisse in patria, il Vespro della beata Vergine e i Madrigali guerrieri ed amorosi. E tra quelle händeliane emerge soprattutto il Saul, premiato quest'anno con un Midem Classical Award. Non meno emozionanti sono Il primo omicidio di Alessandro Scarlatti, le Stagioni di Haydn, Le nozze di Figaro (anch'esse premiatissime) e La clemenza di Tito di Mozart. In tutte queste registrazioni emerge non solo la particolare sensibilità dell'ex‑cantante per l'articolazione della linea vocale, ma anche la capacità di affrontare le più ambiziose strutture architettoniche con un fraseggio dal respiro fisiologico, di trovare un ideale equilibrio tra suono e parola, tra propulsione drammatica e abbandono lirico. E se come controtenore Jacobs ebbe un numero limitato di occasioni per affrontare delle opere liriche in forma scenica (c'era ancora parecchia diffidenza nei confronti di questa categoria trent'anni fa), oggi è diventato uno dei più autentici uomini di teatro dei nostri tempi.

Com'è stata preparata la nuova incisione della Clemenza di Tito?
Abbiamo fatto delle esecuzioni in forma di concerto prima di realizzarla e nei primi tre giorni di prove ci siamo concentrati interamente sui recitativi. E' lì infatti che si concentra il dramma di Metastasio e Mazzolà, e per fortuna disponevamo di un gruppo di cantanti intelligenti che avevano voglia di approfondirli. Non avevano bisogno di un regista per spiegare loro i personaggi: bastava leggere con attenzione il libretto. La qualità poetica dei testi è molto elevata: a volte gli interpreti non si rendono conto del fatto che anche i recitativi secchi sono modellati su versi poetici regolari ‑ settenari o endecasillabi ‑ e che le pause tra un verso e l'altro in partitura vanno assolutamente rispettate. E' vero che i recitativi non furono musicati da Mozart. Il tempo a disposizione era poco, e probabilmente fu Süssmayer a realizzarli: si capisce infatti che furono messi in musica da un compositore che non conosceva bene l'italiano (hanno difetti simili a quelli mostrati da Haydn nelle sue opere italiane). Proprio per questo motivo mi sono permesso di correggere qualche errore palese e di modificare alcuni passi in cui serviva una maggiore varietà melodica e armonica. Ho anche arricchito in qualche caso l'accompagnamento del recitativo secco, e devo dire che gli strumentisti della Freiburger Barockorchester che hanno realizzato il basso continuo hanno mostrato molta fantasia e una perfetta comprensione del contesto drammatico.
Sono ricche di varianti anche le parti vocali.
Ho dato diverse indicazioni ai cantanti sui luoghi in cui variare o introdurre cadenze. Ai tempi di Mozart le corone per esempio indicavano chiaramente un'occasione per improvvisare. Si abbelliva molto nel tardo Settecento, ed è giusto eseguire la musica di Mozart con la stessa libertà con cui si eseguono Cimarosa e Paisiello. C'è persino una lettera del compositore al padre in cui si lamenta di dover lavorare con un tenore poco intelligente, incapace di improvvisare delle semplici transizioni da un episodio musicale all'altro.
Queste cose si sanno da decenni, eppure capita ancora oggi di sentire esecuzioni mozartiane senza neppure le necessarie appoggiature.
La colpa è innanzi tutto dei direttori. Anche quelli più celebri sono spesso del tutto indifferenti a questioni del genere. Mi ricordo di aver detto una volta a un cantante italiano di inserire le appoggiature, e lui mi rispose che gli era stato detto che si trattasse di una scelta puramente facoltativa... Nel Settecento in realtà le appoggiature venivano inserite sempre nei recitativi, e l'edizione critica delle opere pubblicata da Bärenreiter le indica chiarissimamente. Le introduzioni alle singole partiture contengono dei suggerimenti stilistici molto intelligenti: nell'edizione di Mitridate troviamo la migliore introduzione al recitativo che io conosca, firmata dal grande studioso e organista italiano Ferdinando Tagliavini. Purtroppo la maggior parte dei direttori non legge neppure questi testi! Ci sono naturalmente delle eccezioni ‑ Charles Mackerras è stato un pioniere da questo punto di vista ‑ ma altri come Harnoncourt, che in teoria sarebbe un campione della prassi autentica, trascurano questi dettagli. E francamente non li capisco.
Secondo Lei i soprani che interpretano ruoli come Vitellia devono avere perforza un registro di petto ben sviluppato?
Assolutamente sì. Non si può immaginare una Vitellia senza quel registro, e lo stesso vale per Fiordiligi in Così fan tutte. E' evidente che Mozart amasse questo tipo di voce. Del resto l'ideale di una voce ‑ o di uno strumento ‑ che abbia lo stesso colore in tutta l'estensione è un retaggio dell'Ottocento. Pensiamo per esempio al flauto traverso: prima che venisse costruito in metallo, aveva sempre delle note deboli, una specie di passaggio di registro.
La clemenza di Tito è la prima opera seria di Mozart che ha diretto?
Sì, ma mi piacerebbe molto fare anche Lucio Silla e Idomeneo, e non credo mancheranno delle occasioni per farle: c'è già un progetto infatti per Idomeneo.
Ritiene che ci sia qualche legame filosofico tra Le nozze di Figaro, l'ultima opera mozartiana che ha inciso, e La clemenza di Tito?
I libretti sono molto diversi, ma la filosofia dell'Illuminismo è evidente in entrambi. In Figaro, le idee pre‑rivoluzionarie sono palesi, e va ricordato che La clemenza fu concepita come Fürsten-spiegel: letteralmente uno «specchio» per l'Imperatore. L'opera finge di rendere omaggio a Leopoldo II paragonandolo a Tito, ma in realtà il paragone non fa altro che palesare l'inferiorità di Leopoldo a Tito sul piano dell'idealismo. L'opera contiene an­che diversi elementi massonici: gli studi più recenti hanno evi­denziato le somiglianze con Die Zauberflöte, composta nello stes­so periodo. Secondo me poi i tumulti del finale primo ‑ con i suoni del coro fuori scena ‑ echeggiano chiaramente le atmosfe­re delle rivoluzione francese: e ricordiamoci che la sorella di Leopoldo si trovava già nel carcere della Bastille ai tempi della prima rappresentazione.
La prossima opera mozartiana che dirigerà, a Innsbruck nel mese di agosto, è Don Giovanni.
Don Giovanni ha invece radici antiche: per capirlo bisogna conoscere l'opera veneziana del Seicento, con la sua mescolanza ambigua tra comico e tragico. Come nelle opere di Cavalli, che conosco bene, non si sa mai se un personaggio dice il vero o il falso. Incideremo l'opera in autunno, con Simon Keenlyside, Lorenzo Ragazzo e Alexandrina Pendatchanska nel cast.
Come affronta la questione dei tempi in Mozart?
I tempi naturalmente sono dettati soprattutto da quanto è scritto sullo spartito. Quando per esempio Mozart indica «alla breve», lo interpreto letteralmente. Un Adagio alla breve è chiaramente più mosso di un Adagio in quattro. Nei pezzi concertati i tempi sono dettati anche dalla necessità di articolare chiaramente le parole. Ci sono del resto due tipi di concertato: quello dove l'azione progredisce, in cui le parole devono essere dette con un ritmo simile a quello dei recitativi, e quello in cui l'azione si ferma, dove occorrono naturalmente tempi più lenti. Per stabilire i tempi giusti possono essere utili anche le testimonianze d'epoca: quelle del primo Ottocento, per esempio, che parlano già di un forte rallentamento dei tempi mozartiani. Per Don Giovanni e Die Zauberflöte abbiamo i ricordi di strumentisti che eseguirono queste opere sotto la direzione di Mozart: sembra per esempio che negli anni 1820 la durata media dell'esecuzione di «Ach, ich fühls» era raddoppiata rispetto al tempo imposto da Mozart. E quello del compositore era un tempo così veloce che nessuno oggi oserebbe proporlo. Ma ha una sua logica: comunica infatti il rapido battere del cuore di una donna che si sente tradita e pronta a morire. C'è anche il commento di Dionys Weber, citato da Wagner, che ricordava come Mozart desiderava tempi sempre più spediti per l'ouverture delle Nozze di Figaro.
Accetterebbe oggi di dirigere Mozart con un'orchestra di strumenti moderni, o si sentirebbe ormai a disagio con una soluzione del genere?
Ho avuto un'esperienza positiva dirigendo Die Zauberflöte al Théátre de la Monnaie di Bruxelles con l'orchestra del teatro, ma sono venuti incontro ad alcune mie richieste. Volevo che fossero gli stessi strumentisti a suonare ogni sera (capita spesso che ci siano delle rotazioni nei teatri) e che ci fosse un Konzertmeister proveniente da un'orchestra che utilizza strumenti antichi. In quest'occasione ha usato uno strumento moderno, ma ha insegnato agli archi come fraseggiare secondo la prassi d'epoca. Ho voluto poi strumenti antichi per la sezione degli ottoni, e per fortuna c'erano diversi professori del teatro capaci di suonarli. Con queste modifiche il suono si è già trasformato, anche se un'orchestra moderna non può mai raggiungere in questo repertorio gli esiti stupefacenti della Freiburger Barockorchester.
Le Sue interpretazioni cambiano a seconda dell'acustica delle sale?
Si dovrebbe cambiarle sempre, anche se in tournée è difficile trovare il tempo per individuare le sonorità ideali per ogni edificio. Non proporrei mai L'incoronazione di Poppea in un grande teatro d'opera con quello che forse era l'organico originale di Monteverdi: due violini e un basso continuo di quattro strumenti. Il compositore infatti scriveva per un teatro di duecentocinquanta posti; per i teatri più grandi bisogna aggiungere altri archi e dei fiati - tromboni e cornetti - che si sentono bene anche in una sala ampia. Recentemente abbiamo proposto il Messiah di Händel nella sala più grande del Parco della Musica a Roma: l'organico era relativamente piccolo, ma l'acustica della sala è eccellente e gli strumentisti della Freiburger Barockorchester hanno suonato come se la loro vita vi dipendesse.
Lei è stato molto attivo come didatta. Insegna ancora?
Non più. Non trovo più il tempo. Insegnavo la prassi esecutiva barocca a cantanti e continuisti alla Schola Cantorum Basiliensis. Ed è soprattutto quella scuola a incoraggiare le forme più elaborate di basso continuo. In altri paesi questa materia non viene insegnata così approfonditamente. Lavorando per esempio sul Solomon di Händel con l'Orchestra of the Age of Enlightenment, che pure è bravissima, non ho potuto realizzare neppure la metà degli effetti che riesco a trarre dai recitativi con la Freiburger Barockorchester. Purtroppo le orchestre britanniche hanno sempre fretta e va a finire che i recitativi vengono realizzati in maniera meccanica.
In che modo la Sua esperienza di cantante influisce sul Suo modo di dirigere?
Saper respirare è fondamentale per un direttore non meno che per un cantante. Il modo migliore di indicare all'orchestra un attacco in levare e respirare come se stessi per cantare una frase: il gesto che deriva da quel respiro sarà quello giusto. Chiaramente il mio repertorio, incentrato sulla musica vocale, rispecchia il mio passato come cantante, ma in futuro mi dedicherò sempre di più alle composizioni puramente orchestrali. Dopo il buon esito dell'incisione delle sinfonie di Haydn, la Harmonia Mundi mi ha chiesto di incidere le ultime quattro sinfonie di Mozart, due delle quali saranno incise già quest'anno. E mentre dirigo la sola orchestra, mi rendo conto di essere non meno «cantante» di quando dirigo una composizione vocale, perché l'orchestra canta di continuo, e nella musica sinfonica si svolge sempre una specie di dramma, anche se mancano le parole.
Dove ebbe luogo la Sua prima formazione musicale?
Nel coro della cattedrale di Gand, nel Belgio. Era un coro per ragazzi e uomini, ma i ragazzi avevano poi un altro coro più piccolo con una propria attività concertistica. Avevo una voce mezzosopranile, abbastanza buona per poter fare degli assoli. Era il periodo prima del Concilio Vaticano II in cui si eseguiva il canto gregoriano in chiesa ogni giorno. Si tratta del migliore esercizio vocale che si possa immaginare: pagine ricche di melismi, ma con un'estensione limitata. Il nostro maestro, che si chiamava Noel Van Wambeke, mi incoraggiava comunque ad affrontare un vasto repertorio, tra cui i Lieder di Mozart e Schubert e persino La camera dei bambini di Mussorgski, che cantavo in traduzione tedesca. Senza Van Wambeke, che era un prete e che purtroppo morì presto in un incidente d'auto, non sarei mai diventato un musicista professionista. Mi portava volumi di Lieder e mi accompagnava al pianoforte. Mi fece ascoltare le incisioni di Dietrich Fischer-Dieskau della Winterreise e della Schöne Müllerin. E da quelle incisioni nacque il mio amore per la lingua tedesca. La mia lingua madre è il fiammingo, e a scuola studiai il francese e l'inglese, ma il tedesco è la mia lingua preferita. Esiste persino qualche registrazione privata delle mie esecuzioni liederistiche di allora. Van Wambeke veniva a casa poi con delle musiche pianistiche a quattro mani e mi fece suonare con lui tutte le nove sinfonie di Beethoven. Ricordo che era difficilissimo e che facevo moltissimi errori, ma lui mi diceva sempre: «Vai avanti, non smettere di suonare» e così acquisii una grande facilità nel suonare a prima vista.
In quell'epoca assisteva pure ad esecuzioni altrui?
Andavo spesso a concerti di musica da camera a Gand, e talvolta anche all'opera. La prima opera che vidi fu Cavalleria rusticana. Avevo dieci anni, ma ricordo ancora alcune soluzioni registiche che mi fecero sorridere. La seconda fu il Don Carlos, con Boris Christoff nel ruolo di Filippo II. Lui mi fece una forte impressione, ma la compagnia intorno a lui era pessima, ed era difficile restarne coinvolti. Dopo quell'esperienza infatti non volli più andare all'opera. Soltanto molti anni dopo cominciai a scoprire il teatro di Mozart attraverso le incisioni di Karajan e di Böhm, che mi piacquero moltissimo. Così mi avvicinai gradualmente anche all'opera barocca, che mi permise di capire il genere anche dal punto di vista filosofico. Il dramma per musica dopotutto è un'invenzione barocca, e tutte le sue potenzialità sono già riassunte in Monteverdi.
Dovette smettere di cantare durante l'adolescenza a causa della muta della voce?
Quando una voce sopranile si trasforma in un basso, il cambio può essere brusco e traumatico. Più graduale è la trasformazione di un alto in un tenore. Io cantai con la mia voce mezzosopranile fino all'eta di sedici anni, poi - dopo una pausa di circa un anno - incominciai a cantare da tenore. E a diciotto anni io pensavo di essere un tenore. Presi lezioni di canto da Louis Devos, un tenore e direttore d'orchestra, e feci dei concerti come tenore solista in esecuzioni delle Cantate di Bach dirette da Philippe Herreweghe, che veniva dalla stessa mia città ed era all'inizio della carriera pure lui. Poi ebbi il primo contatto con Alfred Deller: venne a Gand per un'esecuzione in forma di concerto della Faery Queen di Purcell. Io cantavo nel coro, mentre le parti solistiche erano affidate al Deller Consort. E quando Deller incominciò a cantare un nuovo mondo si aprì davanti a me. Allora non sapevo bene cosa fosse un controtenore, ma riconobbi subito quel registro di falsetto che già impiegavo come tenore nel registro acuto, anche se il mio maestro mi diceva che non avrei dovuto usarlo.
Che tipo di uomo era Deller?
Aveva quella flemma tipicamente britannica. Una volta, quando gli chiesero come reagiva alle recensioni negative, rispose: «Possono impedire il pieno godimento della prima colazione, mai del pranzo». Deller non insegnava in modo regolare, ma ogni estate, a Senanque nel sud della Francia, faceva dei corsi estivi, gestiti da quella che si chiamava scherzosamente la «Deller mafia». Fu lì che ebbi le mie prime e uniche lezioni con un controtenore. L'insegnamento più importante che mi trasmise riguardava non tanto la tecnica quanto la proiezione delle parole, che devono essere sempre comprensibili ed eloquenti. Quando studiai con lui l'Ode to St. Cecilia di Purcell, si cominciò con una lettura ad alta voce delle parole. Devo dire che nessun controtenore dopo Deller è riuscito a far vivere il testo come lui, a dargli una colorazione così espressiva.
Era tentato di imitare il suono di Deller?
Lui era l'unico mio modello, perché non c'erano altri controteneri di primo piano allora, se si eccettua l'americano Russell Oberlin. Tuttavia, a differenza di Deller, che era un falsettista puro, io ho sempre usato il mio registro di petto tenorile per l'estensione grave. Più tardi subii l'influenza di un altro controtenore, Paul Esswood, sentendolo cantare la parte per alto in una registrazione della Passione secondo Matteo diretta da Harnoncourt. Fino a quel momento avevo sostenuto le parti tenorili nella Passione, tra cui l'Evangelista, e all'inizio non avevo l'estensione acuta per affrontare da controtenore una pagina come «Erbarme dich ». Ma lavorai molto sodo per conquistare le note alte e alla fine ci riuscii. Per farlo bisogna impostare bene il passaggio di registro superiore. Ho lavorato tecnicamente anche con un soprano olandese: ho scoperto che il meccanismo vocale di un controtenore è più vicino a quello di una voce femminile che a quello di un tenore. Quando sfruttavo però l'estensione acuta, era più faticoso usare poi l'emissione di petto per l'estensione grave. L'Orfeo di Gluck era particolarmente difficile da questo punto di vista: nei recitativi, dove c'è un accompagnamento orchestrale con un forte tremolo negli archi, c'era sempre il rischio di portare il registro di petto troppo in alto.
Quando cantava, c'era qualche ruolo che sembrava scritto proprio per la Sua voce?
C'è un ruolo che in realtà non ho mai cantato ma che sarebbe stato ideale per la mia voce com'era all'inizio della carriera. Si tratta di Ottone nell'Incoronazione di Poppea. Fra l'altro è difficile trovare controtenori adatti a questa parte oggi. Quando la mia voce divenne più acuta, la maggiore parte dei ruoli scritti da Händel per Senesino andavano piuttosto bene per la mia voce.
L'influenza di Deller si è sentita nelle scelte del repertorio?
Non ho fatto in realtà molto repertorio inglese. Ho inciso alcune musiche di Purcell per la Harmonia Mundi, ma non essendo di madre lingua mi sembrava difficile uguagliare la dizione di Deller. E secondo me neppure altri controtenori inglesi e americani riescono ad avvicinarlo. Come controtenore mi sono concentrato sempre di più sul repertorio italiano, tedesco e francese. Ho inciso persino un disco di ariette di Bellini e Donizetti: un disco che va considerato però come un péché de jeunesse. Anche la pronuncia italiana non è facile, e sono sicuro che se dovessi riascoltare oggi le prime incisioni che feci in italiano troverei errori ricorrenti: doppie consonanti trascurate, vocali impure ecc.. Il mio amore per la dizione italiana perfetta deriva dalla collaborazione con cantanti e maestri sostituti italiani nella preparazione di spettacoli teatrali. E ogni volta che ho diretto un lavoro italiano in disco, ho sempre voluto con me un preparatore esperto della lingua. L'abbiamo avuto anche per la Clemenza di Tito.
Come trova le giovani voci italiane di oggi?
L'Italia continua a essere un paese di ottime voci, ma la qualità dell'insegnamento è generalmente scarsa. Lavoro spesso con cantanti italiani, ma sento che i soprani in particolare vanno incontro a problemi tecnici molto presto. Mi capita sovente di scoprire un giovane soprano con delle qualità fantastiche, ma quando torno a lavorare con lei dopo un paio d'anni sento qualcosa che non va nella voce. Spesso le cantanti italiane affrontano ruoli drammatici troppo presto, sviluppando magari un registro acuto molto voluminoso ma perdendo di qualità nei centri. E non vengono seguite sempre da un maestro di canto, mentre un soprano tedesco come Dorothea Röschmann è capace di volare a Londra tra una prova e l'altra per farsi controllare dalla sua maestra Vera Rosza.
Quando sente che un cantante ha dei problemi tecnici, cerca di parlarne insieme?
E' molto difficile dire la verità a certi cantanti. Alcuni mostrano risentimento anche se dici che sono calanti o crescenti d'intonazione. Mi piace infatti lavorare molto con i giovani perché posso dire tutto quello che penso!
Com'è stato il Suo rapporto con registi d'avanguardia, come David McVicar?
Con McVicar abbiamo allestito l'Agrippina di Händel a Bruxelles, e poi a Parigi. Una regia attualizzante in maniera intelligente. Curiosamente però, quando lo stesso regista tentò un approccio simile con L'incoronazione di Poppea due anni dopo, non funzionò altrettanto bene. In linea teorica fu una scelta logica, perché le due opere hanno diversi personaggi ‑ Nerone, Poppea, Ottone ‑ in comune, ma in teatro vennero a galla le forti differenze tra Händel e Monteverdi. In entrambe le opere ci sono scene comiche, ma nell'Incoronazione c'è pure la morte di Seneca, che rappresenta il cuore dell'opera: un momento di notevole gravità. E secondo me l'approccio del regista qui era troppo leggero, troppo vicino al musical. Curiosamente la Poppea di McVicar fu realizzata prima al Théátre des Champs Elysées, e i francesi l'odiavano. Poi l'abbiamo fatto a Berlino, e i tedeschi l'adoravano ‑ forse perché sono più abituati agli allestimenti in abiti moderni.
Quanta influenza ha il direttore sulle messe in scena delle opere che concerta?
Cerco sempre di incontrare il regista con grande anticipo, in modo che possa capire le sue idee e soprattutto capire se ama veramente l'opera che deve mettere in scena e se ha fiducia nella drammaturgia. Si tratta di una questione fondamentale, perché se quella fiducia non c'è, è probabile che il regista tenterà di cambiare la drammaturgia. Personalmente ho avuto delle esperienze molto positive con alcuni dei registi più giovani, come Vincent Boussard ‑ con cui farò Don Giovanni a Innsbruck e a Baden Baden quest'anno ‑ e Stephen Lawless, il regista con il quale l'anno scorso abbiamo messo in scena Don Chisciotte in Sierra Morena di Francesco Conti, sempre a Innsbruck. Una messa in scena eccezionale per un'opera straordinaria che sarà ripresa al Théátre de la Monnaie nel 2010.
Don Chisciotte non è certo l'unica opera dimenticata che ha riproposto in questi anni...
In effetti mi piace molto riscoprire opere ingiustamente trascurate. Con Lawless ho fatto pure La Griselda di Alessandro Scalatti, un'opera fantastica. E' un vero peccato che non si facciano più spesso le opere di Scarlatti: secondo me sono molto più interessanti di quelle di Vivaldi, che era più grande come compositore di musica strumentale che come operista, anche perché aveva un atteggiamento decisamente mercenario, riciclando di continuo gli stessi pezzi. Scarlatti era molto più serio: non riclicava mai; ogni aria era una nuova invenzione, e di conseguenza la sua musica è piena di sorprese. In Händel, quando si sentono le prime quattro misure di un'aria, qualche volta si riesce a indovinare la quinta misura. Con Scarlatti è ben più difficile. Vorrei dirigere Il Tigrane, una delle sue ultime opere, ma non ci sono per ora progetti precisi. Un altro compositore che vorrei dirigere è Agostino Steffani: un vero genio, che lavorò soprattutto in Germania. E' un peccato che non ci sia maggiore interesse per lui in Italia, dove viene ancora troppo trascurata l'opera barocca. Non a caso conosco diversi bravissimi strumentisti italiani che hanno studiato alla Schola Cantorum Basiliensis e poi sono rimasti all'estero, costretti all'esilio. Anche Cavalli risulta piuttosto trascurato nel suo paese d'origine. Lo ho diretto recentemente a Bruxelles e a Innsbruck la sua ultima opera: L'Eliogabalo, composta nel 1668. Abbiamo dovuto lavorare esclusivamente sul manoscritto della partitura, perché non esiste nessun libretto stampato: il Senato si rifiutò di autorizzare la sua pubblicazione perché era ritenuto politicamente scorretto. In partitura la musica è scritta molto chiaramente, ma è più arduo decifrare il testo perché manca la punteggiatura. Abbiamo lavorato per diversi giorni per stabilire una versione plausibile. L'opera si è rivelata veramente notevole: un po' somigliante all'Incoronazione di Poppea con la differenza che Eliogabalo è ancora peggiore di Nerone. La conclusione però è moraleggiante, perché nel frattempo Venezia era diventata una città meno libertina.
Lei ha dedicato molte energie in questi anni a Monteverdi. Delle tre opere trova che Il ritorno di Ulisse in patria sia la più difficile da interpretare?
Io adoro Il ritorno di Ulisse. In Poppea c'è il problema che non tutta la musica è di Monteverdi. Era vecchio e ammalato e si avvalse dell'aiuto dei suoi collaboratori, tra cui Francesco Sacrati e Benedetto Ferrari. Il ritorno di Ulisse in patria invece è tutto Monteverdi grand cru. Il ruolo di Penelope rappresenta un problema perché è lunghissimo e ci vuole un mezzosoprano grave oppure un vero contralto. A Berlino ho avuto un'interprete eccellente in Patricia Bardon, mentre nell'incisione dell'Harmonia Mundi c'era Bernarda Fink: una cantante che riesce a commuovere sempre, ma che probabilmente non canterebbe più questo ruolo oggi perché la voce si è spostata in alto. Penelope è un'altra parte per la quale il registro di petto è indispensabile, e ci vuole una cantante che sappia recitare con la voce. Solo alla fine dell'opera, quando Penelope è nuovamente felice dopo aver ritrovato Ulisse, sentiamo un canto puro e melismatico.
In Italia dirige relativamente poco...
C'è il progetto di fare un Tancredi in forma di concerto, magari con entrambi i finali, nell'ambito della stagione di Santa Cecilia a Roma. Alcuni anni fa diressi l'Orfeo di Monteverdi al Teatro Goldoni di Firenze. Un allestimento di Luca Ronconi, che ebbe l'idea di riempire d'acqua la platea. Una scelta molto stravagante che lasciava a disposizione del pubblico soltanto centosessanta posti a sedere. La regia poi non andò oltre quella trovata. Sono rimasto molto deluso, perché non c'era nessun dialogo tra di noi, e il regista non parlava neppure con i cantanti: mandava semplicemente i suoi assistenti per comunicare ciò che voleva. Avevo una buona compagnia e mi sono trovato bene con i cantanti, ma il coro aveva dei problemi di intonazione, l'acqua divenne sempre più maleodorante con il passare dei giorni (abbiamo fatto dieci recite in venti giorni) e i tecnici di scena facevano molto rumore. La Rai infatti ha girato un film sulla realizzazione di questo Orfeo: un film che comincia con qualcuno che grida «Silenzio!». Ero io.
L'anno scorso invece ha portato in tournée il Messiah, che poi è stato inciso per l'Harmonia Mundi.
Ho un legame emotivo molto forte con quest'oratorio, avendolo cantato molte volte. E mi colpisce sempre la raffinatezza con cui il librettista Charles Jennings adattò i testi biblici. In quest'incisione ho scelto di adoperare un'edizione dell'oratorio usata spesso da Händel al Teatro Reale di Covent Garden negli anni 1750: una versione riscritta per creare un ruolo in cui potesse emergere il talento del castrato Gaetano Guadagni (il creatore dell'Orfeo di Gluck). Guadagni fu un personaggio molto interessante che parlava perfettamente l'inglese: trascorse infatti molto tempo a Londra e prese lezioni di recitazione dal grande attore David Garrick. Fu probabilmente il primo castrato ad essere seriamente interessato alla recitazione. Secondo me Messiah racconta una storia veramente drammatica, quella della redenzione, e nell'incisione disponiamo di ottimi solisti come Patricia Bardon e Larry Zazzo, il controtenore americano, e anche della Freiburger Barockorchester, che come sempre si è impegnata in modo fantastico.
intervista di Stephen Hastings ("Musica", nr.177, giugno 2006)

1 commento:

Provincia di Civitavecchia ha detto...

Ho acquistato la Sublime Griselda di Alessandro Scarlatti,da Lei e dagli Artisti da Lei diretti soavemente interpretata.
La Musica attende il Tigrane di Alessandro Scarlatti.