Igor Stravinsky nel 1968 |
Vlad, consulente artistico del Teatro alla Scala, presidente della Siae, ha pubblicato nel '58 presso Einaudi il primo libro esauriente su Stravinsky che abbia avuto successo e credito in Italia. "Igor ho cominciato a frequentarlo all’inizio degli anni ’50", racconta. "Ho mantenuto con lui una strettissima amicizia fino a quando è morto, nel ’71. Nel privato era molto diverso da come lo si sarebbe potuto immaginare: brillante, mondano, con un fascino irresistibile. Mi vengono in mente due episodi di segno del tutto opposto: uno conferma la sua leggendaria avarizia, l'altro la smentisce".
"All’inizio del ’58", continua Vlad, "stavo preparando il libro su di lui e, intanto, a Venezia si stava completando il cartellone del Festival di Musica contemporanea. Era prevista la prima mondiale di Threni, id est lamentatio Jeremiae Prophetae. Il direttore della Biennale Musica di allora, Alessandro Piovesan, mi chiese di scrivere il programma di sala per questa prima. Ma io dovetti rifiutare: non avevo ancora visto la partitura. Scrissi a Stravinsky: "Pensi lei a indicare qualcun altro". Ma lui mi rispose: "Ho le bozze della partitura, devo mandarle all’editore a Londra, prima le mando a lei, così la impara e magari mi corregge qualche errore". Aspettai le bozze per mesi: arrivarono all'ultimo momento. Quando lo incontrai a Venezia gli chiesi il motivo di tutto quel ritardo. Lui prima diede la colpa a Robert Craft, che aveva voluto spedire le bozze con la posta di terza classe invece che di prima. Poi fu sincero: "E' stata colpa mia, la spedizione di prima classe costava due dollari in più".
La seconda storia stravinskiana di Vlad è questa: "Qualche anno dopo la sua morte io, che ero direttore artistico dell’Orchestra Rai di Torino, misi in programma Perséphone, che prevede una parte recitata. Proposi il ruolo a Madeleine Milhaud, la vedova del compositore francese, che era attrice. Fu lei, in quella occasione, a raccontarmi che aveva studiato per la prima volta la parte a Parigi durante l’occupazione tedesca, in un periodo di gravi difficoltà economiche. Doveva partecipare di lì a poco a un’esecuzione dell'opera a New York. Cosa che avvenne. Dopo l’esecuzione Stravinsky andò a trovarla e le chiese: "Quanto l’hanno pagata?". Madeleine glielo disse e lui subito sbottò: "Troppo poco!". Staccò all’istante un assegno per lei così grosso che Madeleine poté rifarsi tutto il guardaroba".
Stravinsky, secondo Vlad, non possedeva la tecnica del direttore di carriera, non era un buon concertatore, per esempio. Ma se l’orchestra era preparata e subiva il fascino del compositore sul podio, potevano uscir fuori esecuzioni anche superiori a quelle dei direttori più rinomati. "Nel 1955 andai con Petrassi ad ascoltare Stravinsky che dirigeva Apollon musagéte all’Auditorium Rai di Roma. Fu una cosa così emozionante che Petrassi si mise quasi a piangere. Stravinsky era un grande ispiratore dell’orchestra. E si permetteva molte libertà con le proprie musiche. Diceva che non bisognava farlo, ma lo faceva".
Assai meno idillico il rapporto con Stravinsky di Giancarlo Menotti. "Una sera del l950", racconta, "venne a vedere Il console a Broadway. Chiese di conoscermi: era molto curioso di sapere come avevo scritto un'opera così e quanto prendevo di diritti d’autore, visto che il Barrymore Theatre era esaurito tutte le sere. Si sa che lui era molto interessato ai soldi. Andammo a cena. A un certo punto mi disse: "Ho sentito la sua opera, buona, ma secondo me non è un’opera. Un’opera vera deve essere come quelle di Bellini, di Mozart". Io obiettai che un’opera vera poteva essere anche come Pelléas et Mélisande. "Pelléas, che merda!", fu la sua risposta. Proposi un altro esempio: Boris Godunov. "Anche quella non è un’opera", replicò. Allora persi la pazienza: "Un maestro come lei dovrebbe essere più serio".
"Qualche giorno dopo lo rividi", continua Menotti. "Può darsi che lei abbia ragione", mi disse. E poi: "Ieri sera ho sentito un’opera veramente interessante, come si chiama..., non ricordo, ah, La Bohème". Nel 1963 andò a vedere la mia opera L'ultimo selvaggio e ne scrisse male. Scrisse che non gli era piaciuto il libretto. Però l'aveva letto in traduzione inglese. Gli mandai a dire: "Pensi se io leggessi il libretto di Carriera del libertino in traduzione italiana!". Da allora non volli più incontrarlo. Ma un paio d’anni dopo 1’incidente dell’Ultimo selvaggio l’Opera di Strasburgo mi chiese di curare la regia del Libertino. Mi spiegarono che Stravinsky voleva proprio me. Realizzai un grande Libertino. Per ringraziarmi Stravinsky mi mandò in regalo una sua caricatura fatta da Picasso. Come persona era un grande poseur, ma simpatico".
Se si chiede a Menotti quanto sia stato influenzato da Stravinsky, risponde così: "Lui è come l'elettricità: si può dire che non la si ama, però la si adopera. Resta il fatto che io ho attinto a una fonte più italiana, più mediterranea. Amo molto Stravinski, sia chiaro. Non mi commuove fino alle lacrime, ecco. Mi sento più vicino a Scarlatti, a Schubert, anche a Wagner. Ma, in definitiva, penso che Stravinsky sia molto più importante di uno Schönberg, quello sì che mi è completarnente estraneo".
Oltre a Petrassi e Vlad c’era un altro spettatore d’eccezione al concerto diretto da Stravinsky nel '55 all’Auditorium Rai di Roma. Era il quindicenne Marcello Panni, che oggi ricorda con grande vivezza quellesecuzione di Apollon musagéte. "Fu il mio primo incontro con lui", racconta Panni. "Il giorno dopo lo accompagnai, insieme a mia madre, a visitare il teatro di Ostia antica. E per prima cosa gli feci firmare la partitura della Sagra della primavera, che stavo studiando. Ero stato un suo grande ammiratore già durante l'infanzia, per me era come incontrare Beethoven in persona. Sempre nel '55 lo rividi a Venezia in occasione della prima di Canticum sacrum ad onorem Sancti Marci hominis. Da allora lo vidi ogni volta che veniva in Italia, fino al '63. Dopo lo incontrai qualche volta a Parigi".
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