Nel 1977 Gian Carlo Menotti sbarcò in America - la terra dove aveva completato la sua formazione all'inizio degli anni Trenta, divenuta ormai per lui una vera e propria seconda patria con l'intenzione di fondare un nuovo festival: scelse, come novello Cristoforo Colombo, la più storica e storicizzata cittadina del Nuovo Mondo, la deliziosa Charleston, che accolse con molto stupore una Dama di Picche diretta da Guido Aimone Marsan e interpretata da una strepitosa Magda Olivero.
Nacque subito un grande amore tra il Maestro e il luogo prescelto: da allora, con la legge dell'alternanza, quelle terre si appropriano ogni anno delle proposte musicali spoletine, per un Festival dei Due Mondi che è diventato mito nel panorama delle creazioni festivaliere post-belliche (una nuova veste geografica è stata tentata con l'avventura dell'inserimento di un Terzo Mondo, l'Australia e Melbourne, ma il tutto naufragò dopo appena un triennio ad experimentum, dal 1986 al 1988).
Al di là di quelli che possono essere i giudizi sulla musica contemporanea americana e sulla tipologia del sistema produttivo, ho trovato molto più interessante perché sollecitato dallo stesso Menotti - spostare l'indagine su dati più personalistici e più sociologici, con uno sguardo che contempla l'America a sedici anni di distanza da quella novità.
E affiora così nelle parole del Maestro una nota di sconfortata tristezza.
«L'America che io ho conosciuto è ben diversa da quella di oggi: allora era un paese pieno di nuove idee, di personaggi straordinari, molto vivo e vario, fresco e sempre entusiasta. Oggi è invece un paese stanco, incredibilmente più vecchio della nostra Europa».
Cosa è accaduto?
«Si è diffuso uno scoraggiamento generale nel popolo americano. La stampa, la radio, la televisione hanno distrutto tutti gli idoli di quel popolo: quelli cinematografici, gli attori, che facevano innamorare centinaia di ragazzine, e poi si scopre che sono omosessuali; quelli sportivi, modelli di salute, efficienza e prestanza fisica, e poi ecco che sono pieni zeppi di droga; i predicatori in chiesa che poi ritrovi in carcere accusati di reati di corruzione e speculazione. Insomma, la gente, soprattutto il borghese americano, il più interessato anche ai fatti culturali, si è trovato senza più alcun punto di riferimento. Con questo crollo, anche l'interesse attivo e conoscitivo, l'entusiasmo per il mondo dello spettacolo, è venuto meno, insieme alla curiosità per la nuova musica».
Una sorta di tradimento a largo raggio...
«Certo! Anche nella musica gli americani si sentono traditi: quella contemporanea è difficile da accettare per una persona che non sia uno studioso, uno specialista, un appassionato. Vanno ad esempio a una conferenza e si sentono dire che la tal opera è un capolavoro, poi si recano in teatro per ascoltarla e vederla, e si sentono smarriti, non capiscono nulla».
In questo panorama "fosco", il "suo" Festival di Charleston potrebbe essere visto come un centro di speranza aperto al rinnovamento e al ricostituirsi dei rapporti tra spettatore e produzione musicale?
«Potrebbe, ma non ne sono sicuro. Io ho cercato di lanciare il mio programma in modo tale da sottoporre il pubblico a due forze contrarie: da una parte sconvolgerlo, dall'altra ammansirlo. Così, anche nel cartellone di quest'anno ho proposto prima l'Elektra spoletina della passata stagione, e per loro è stato uno spettacolo addirittura scioccante; poi con il Duca d'Alba di Donizetti una conferenza e si sentono dire li ho fatti ritornare a loro agio, e si sono messi tranquilli. Così accade per la musica strumentale: è una terapia che prevede a mezzogiorno dei concerti con musica più che "accettabile", e nel pomeriggio Schönberg e Boulez».
Maestro, ho trovato le sue parole stagliate su di un orizzonte molto pessimistico...
«Sono molto, molto pessimista: l'America è un paese che vive in completa e perfetta confusione. Purtroppo è una confusione di valori che sta esportando anche in Europa».
La musica potrà essere una valida medicina?
«In questo momento non credo. Solo se nascerà un genio che spazzerà via un sacco di brutta musica: ci vuole un nuovo Bach, un nuovo Wagner, qualcuno che arrivi e faccia davvero piazza pulita».
intervista di Luca Pellegrini (Musica & Dossier, Anno VII n.57, set/ott 1992)
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