Attraverso la variazione una melodia cinquecentesca portoghese ha percorso l'Europa stuzzicando la creatività di autori del '600 e '700.
Quanto influì, e influisce, nel definire il Settecento, in un film come Barry Lyndon, la musica impiegata da Stanley Kubrick? All'unanimità si è già detto «molto» e la risposta sembra data, ma non è inutile indagare «perché» o «come» il meccanismo di quelle associazioni suono-immagine sia mosso. L'intenzione non è però di dare spazio all'ennesima relazione sul rapporto musica-film, ma di prendere spunto da un tema musicale che, oltre a siglare come un motto la pellicola storica più fascinosamente esatta del più musicale fra i registi cinematografici, serpeggia nella musica strumentale del primo settecento secondo le tappe di un viaggio emblematico da ovest a est, da sud a nord. Una discografia, ora vecchia ora recente, da poco completa, offre l'appoggio per una serie di divagazioni episodiche, diciamo variazioni sul tema di quel Tema che molti forse ricordano a memoria, o comunque possono rintracciare con facilità per fare loro il viaggio.
Nel film, tratto dal romanzo di Thackeray e vero protomodello di un filone ispirato a un edonistico piacere della ricostruzione ambientale, il «main-title» è la cosiddetta Sarabanda di Händel. Il titolo è improprio, almeno quanto quello del cosiddetto Largo, ma se dietro a questi si cela un'aria d'opera («Ombra mai fu», primo numero del Xerxes), dietro la Sarabanda c'è effettivamente una Sarabanda: il quarto tempo della Suite n.7 in sol minore per clavicembalo.
Ambedue i pezzi sono noti - destino di Händel - più nelle loro forme spurie e derivate: e così la Sarabanda, nella colonna sonora del film, non è usata nella sua versione originale, ma in un arrangiamento gonfio e orchestrale affidato alla National Philharmonic. Eppure le è possibile, nella sua forma mascherata, evocare il Settecento: merito del suo incedere e della natura genetica del materiale melodico.
La mano dell'arrangiatore potrebbe essere quella, non ufficiale, di Raymond Leppard, che in un suo posteriore disco di consumo, propone una personale strumentazione della Sarabanda, più contenuta, comunque ampliata rispetto all'originale. (L'album è intitolato «Alla barocca», nel senso del Barocco secondo Bukofzer, dove, trattandosi di brani di Bach, Händel, Gluck, Marcello, Pachelbel e Vivaldi, non c'è nulla di veramente barocco. Da cui la voglia di abolire il termine anche quando potrebbe essere legittimo). Usate questa versione di Leppard per avvicinarvi all'originale. In realtà fu più filologico Kubrick, ma torniamo al tema.
La Sarabanda di Händel altro non è che la Folìa, o Follia, melodia sulla bocca, sulla spinetta, un po' sul violino di tutti quando la prendiamo sotto osservazione, nei primi anni dei Settecento.
La Follia viene dalla Spagna, o meglio dal Portogallo, e penetra in Italia via mare, probabilmente attraverso il porto di Napoli. E' anche una danza, in senso più generale, e affine alla Sarabanda, con la quale ha originariamente in comune, oltre al tempo ternario, una sorta di frenesia corporea. Ma insieme alla più celebre cugina, per passaggi geografico-musicali dalla strada ai saloni, si decanta, si denatura e si formalizza. Sebbene Don Giovanni, ancora nel 1787, la onori di una citazione in Fin ch'han dal vino, insieme al Minuetto e all'Allemanna, la Follia non è così frequentata nella musica colta quanto la Sarabanda. La quale sola, inglobandola, è diventata modello fisso nelle Suite, nelle Ouverture, nelle Partite, Bach compreso.
Dell'originale frenesia, la Follia conserva ormai poco, ma non riesce a perdere un che di demonico. E un po' demonico, in Thackeray e Kubrick, è Barry Lyndon. Demonico è Don Giovanni e demonico è il violino, da Corelli a Vivaldi, a Tartini, fino a Paganini e Stravinsky.
Comunque, se non è frequentata come danza, almeno quanto la Sarabanda, è celebre la Follia, come tema, quando Arcangelo Corelli, nel 1700, le innalza un monumento. Il volume delle sue 12 Sonate a violino e cembalo Op.5, è sigillato appunto da «La Folìa»: 23 variazioni virtuosistiche in re minore sul tema.
L'Op.5 di Corelli diventa una pietra miliare, quasi il motore immobile della Sonata da camera. Per il violino del settecento è un paradigma, e qualunque compositore-violinista voglia scrivere in quel genere, farà in modo di possederne copia o prenderne attenta visione; con la dodicesima Sonata, La Folìa, a rappresentarla e riassumerla tutta. «Follia», dunque, non è per Corelli sinonimo di «fuori le righe», di insania strumentale, essendo egli un codificatore e un classico, ma non si può escludere che sia lasciata aperta l'ambigua lettura.
Corelli fondò i suoi modelli di musica strumentale in pochi e cesellati numeri d'Opus, sei, pubblicati fra il 1681 (Roma) e il 1714 (Amsterdam). Sono due collezioni di 12 Sonate da chiesa, due di altrettante Sonate da camera, la mista Op.5 (dove, tra l'altro, si deduce la consanguineità formale e stilistica fra i due «generi», più che la loro separazione), infine la sanzione ufficiale, postuma, del Concerto Grosso nell'Op.6. Ma fu l'Op.5 ad avere la maggiore influenza sui contemporanei, vivente lui. Messa come un faro sul limite del secolo, la Sonata in forma di variazioni sul tema della Follia non chiude affatto l'Opus, ma quasi lo apre. L'Op.5 fu una sistematizzazione in chiave classicista del genere, ma quelle ventitre variazioni sulla Follia fanno quasi testo a sé, come germe autonomo e rigoglioso.
Infatti, cinque anni più tardi, l'argomento della Sonata da camera viene raccolto, riprendendo il tema della Follia. Vivaldi, nuova epitome vivente del Violino italiano, pubblica a Venezia, nel 1705, la sua Op.1: «12 Suonate da camera a tre» (due parti di violino e basso continuo), nella quale, rubricata oggi al n.62 del catalogo Ryom, compare come summa finale una Sonata in re minore dove il tema della Follia è trattato come ci si aspetta dal prete rossochiomato. Le diciannove variazioni di Vivaldi riconvertono in follia vera quella follia astratta in cui la danza si era ritualizzata e resa classica con Corelli. Il tappeto volante è identico, stesse pezzatura e tramatura, ma il volo è più folle, ancora seguendo il mezzo della variazione, braccio destro del virtuosismo, che è figlio dell'improvvisazione. Il maestro si onora e si trascende. Appunto perché il maestro è un classico.
Attraverso la Follia di Vivaldi, forse, o anche attraverso di lei si arriva a Händel. Questi conosceva già, forse, l'Op.1 pubblicata a Venezia, ma nel 1713, dopo il successo editoriale dell'Estro Armonico (Op.3), sulle cui pagine si era chinato pure Bach, Le Cène e Roger pubblicano l'Op.1 di Vivaldi anche ad Amsterdam. E attraverso questo rappel che Händel si innamora della Follia? Più probabilmente trova carino, utile o giusto citare in un suo pezzo il tema più celebre del più celebre Opus di Corellì, che sicuramente conosceva, insieme a molti altri lassù al nord, e lo fa nel 1720, quando pubblica a Londra la sua prima e unica serie di Suites per clavicembalo. Non occorrerebbe nemmeno ricordare la destinazione salottiera delle suites per clavicembalo, che spesso nascevano come trascrizione di improvvisazioni su temi dati, per confortare l'ipotesi che la Follia, oltre che nota ai musicisti e ai violinisti, professionisti o dilettanti, attraverso il maestro Corelli, fosse tuttora un tema circolante e orecchiato; comunque in vita al nord dell'Europa. Nella Sarabanda di Händel il tema è melodicamente variato e armonicamente dilatato con note «altre» rispetto alla linea originale anche corelliana, forse per imprimere personalità alla citazione, o forse per camuffarne il riconoscimento ai connoisseurs.
La tappa londinese è l'ultima per la Follia, ma prevede un soggiorno lungo. Francesco Geminiani, cui, dopo la morte di Torelli (1709), Corelli (1713) e poi di Vivaldi (1741), passerà la custodia del Violino italiano - detenuta insieme al diabolico Tartini, autore di 50 Variazioni sulla Gavotta dell'Op.5 di Corelli, e a Francesco Maria Veracini, autore delle Dissertazioni sopra l'Opera Cinque di Corelli, Follia compresa - approda nella disponibile e accogliente Londra nel 1714, proprio un anno dopo la morte di Corelli e della pubblicazione ad Amsterdarn dell'Op.1 di Vivaldi. Si presenta all'ambiente musicale con i Dodici assoli di violino - presentazione notevole se Charles Burney, più tardi caustico nei suoi confronti, doveva ammettere che «i pochi in grado di suonarli sarebbero d'accordo nel dire che sono ancora più magistrali di quelli di Corelli». In re minore compare l'ennesima metamorfosi della Follia in forma di Variazione.
Corelli era ormai definitivamente considerato a Londra come il maestro della Sonata e del Concerto italiano, in virtù, fra gli altri ma forse per primo, di Nicola Matteis, violinista che nel 1674 aveva già destato sensazione. («Certamente nessun mortale lo ha superato sul suo strumento». John Evelyn). Sulla scia del Matteis, altri italiani avevano contribuito a questa conoscenza diretta, di prima mano, impegnandosi in una nazionale opera di diffusione. Diceva infatti Mattheson nel 1713: «Chiunque, di questi tempi, desideri trarre profitto dall'esercizio della musica, muove ormai i suoi passi verso l'Inghilterra».
Eppure, spianata la strada dai Matteis, dalle pubblicazioni di Corelli, dagli omaggi corelliani di Händel, è all'epigono Geminiani che tocca la fortuna di raccogliere i frutti. Proprio a partire dai Concerti Grossi di Geminiani durante il lungo soggiorno in un'Inghilterra che dopo la morte di Purcell (1695) chiede modelli, trovandoli più in Italia che in Francia e in Inghilterra, nasce una scuola strumentale inglese. Dalla Follia di Geminiani più che di Corelli, usciranno i William Boyce i Thomas Arne, i John Stanley, i Charles Avison. E ora capiamo meglio come e perché la Sarabanda di Händel, usata come Leit-Motiv nella più bella pellicola sul settecento, riesca a definire non solo un settecento a il settecento inalese.
Quindici anni più tardi, seguendo le sue tele veneziane, già avviate sulla stessa strada della Follia dal mercante Joseph Smith, Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, ex scenografo teatrale convertito al vedutismo, avrebbe anch'egli goduto i frutti della venerazione londinese per l'Italia e per Venezia E sì sarebbe inserito tanto bene da ritrarre le anse del Tamigi scoprendo, nell'acqua e negli scorci dominati dalla cupola di St. Paul's, una certa aria di casa, come sulla punta della Salute. (Oltre agli scontati assi Venezia-Vienna, vogliamo valutarlo meglio quest'asse Venezia-Londra e Italia-Inghilterra, sotto la costellazione del primo settecento? Vogliamo farne mostre e concerti incrociati?) Il viaggio della Follia, per quel che ci interessa, finisce qui. Come melodia, da Oporto era sbarcata, ovviamente, nella spagnola Napoli. Di lì era risalita, durante il Seicento, a Roma, dove l'aveva captata e fatta sua Corelli. Nel 1705 la troviamo a Venezia, fra le braccia di Vivaldi. Ma otto anni dopo - doveva amare molto le città di mare - prende il volo per Amsterdam. Per Londra il passo è breve; glielo fa compiere Händel, nel 1720. Lì si era fermata, generando una piccola scuola di imitatori, ma soprattutto - ben più importante - contribuendo a gettare il seme di una grande tradizione strumentale, nella nazione ancor oggi più ricca di musicisti aperti alla musica di altri, di esecutori campioni in prima lettura. Quella stessa lettura a prima vista che Corelli, ospite del viceré spagnolo a Napoli, nel 1702, aveva sperimentato prodigiosa nelle orchestre dirette da Alessandro Scarlatti. («A Napoli si suona», aveva confidato a un amico, dopo aver racimolato un paio di brutte figure al violino).
Ma la Follia non si era fermata a Napoli: sapeva che non sarebbe durata. La musica strumentale stava andando a nord; prevenne la migrazione, anzi la guidò.
Era nata nel cinquecento in Portogallo, insomma nella penisola iberica, come Don Giovanni. Come Don Giovanni (Mozart, Kierkegaard) era stata accolta al nord, là producendo notevoli effetti. Anch'essa, come Don Giovanni, in realtà «ignora l'anno e anche il secolo in cui nacque» (Giovanni Macchia), diventando una presenza di sempre e di ogni dove. E, come Don Giovanni, non è affatto positiva, né allegra. Quel tema ascendente in minore, cadenzato sul lieve zoppicare di un tre quarti, contenuto perfettamente e precisamente in un'ottava, ha già nella sua formulazione più semplice un che di fatalistico, un senso triste di presagio. (Barry Lyndon è in effetti uno sconfitto, un avventuriero del settecento descritto dal realista anti-vittoriano Thackeray in un tempo in cui Don Giovanni non è più un eroe).
Tutti i compositori che l'hanno toccata non ne hanno mutato la natura. Non potevano mutarla, ma solo mascherarla e correggerla nelle variazioni più veloci e virtuosistiche, in quelle più fisiche e corporee (Vivaldi); ma nei Lento, negli Adagio, nei Largo espressivi, subito affiorava e affiora (Händel) quel dominante senso di malinconia, di ineluttabilità, da rintocco del destino. La sorte è, guarda caso, comune alla pur latina Sarabanda, fino al punto di chiedersi se quelle due danze, quando ancora erano popolari, siano mai state felici. Forse la loro vocazione, nordica, era nel divenire schemi, nel riflettere su se stesse. Come per Don Giovanni la vera celebrazione è nella auto-riflessione, lontano dalla culla latina in cui si presume di celebrarlo e lo si vive invece in caricatura, senza essere veramente toccati dal suo vero, inquietante e demonico fascino, dovuto alla lotta terrena, dunque tragica, con il vero aldilà delle statue di commendatori, per l'Utopia dell'eternità fisica dell'amore.
Dunque il fascino della lotta per l'impossibile, tentata con l'unico mezzo che il corpo, destinato a perdere, può permettersi: la ripetizione dell'atto, della conquista, dell'amore all'infinito, per simulare in terra l'Infinito.
C'est à dire, in musica, la Variazione come forma più universale e rivolta elettivamente. Così l'avevano intesa Corelli, Vivaldi, Geminiani, e Bach; così pure l'avrebbero concepita l'ultimo Beethoven e Webern, archiviata l'illusione dialettica della forma-sonata, troppo coi piedi per terra.
La Follia, nel suo passaggio da Corelli a Vivaldi a Geminiani (presi come esempi: non sono gli unici, né gli ultimi), ci illumina sul significato di concetti come Maestro, Genio ed Epigono. Mentre, mercé sua, la Variazione come tentazione musicale della Torre di Babele, ci suggerisce una Imago Templi protesa a spirale verso il cielo. E chi è più follemente sfrontato, nello sfidare il cielo, del Demonio?
Carlo M. Cella (Musica Viva, Anno VIII n.6, giugno 1984)
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