Incominciata in sordina qualche decennio fa in un'aureola di snobismo iniziatico, quella che era la moda delle esecuzioni musicali con strumenti d'epoca, strumentisti d'epoca, direttori d'epoca, musicologi promozionali d'epoca, ha assunto la forza d'urto di un'alluvione e lo spessore di un fiorente mercato con le sue leggi, il suo target, il suo marketing, la sua pubblicità. Altro che Monteverdi, Corelli, Händel.
Di decennio in decennio, il delirium tremens antiquario ha coinvolto via via l'età galante, Haydn, Mozart, Beethoven ed ora sta dando fondo alla Romantik di Schubert, Schumann, Mendelssohn, lambendo Bruckner. Non sono quello che D'Amico chiamava un discobolo, e prendermi in castagna in fatto di aggiornamento discografico è un gioco da ragazzi: se già non sono disponibili, un Brahms, un Wagner, un Mahler e magari un Richard Strauss e uno Schönberg d'epoca, presto lo saranno.
L'operazione di ripristino di un suono si presume storico, mediante strumenti e prassi esecutive recuperate da un passato remoto o prossimo, convive senza traumi con la normale produzione discografica basata sulla grande orchestra sinfonica diretta dalla grande bacchetta e sul concertista di grido che seguita a suonare il suo Scarlatti, il suo Mozart e il suo Schubert sul suo Steinway gran coda. Lo impongono le leggi dei mercato e la schizofrenia dì un consumatore discografico il quale ormai detta legge nella programmazione delle istituzioni concertistiche, dove richiede di riascoltare dal vivo quegli stessi solisti e complessi che già figurano nella sua discoteca: con un processo esattamente inverso a quello che una quarantina d'anni fa portava l'appassionato a cercare nel negozio di musica il disco di Stern, della Haskil, di Fischer Dieskau applauditi la sera prima alla Società del Quartetto o all'Accademia di Santa Cecilia.
Da trouvaille sofisticata e iniziatica, l'esecuzione antiquaria è insomma divenuta un genere commerciale come qualsiasi altro: con il suo pianeta di produttori "specialisti" e di consumatori esclusivi e la sua estetica, che di solito si effonde dalle pagine delle riviste discografiche nella prosa apodittica d'ineffabili recensioni a firma dei cultori della materia. I quali non si capacitano del fatto che un Muti o un Abbado seguitino a far musica con quelle loro orchestracce, quando un Collegium Aureum auf Originalinstrumenten diretto dal grande Konzertmeister Franz Joseph Maier ha in catalogo - scusate se è poco - le tre ultime sinfonie di Mozart, la Missa Solemnis di Beethoven, la Grande Sinfonia in Do maggiore di Schubert in esecuzioni, manco a dirlo, "filologiche".
L'uso sistematico e, diremmo quasi, magico di tale termine, è indicativo del preoccupante vuoto di pensiero (soccorrendo Ungaretti, dalla mancanza di «sentimento del tempo») che sottende a questa poetica dell'antiquariato esecutivo. Lo sforzo con il quale lo strumentista "filologo" si studia di resuscitare dal silenzio dei secoli il "vero" suono della pagina scritta, non va infatti oltre un recupero candidamente artigianale di dati teorico-tecnici, la cui acquisizione e riproposta, da parte dell'esecutore odierno, si ritiene di per sé garante dell'autenticità estetica dell'operazione. Si crede, in altre parole, che basti una corda di budello sfregata senza "vibrato" e con la "messa di voce", o il suono metallico di un fortepiano toccato da una mano istrutta nelle tecniche tastieristiche settecentesche, a restituire credibilità a Corelli o a Clementi.
E si dimentica tutto il resto. Il mondo nel quale quel suono, irrimediabilmente estinto ai nostri orecchi di uomini sulle soglie dei terzo millennio, era fiorito. Un mondo con i suoi spazi, i suoi tempi, i suoi rumori, i suoi odori, le sue luci, i suoi silenzi, le sue sensazioni e i suoi sentimenti che non erano i nostri. Popolato da esseri umani viventi, pensanti, operanti, soprattutto ascoltanti in modi tanto diversi dai nostri. Non occorre essere molto addentro la novissima problematica della ricezione musicale, per comprendere come una restaurazione sic et simpliciter del suono antico e delle sue supposte modalità di comunicazione emotivo-espressiva non possa non configurarsi come un'infantile chimera, solo che si consideri la cosa «con filosofica mente» (filosofica, non filologica) come avrebbe detto Leopardi: il quale era peraltro filologo sommo. La controprova (escogitata da un grande critico musicale per diletto proprio e altrui) è spassosa, e sarà rgomento per la prossima «Opinione».
di Giovanni Carlo Ballola (Musica & Dossier, Anno VII n.54, mar/apr 1992)
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