(...) Milstein aveva avuto invece, fra i tanti doni ricevuti, anche quello di un durevole ed eccezionale magistero strumentale, senza che mai trasparissero, nel suo modo di avvicinarsi alla musica, i segni pericolosi dell'ex «enfant prodige» né quelli di un virtuosismo fine a se stesso, pur essendo una «natura» di violinista di tale eccezionalità da non consentire forse alcun paragone nell'arco degli ultimi sessant'anni. (...) E anche se il suo modo di affrontare Bach era pur sempre quello ereditato dal romanticismo, senza preoccupazioni di carattere filologico, nessuno si sarebbe potuto scandalizzare di certo titanismo e a volte della delicata carica sentimentale. (...) E quando si farà la storia della sua presenza nelle vicende dell'interpretazione musicale del Novecento potremo imbatterci in un Concerto di Brahms inciso nel 1950, sotto la direzione di Victor De Sabata, e poi in un Concerto di Ciaikovsky, vent'anni dopo, realizzato col giovane Abbado, e ci accorgererno di come Milstein fosse incapace di ripetere, adeguandosi al mutare del clima culturale anche con le opere più esposte ai pericoli della «routine», ma sempre mantenendo una personale coerenza.
Leonardo Pinzauti
Artista mitico. Di lui si leggeva spesso che univa il virtuosismo più scatenato al pathos più intimo, al piacere e alla densità del suono. Collaborava con i grandi direttori, e la sua libertà d'interprete trovava appuntamenti precisi con la loro grande linea. Ma impressionava forse ancora più da solo. Il suo rapporto con Bach era una cosa tutta loro (sua e di Bach). Una fuga per lui, come si può con il violino, (...) era lo sprigionarsi d'un colloquio tra le parti, libero e visionario, in cui venivamo vorticosamente spinti e smarriti, e poi ripresi in una vertigine assoluta che ci lasciava premiati e commossi. (...) Credevo di sapere tutto su di lui. Poi udii il suono. Come non aver mai visto da vicino un fuoco e credere di capirlo dalle fotografie. Inconfrontabile. Piccolo, sul palcoscenico di una sala da duemila persone, sembrava aver di colpo sfondato le pareti. Non era una questione di volume, di ostentato vigore, anzi sentivo anche un affetto rispettoso e senza furia. Era altro. (...)
Lorenzo Arruga
(...) eccelleva in tutta la musica romantica (Mendelssohn, Bruch, Ciaikovsky ...) che interpretava con un impeto e una freschezza che gli derivavano in buona parte da un accorto dosaggio delle proprie energie. (...) S'inquadrava in questa sua «tattica» anche l'essersi formato un repertorio forse non vastissimo ma centrato sugli autori e sulle epoche a lui più congeniali. E tra questi non figuravano, con poche eccezioni come Alban Berg, i compositori delle varie avanguardie del Novecento, che sentiva estranei alla sua sensibilità. (...) In compenso si applicava alla musica del Settecento, soprattutto Vivaldi e Bach. Il suo Bach ad un certo momento era forse passato di moda perché un po' romanticizzato, almeno rispetto a quelle tendenze che lo vogliono controllato, ma resta affascinante nell'ambito dei criteri d'interpretazione della prima metà del secolo. (...)
Alfredo Gasponi
(...) Milstein aveva dalla sua una qualità molto rara: il rigore estremo della pianificazione interpretativa. Mai una sbavatura, una sortita men che controllata, un gesto fuori posto. Dissero che era freddo, che non sembrava neppure russo, e certamente rispetto a esecutori più portati all'eccesso temperamentoso poteva ben dirsi freddo. Ma alla maniera di Horowitz, se si vuole alla maniera di Benedetti Michelangeli. (...) Suonava il Concerto di Brahms in modo tutt'altro che freddo, avvolgendoci anzi in un colloquio amoroso, intenso. Che il suo particolare suono, leggermente nasale, rendeva unico e che la perfezione della tecnica rendeva leggendario. (...) Non si ricorda di lui un'esecuzione completa dei Capricci di Paganini: ne eseguiva pochi, con particolare predilezione per l'ultimo. E non si ricordano le solite redditizie pagine da bis, quei pezzi ardimentosi e molto poveri di musica che altri violinisti frequentano per un applauso in più. Era un violinista colto e moderno, il più grande di tutti, forse. (...)
Michelangelo Zurletti
(...) Milstein aveva l'asciutta modestia, la semplicità, il gesto schivo e astringente di chi sa quale sia il ruolo dell'interprete e quali i suoi confini. Aveva orrore delle chiacchiere stolte. Non sarebbe mai salito, lui, sul palcoscenico della Scala per tenervi comizi sulla guerra del Vietnam come fece il Pollini, l'amico di Ho Chi Minh e di Pol Pot. (...) Non coltivavano, questi veri grandi, leggende personali di demiurghi abusivi, di profeti vanesii. (...)
Piero Buscaroli
(...) Suonò a Firenze nello stesso periodo in cui suonava ancora Horowitz alle prese con Beethoven (l'op.81) e Brahms (le Variazioni su tema di Paganini). In un'epoca in cui i più grandi concertistì condividevano le attese del pubblico, lui le privilegiava con brani di alto virtuosismo (La campanella di Paganini, La fonte di Aretusa di Szymanowski), ma lasciava nella memoria il segno vivo anche della musica di Schumann e Beethoven. Ebbe un massimo di acclamazioni in un programma diretto dal giovanissimo Lorin Maazel che accompagnò l'ormai «anziano» Milstein nel Concerto in re maggiore di Ciaikovsky. (...)
Erasmo Valente
(Musica Viva, Anno XVII n.2, febbraio 1993)
Nessun commento:
Posta un commento