Il lettore non si stupisca di questa introduzione, ché la complessità tutta siciliana di Pennisi resta una chiave importante per studiarne la musica. In questo caso la conversazione cade ovviamente sull'ultimo lavoro del compositore, l'opera Le Esequie della Luna, di prossimo allestimento al Festival di Gibellina.
Forse sarà opportuno iniziare ricordando le tappe principali della sua produzione dedicata al teatro musicale...
Beb... si tratta di opere composte a distanza di dieci anni l'una dall'altra: Silvia Simplex (ornitoscopia) del 1972 eseguita la prima volta a Venezia per la Biennale e poi ripresa molte volte. Descrizione dell'Isola Ferdinandea è del 1982 ed è stata eseguita all'Accademia Filarmonica Romana. Cosa posso dire... ho delle difflcoltà nell'immaginare che io possa scrivere un'opera intesa nel senso tradizionale del termine, ma con ciò non voglio dire che oggi non si possa fare del teatro musicale legato alla vecchia concezione dell'opera lirica. In ogni caso l'idea del teatro rode un po' dentro... E' un tarlo che ci si porta dietro anche percbé uno ha altri interessi: figurativi, immaginativi (se così si può dire), comunque di sconfinamenti in altre discipline, in altri campi. Questi esperimenti teatrali sono sempre stati dei tentativi di saggiare una possibilità mia di fare delle cose seguendo fili diversi. E allora, ad esempio, il mio primo lavoro è il risultato di una lunga frequentazione delle cantine teatrali romane (come il Beat '72), avevo anche fatto delle musiche di scena per Cosimo Cinieri, vedevo tutte le cose di Mario Ricci che mi sembravano egregie: un teatro più visivo che di parola; mi ricordo Perlini, le prime cose di Carmelo Bene. Quindi Silvia Simplex era un po' il prodotto di queste esperienze, che puntava molto sulla visione, dove la musica è quasi una tappezzeria o poco più. Riferimenti più simbolici che di sostanza. Passati dieci anni e approdato all'Isola Ferdinandea cercavo di immaginare un teatro dove ci fossero i connotati di un racconto vero e proprio stimolato soprattutto da questa storia straordinaria dell'emersione dell'isola nel '31 a Napoli che avevo appreso da un articolo di Sciascia, Descrizione dell'Isola Ferdinandea, insomma, è quasi una vera opera anche se le parti cantate sono soprattutto commento ai fatti raccontati dalla voce recitante. Qualcosa di simile accade pure in questo mio terzo lavoro che prende le mosse dall'incontro che ho avuto con l'unico verso in prosa di Lucio Piccolo. Diciamo che Piccolo è stato il poeta con il quale ho esordito a Palermo, nel senso che avevo scritto una cosa utilizzando delle sue liriche che avevo letto nella raccolta dei poeti dello Specchio di Mondadori. Lui era stato appena scoperto da Montale e dagli altri poeti che lo avevano premiato in un importante concorso. La premiazione in questo concorso fu una cosa abbastanza buffa; tutti si aspettavano di vedere un giovane, invece arrivò un signore di una certa età accompagnato da un altro signore pure "d'età", entrambi molto eleganti e silenziosi: il primo era Piccolo e il secondo suo cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Mancavano due anni al "caso` del Gattopardo. Comunque furono pubblicate le poesie del vincitore con la prefazione di Montale e così si conobbe finalmente questo poeta, poco prolifico quanto colto, grande divoratore di libri che leggeva praticamente in tutte le lingue, a contatto con mezzomondo ma inamovibilmente legato alle sue terre di Capo d'Orlando. Nel 1962 io scrissi questo lavoro per contralto e cinque strumenti basandomi su una lirica tratta dai Canti Barocchi (L'Anima e i Prestigi) e quindi ebbi occasione di conoscere Piccolo che morì pochi anni dopo. Molto più tardi Francesco Agnello mi parlò, assai vagamente, di questo lavoro teatrale di Piccolo. Non si capiva bene di che si trattasse; i Re in Sicilia, la caduta della luna come metafora della fine della civiltà mediterranea con l'apoteosi del barocco siciliano, ma già il titolo la diceva lunga: L'Esequie della Luna. Il testo però non si sapeva dove fosse, in più i manoscritti di Piccolo erano bloccati ed irraggiungibili a causa di un conflitto tra eredi. Per fortuna, ormai una decina di anni fa, Roberto Andò, regista e scrittore palermitano molto colto e fine, venne a trovarmi con questo testo che in realtà era stato pubblicato su Nuovi Argomenti senza che io lo sapessi. Lo stesso Andò curò la drammaturgia del testo di Piccolo che non è realmente teatrale, ma una sorta di canovaccio estremamente raffinato immaginato per il teatro. Un lavoro però che lascia insoluti molti problemi e aperte molte porte, caratteristiche queste che hanno reso necessario l'intervento di Andò che dà la possibilità di uno svolgimento teatrale raccogliendo tutte le sollecitazioni della versione originale. Dal punto di vista musicale il mio lavoro è praticamente un calco della versione di Andò anche se, analizzando l'articolazione delle diverse sezioni musicali e teatrali, l'impressione può essere diversa. La partitura è composta da una serie di pezzi, dieci "numeri" che sono messi in scena, quindi non si tratta di un'opera vera e propria. Anche qui i testi cantati, tranne che in alcuni passaggi, sono di commento. Ogni brano della partitura ha il suo titolo ed una assoluta autonomia ed anzi potrebbe essere eseguito anche senza l'ausilio della scena. Nella musica forse si può distinguere il riferimento al barocco suggerito dalla situazione storica ed immaginativa nella quale la vicenda è calata. Ad esempio, la gradazione della temperatura musicale degli episodi, anche se non risponde alle leggi della drammaturgia tradizionale, segue un criterio funzionale legato ad una gamma di vertigini "al quadrato", di abissi che si intravedono e di fondi bui e inesplorati.
Però manca Compare Turiddu...
Manca. Ma per quanto questa musica prenda una certa distanza dagli eventi narrati, alcune cose ci sono. E' pur sempre musica per il teatro e quindi mi sono trovato a dover soffiare un po' sotto la pentola per aizzare le fiamme. I testi cantati sono presi da altri lavori di Piccolo e di poeti affini (Zanzotto, de la Cruz, Yeats, Hernandez). La vicenda è calata in questa corte del Viceré, in un'atmosfera stracarica di vortici, cumuli, memorie, vertigini. Il clima é carico di quel barocco in cui secondo Andrea Emo lo spazio vuole essere se stesso e non armonia e quindi si pone come origine delle cose senza cercare una giustificazione.
Uhm... molto pennisiano...
Non so. Può darsi che ci siano dei fili che congiungono quello che io penso, o forse - più probabilinente - quello che io faccio, a qualcuno di questi problemi. Piuttosto vorrei approfittarne per dire che, dall'andamento delle prove, posso dichiararmi molto soddisfatto degli interpreti.
Ci sono i solisti (Cardi, Castellani ... ) e il direttore (Guida) ma anche con l'orchestra sinfonica siciliana esiste un vecchio sodalizio se non sbaglio...
Non sbaglia. Capita raramente di trovare una buona orchestra tanto disponibile con una nuova partitura. Quando succede c'è da ritenersi fortunati.
E a questo punto in realtà l'intervista si direbbe finita ma invece si trasforma in chiacchierata, conversazione irta di spigolature difficili a raccontarsi. E questo è il problema: Pennisi andrebbe conosciuto personalmente per capire quanto sia forzatamente incompleto un resoconto scritto, per quanto fedele, delle sue parole. D'altronde non saremo noi a scoprire l'acqua calda lamentando i limiti della parola scritta. Limiti che colpiscono le lettere, le consonanti e le vocali, ma certo non le crome e i diesis di Francesco Permisi, da Acireale.
Michele dall'Ongaro (Pianotime n.99/100, luglio/agosto 1991)
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