Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, aprile 11, 2021

Sergiu Celibidache: l’ultimo dei veri capi. E perché l’ultimo

Con l’indifferenza e l’ignoranza delle nazioni piombate nel pozzo nero dove non ci sono più né storia, né cultura, né umana pietà, le televisioni italiane, di Stato e private, in bella concordia, hanno trovato inutile far sapere ai milioni dei loro rincretiniti clienti che ieri è mancato ai vivi Sergiu Celibidache: il più estroso, il più generoso, il più permaloso, il più imprevedibile, il più assolutamente disinteressato dei musicisti, il direttore d’orchestra ormai unico per la magia della sintesi che reggeva il suo spirito, di istintiva potenza e maturata sapienza, l’interprete ispirato che sapeva ancora strappare alle stelle fredde e remote dei grandi creatori, qualche bagliore della scintilla divina.
Celibidache: un’ipotesi perduta dell’arte germanica. Un’ipotesi che rimase per decenni in bilico, latente, sempre sul punto di dissolversi. Un’ipotesi che rimase a lungo annebbiata dalla giusta ira di una ingiustizia subita, e più a lungo ancora fu sacrificata dalla ritorsione degli ingiusti che, come sempre accade, non perdonavano alla vittima l’ingiustizia subita. Restaurata, infine, per un ultimo tratto grandioso e malinconico, grazie a un’accorta, delicata opera di umanissima volontà, da cui scaturì, se non una guarigione ormai impossibile, almeno una delicata sutura e ricucitura psicologica e artistica.
Or sono tre anni, il Bundespresident von Weizsäcker riuscì, dopo un lungo lavorio di preparazione, a riportare Sergiu Celibidache, per un concerto di beneficenza a favore della Romania, libera dalla tirannide comunista, sul podio dei Filarmonici di Berlino, dopo quasi mezzo secolo di sdegnato rancore. In una profonda e amara analisi retrospettiva, Wolfgang Sandner si chiese “che cosa sarebbe stato di quell’orchestra, se, al posto dell’astuto Karajan, i suoi musicisti avessero eletto, a successore di Furtwängler”, chi più d’ogni altro ne aveva il diritto, “lo spigoloso, l’aspro, l’asociale Celibidache”.
E’ storia che pochi conoscono, e quando possono narrano e rinarrano, come Alberto Mantovani, la splendida tromba solista dell’orchestra bolognese che al maestro sempre rimase fedele dopo l’ennesima delusione coi bolognesi. Dopo la catastrofe del maggio 1945, esule in Svizzera l’epurato Furtwängler, morto tragicamente e forse suicida il successore Leo Borchard, riuscì provvidenziale agli impauriti Filarmonici che si erano riuniti in un cinema di Stegliz, il romeno trentatreenne sconosciuto esordiente che con stoica determinazione e durissimo lavoro in circostanze impossibili, li salvò alla palude che attende le orchestre in declino: dall’assedio di tante forze negative congiunte nella penuria economica: la mancanza di case, di progetti, di programmi, l’indifferenza ostile 
degli occupanti, l’opportunismo politico, artistico, la fatale discesa nella mediocrità. Ospite straniero nella Capitale della nazione vinta e demonizzata dove era venuto a studiare nei giorni della sua fortuna, Celibidache protesse l’orchestra in un’aura di soprannazionale innocenza, la riorganizzò e fortificò, lo elessero a direttore stabile. Durò quattro anni, fino al ritorno di Furtwängler. Quando la situazione ridivenne sicura, i filarmonici professori manifestarono tutta l’ingratitudine e l’ingenerosità proprie degli organismi collettivi, Furtwängler riprese la superbia che mai abbandona il buon tedesco e cancella, appena sia fuori dei guai, i benefici ricevuti. Congedato con frigidi e sbrigativi ringraziamenti, Celibidache si fece da parte, mal consolato da qualche partecipazione ai trionfali giri di concerti in Europa e nelle Americhe nei quali Furtwängler tornò a condurre l’orchestra, sua e soltanto sua. Celibidache prese il largo e, dopo alcuni anni errabondi, ebbe la direzione dell’orchestra di Radio Stoccolma (1962-1971) e, infine, dei Filarmonici di Monaco, che portò a livelli di Berlino e di Vienna. Da lontano assistè al compiersi della parabola dell’ingratitudine. Se riuscì a capire e accettare come inevitabile e giusto il ritorno dell’interprete unico, la scelta che i Filarmonici decisero alla sua morte, scegliendo a successore l’astuto, affascinante luciferino Herbert von Karajan, lo colpì con la sua violenza feroce, fino a scavare una permanente ferita nel suo carattere. Ho sempre osservato nei comportamenti di tutte le orchestre in cui la sorte mi ha fatto imbattere, che l’ingratitudine e l’opportunismo degli organismi anonimi diventa, tra i musicisti, specialmente spregevole. Nessuno, tra questi mestieranti, si levò a difendere i diritti morali e professionali del loro salvatore di pochi anni avanti. Sempre le orchestre scelgono la sicurezza del successo, il miraggio del denaro. Il cui luccichio venne sempre crescendo, negli anni di cui sto parlando, le royalties guadagnate coi dischi ne fecero un’ossessione. Quando, morto alla sua volta Karajan, si trovarono a soppesare le diverse candidature, i dirigenti dei Filarmonici si procurarono le liste dei dischi incisi da questo e quel maestro e, tra Sawallisch e Abbado, non ebbero esitazione: Abbado incideva per la Deutsche Grammophon e Sawallish per case meno risonanti. Abbado era in fase di decisa ascesa, scelsero lui. Forse oggi avrebbero qualche esitazione.
Oggi, davanti alla spoglia di questo romeno in cui s’era raccolta la migliore eredità dell’arte direttoriale germanica, ritorna molesta la domanda di Sandner, che cosa sarebbe divenuta l’Orchestra dei Filarmonici sotto di lui? “Certamente il catalogo dei suoi dischi sarebbe più magro, la sua fisionomia più asciutta e austera, il suo raggio d’azione più stretto”, non v’è dubbio su tutto ciò. Ma l’anima, il dettato, l’eloquio, il suono nulla hanno a che vedere coi successi commerciali e le vendite dei dischi. Forse, Berlino avrebbe avuto fino ad oggi un successore degno di Furtwängler. I caratteri che da lui ha ereditato, Celibidache li ha infusi nell’orchestra dei Filarmonici di Monaco, la sola rimasta tedesca, in quanto “locale”, delle grandi orchestre tedesche. Non per nulla fu questa la roccaforte bruckneriana fin dall’ultimo decennio dell’Ottocento; quando Franz Kaim, letterato e scrittore, figlio di un fabbricante di pianoforti di Stoccarda, la radunò per un serie di concerti privati nella sala dell’industria di famiglia, e due anni più tardi, nel 1893, la trasformò nel Münchener Philarmonisches Orchester, ch’ebbe, dal 1898 al 1945, tra i suoi direttori i massimi campioni del culto di Anton Bruckner: istituito, dopo la sua morte nel 1896, dall'allievo Ferdidand Löwe, cui succedettero Felix Weingartner e, dal 1920 al 1945, Siegmund von Hausegger e, infine, Oswald Kabasta, il maggiore di tutti, anche se l’aver svolto la parte più cospicua della sua opera durante la guerra, e il suicidio eseguito nel 1946, tolsero irradiazione alla sua fama, tuttavia affidata a poche incisioni, stupefacenti.
Nel mezzo secolo di regno di questa straordinaria dinastia di capi, fecero apparizioni ed esordi ospiti di assoluta eccezione, quali Hans Pfitzner e Max Reger. Fu coi Filarmonici di Monaco che Wilhelm, il promettente figlio del docente di archeologia alla locale università, Adolf Furtwängler, diresse il suo primo concerto pubblico, il 19 febbraio 1906, a vent’anni appena compiuti: il programma, un suo poema sinfonico e la Nona Sinfonia di Bruckner. Nel clima, insieme austero e cordiale, di quella straordinaria Monaco, il cui timbro intellettuale puoi ancora cogliere nelle annate di Jugend; in quell’atmosfera raccolta e lieta, si venne formando e solidificando, qui a Monaco e non nella vacua Vienna, la vera tradizione bruckneriana che i direttori, stabili e ospiti, succedutisi nel dopoguerra salvarono, da Hans Rosbaud a Eugen Jochum Joseph Keilberth, Fritz Rieger, che tenne il podio dal 1949 al 1966, e Rudolf Kempe (1967-1976), alla cui morte l’orchestra lavorò per tre anni con soli Gastdirigenten, fino a che, nel 1979, elesse a suo capo Celibidache.
Con Celibidache, l’orchestra dei Filarmonici di Monaco raggiunse e, per certi versi, superò le due considerate fino allora maggiori della cultura germanica, Vienna e Berlino. Il suono, il timbro portarono all’estrema finezza quella tinta bruna e serale che così bene esprime la Stimmung del tardo Ottocento. I cori dei suoi ottoni, ormai inimitabili, sfolgoravano davvero di quello che Oswald Spengler, per definire il colore di Bruckner, chiamò “oro antico”. Un oro bruno e rosso d’incendio, che a me ricordava sempre i barbagli incandescenti di che sfolgoravano i mosaici di San Marco quando i raggi del sole d’autunno li colpiscano. Ecco, l’anima di un’orchestra è espressione astratta, impossibile a definire in un giro di parole. Ma senti che Monaco la possiede ancora, e Vienna e Berlino, guaste dai saltimbanchi della direzione discarola e commerciale, l’hanno perduta.
Celibidache ci portava da Monaco quel suono; dove gli piacesse portarlo; dove non avesse conti sospesi, dispetti, punizioni pendenti col pubblico del luogo. Magari scartava la Scala, Firenze, Santa Cecilia, dove lo invitavano invano. E sceglieva, invece, Salerno dove era rimasto affascinato dalle forme normanne del Duomo, da un’atmosfera che gli parve magica: quasi un nuovo Wagner a Ravello. Per merito di un gruppo di audaci, è il caso di chiamarli, come quelli che nell’Ottocento si riunivano nell’oratorio di via Belsiana attorno alle Passioni di Bach, Salerno aveva visto crescere un suo festival che, sommando audiacia ad audacia, elesse a suo centro l’arte sinfonica di Bruckner. Direttori quali Sawallisch, Tennstedt, Janowski, vi avevano instaurato una breve e ancor fragile tradizione esecutiva che, in quell’anno 1993, raggiungeva il suo culmine con l’arruolamento, imprevedibile e quasi incredibile, di Celibidache coi suoi Filarmonici. Ricevendo gli annunci dall’Ente salernitano, provai un’ammirazione temperata da dubbi e interrogativi perché, scorrendo il programma del Brucknerfest di Linz, subito mi accorsi che per la prima volta mancava la gemma centrale, il concerto dei Filarmonici di Monaco che Celibidache dirigeva ogni anno nell’Abbazia di Sankt Florian. Chissà che cosa gli hanno fatto a Linz, non potei fare a meno di domandarmi, per indurlo a questo esilio. Che tuttavia non potè compiersi perché, sette giorni prima delle date previste per i due concerti, il vescovo di Salerno, monsignor Pierro, rifiutò di rinnovare la concessione della Cattedrale, dedicata a San Matteo. Fu proprio il Santo, così caro al cuore degli amici della musica, l’involontario colpevole del disastro. All’improvviso il nuovo vescovo si accorse che le date dei concerti coincidevano con la festa del santo patrono, e decise che il duomo e il suo cortile dovessero restare liberi per accogliere i pellegrinaggi, che per lui sono molto più importanti dei signori Bruckner e Schubert, di Beethoven e di Celibidache. Si accomodassero a cercare un altro posto. E’ un gran brutta storia, della quale bisognerà indagare meglio le ragioni, che ci sono. Lo farò un’altra volta.
Due anni dopo, il vecchio campione cadde e si fratturò il femore.“Celibidache cade e si rompe”, tale titolo beffardo e impietoso si lesse su un nostro quotidiano, “Metha prende il suo posto”. E il mondo va avanti, dopo un caso di ordinaria sostituzione. Proprio no, gridai la mia indignazione in uno scritto furibondo. Proprio no, scrissi. Nella sostituzione del Maggio fiorentino, mi parve disegnarsi la metafora di una fine. Si scavava il tratto conclusivo di una parabola disegnata da tempo: l’estinzione della direzione d’orchestra in quanto rivelazione demiurgica: incarnata, nella direzione d’orchestra in quanto rivelazione demiurgica: incarnata, nella memoria di una cultura, dallo studio di Nikisch, Strauss, Weingartner, Mengelberg, Kabasta, Böhm, Furwängler, Klemperer. La dinastia che nacque quando i creatori, Mendelssohn e Schumann e poi Wagner, tolsero la rivelazione dalle mani dei Kapellmeister e ne fecero un magistero, educando e allevando, da Bülow in poi, due generazioni di capi idonei a penetrare e attraverso la foresta cresciuta sul suolo sinfonico da Beethoven in poi.
Proprio Bruckner dovette misurarsi con l’indifferenza genetica e culturale, e proprio nella Quarta Sinfonia, che Celibidache doveva portare a Firenze, comprendere quali distanze separassero la corta vista di Dessoff, dei Herbeck, tecnicamente e spiritualmente impari alle sue partiture smisurate, dall’intuito d’arte, dal gesto sicuro dei Richter, Levi, Nikisch: gli interpreti ispiratici chiamai in uno scritto lontano, una razza che si estingue, minata e corrosa dalla lebbra di mondializzazione e commercializzazione. L’identificazione di un’arte con l’intero pianeta non avviene senza smarrire l’identità ideale, senza la recisione delle radici profonde, che sono sempre locali. Le maree opulente della musica occidentale invadono gli auditori dei lontani Continenti quando la fonte creativa, nella sua casa d’origine, si è seccata. Che la musica sia universale sol perché i caratteri fìsici e acustici la rendano, in apparenza, udibile da tutte le orecchie, sopra le cosiddette “barriere” delle lingue, è una falsa verità creduta anche da persone colte. Ma anche i babuini, le rane e le giraffe possiedono orecchie e non per questo sono partecipi della civiltà sinfonica. Quando finisce con l’Europa che la generò. Contemplo, senza isteriche inutili enfasi, le convulsioni di un’arte morta nella creazione e morente nell’interpretazione, e saluto in Celibidache l’ultimo di una nobile schiera. Ultimo: so che è una parola infausta, anche se il pettegolo quotidiano le ha tolto il brivido che racchiudeva. Ma in latino, la lingua dove tutto si chiarisce, ultimo è superlativo di ulter, che è al di là; la sua desinenza, il sanscrito tama, vuol dire ciò che è lontano, remoto, oltre il mondo.Arriva, in tutte le cose umane, vite, passioni, arti, istituzioni, l’ora che tutto tende a farsi ultimo. Ecco in quale senso non quotidiano, non comune, saluto Celibidache che conclude una nobile arte, quasi dappertutto estinta. Ci salveranno i Kappellmeister? Dubito. L’ora noiosa ritorna con la pletora dei Kapellmeister che si riprendono la predella, vispi, attivissimi, gran viaggiatori, gran lavoratori, grandi incassatori di sonanti parcelle, più che mai sicuri della loro eccellenza, ora che gli ultimi imbarazzanti paragoni sono sgomberati dalle Parche disciplinate alunne degli dèi e del fato.
Piero Buscaroli
(un estratto è apparso su “Il Giornale” di Sabato 17 agosto 1996, col titolo:“E’ morto a 84 anni
a Parigi il grande direttore d’origine romena. Addio Celibidache genio della musica”)

1 commento:

Nuccio Viglietti ha detto...

Commovente articolo di tempo in cui su quotidiani ancora era possibile leggere cose come queste... ora in tempo di vuoto pneumatico instaurato... no possiamo che inchinarci e... compiangerci!...!!...https://ilgattomattoquotidiano.wordpress.com/