Arturo Benedetti Michelangeli (1920-1995) |
Se ne è andato nel suo stile, in silenzio, dopo essere stato ricoverato per una settimana all'Ospedale Civico di Lugano per una malattia inguaribile. Ora il suo corpo riposa da ieri mattina nella camera ardente di questo palazzo di tredici piani che sovrasta il lago grigio e guarda le montagne bagnate. "Era questo l'ultimo desiderio del Maestro: che la sua morte rimanesse una cosa privata, che non fosse annunciata alla stampa". Sono le poche parole di Anne Marie Gros Dubois, la sua segretaria e compagna, più giovane di una ventina d'anni. "Lasciamolo partire tranquillamente", aggiunge a voce bassa. Abitavano in una villetta a Pura, un paesino di mille abitanti verso il confine di Ponte Tresa. Lì Arturo Benedetti Michelangeli viveva dall'agosto 1979, ma era in Ticino dal 1970. La rigorosa e leggendaria riservatezza del Maestro, attenta a custodire la sua vita dall'occhio esterno, veniva intaccata però ogni tanto dallo sguardo discreto di qualche vicino di casa. Così un'anziana coppia che abitava nella casa a fianco ricorda di averlo incrociato qualche volta anni fa in mezzo ai boschi circostanti: "Ma non dava confidenza a nessuno; sì, salutava, ma niente di più". E la signora si lascia sfuggire senza volerlo un "antipatico", subito corretto da un più morbido "burbero". "Non lo si sentiva suonare, forse la sua casa era insonorizzata". Quando arriva a Pura, da Sagno (nei pressi di Chiasso), Benedetti Michelangeli prende in affitto da una signora olandese un appartamento che lascerà a un altro mito del pianoforte, Vladimir Ashkenazy. "Per un po' di tempo scomparve, in paese i maligni dicevano che non aveva soldi per pagare l'affitto, poi invece tornò e comperò la villetta". Il Ticino ha rispettato il suo desiderio di solitudine. Pochissimi abitanti del posto, ogni tanto, osavano bussare alla sua porta. Come un impiegato comunale, che nel Natale scorso fu ricevuto per qualche minuto: il tempo di un autografo, niente di più. "Rimasi imbarazzato perché non disse nulla, feci in tempo a vedere il salone, lui era seduto in poltrona a guardare la televisione. Mi accompagnò la signora Dubois, che conoscevo da molti anni". Dopo un corso di specializzazione impartito ai giovani pianisti della locale Villa Aeleneum nel 1970, l'unico ricordo pubblico che il Ticino conserva del Maestro risale al 1981. Carlo Piccardi, musicologo e oggi direttore radiofonico, non dimenticherà mai quei tre concerti che Benedetti Michelangeli diede all'Auditorium della Radio della Svizzera Italiana: "Lo seguii per quattro giorni. Arrivava alle 10 del mattino e lavorava senza interruzione per ore e ore, mangiava in camerino...". Ricorda che replicò tre volte lo stesso concerto (Brahms, Beethoven, Schubert) per non andare al Palazzo dei Congressi o al Kursaal, che avrebbero garantito una capienza di pubblico maggiore, ma non assicuravano un'eguale qualità acustica. "Fece portare i suoi tre pianoforti e con il suo accordatore provava per scegliere il migliore: non gli sfuggiva niente delle condizioni acustiche e valutava persino l'umidità del locale", ricorda ancora Piccardi. "Lì capii che i suoi non erano capricci o manie inutili, aveva un rapporto fisico con lo strumento, era anche un grande artigiano del pianoforte, con cui intratteneva una relazione di simbiosi, una specie di lungo corteggiamento. Ha vissuto per quattro giorni in funzione dei concerti e per non distrarsi decise di abitare in albergo, piuttosto che tornare a casa". Sono particolari che la dicono lunga sull'ostinazione del Maestro, sul suo desiderio di perfezione assoluta. "Si è molto insistito sul suo carattere bizzarro o eccentrico, ma per lui ottenere il meglio era un'esigenza profonda, un modo per non tradire il pubblico". Neanche in quell'occasione mancarono i problemi: l'ultima sera il Maestro ordinò di spostare il pianoforte, quando già tutto era stato previsto (luci e suoni) per una emissione televisiva. Benedetti Michelangeli continuava a ripetere: "Non me ne importa niente dell'immagine, per me conta solo il suono".
Di Stefano Paolo ("Corriere della Sera", 13 giugno 1995)
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