Antonio Vivaldi (1678-1741) |
Nell'immensa opera restano delle ombre.
Solo con la riscoperta del fondo di manoscritti custoditi nella Biblioteca Nazionale di Torino la figura del grande compositore è emersa dall'oscurità.
Tra gli interrogativi: i melodrammi che egli disse di aver scritto.
"Adì 6 Maggio 1678. Antonio Lucio figliolo del Signor Giovanni Battista quondam Agustin Vivaldi sonador et della Signora Camilla figliola del Signor Camillo Calicchio sua consone nato li 4 marzo ultimo caduto, qual hebhe l'acqua in casa per pericolo di morte dalla comare allevatrice madonna Margarita Veronese, hoggi fu portato alla Chiesa, ricevè l'essorcismi et ogli santissimi". Questo l'atto di battesimo estratto dai libri della Chiesa di S.Giovanni in Braserà a Venezia e reso noto nel 1965 da uno studioso inglese. Emil Paul. La scoperta del documento ha finalmente chiarito due elementi biografici di rilevante interesse: il momento della nascita e le cagionevoli e precarie condizioni di salute in cui Vivaldi si trovò dal primo istante di vita (si da essere battezzato ipso facto dalla levatrice), condizioni che giustificano la cronica «strettezza di petto» (l'asma bronchiale) che afflisse il musicista sino al momento della morte, avvenuta, in circostanze non ancora chiarite, a Vienna, il 26 o 27 luglio del 1741.
Quello della data di nascita è forse il più importante fra i ritrovamenti che in questi ultimi anni hanno arricchito le scarse e frammentarie notizie biografiche raccolte intorno alla figura del «prete rosso». Il secolare oblio disceso sui fatti della vita e dell'arte di Vivaldi dopo la sua morte disperse con irriverente facilità quegli elementi della storia e del giudizio che oggi gli stusiosi si affannano, fra mille stenti, a ricomporre in buon ordine.
E' possibile, tuttavia, che cogliendo l'occasione celebrativa dei trecento anni di nascita si giunga a delineare un quadro più preciso e più attendibile della complessa personalità di Vivaldi, sacerdote che prestissimo rinunciò ad esercitare il magistero, virtuoso ed educatore di musica, impresario teatrale, maestro dei concerti all'Ospedale della Pietà, compositore fecondissimo onorato ai suoi tempi in tutta l'Europa e destinato a rappresentare il momento più geniale dell'Italia musicale settecentesca, almeno sul fronte della produzione strumentale d'insieme.
La rinascita vivaldiana - e per ognuno dei grandi del passato musicale esiste una renaissance che ha una propria storia e un proprio apparato di memorie rigenerate e di esplorazioni avventurose - è recentissima ed in parte subordinata alle indagini che la musicologia tedesca compì, a cavaliere fra Ottocento e Novecento, sulla forma del concerto strumentale. Ma è solo con l'acquisizione del grande fondo vivaldiano alla Biblioteca Nazionale di Torino che la figura di Vivaldi doveva finalmente emergere dall'oscurità sino a rivelare, nel vorticoso turbinio di rivolgimenti critici di cui era protagonista e vittima l'interpretazione della storia musicale, un caso clamoroso di musicista prima ignorato persin da chi faceva professione di studioso e poi divenuto popolarissimo protagonista del mercato discografico e dell'attività concertistica.
Il fondo vivaldiano confluito nella massima biblioteca torinese occupa 27 tomi di un complesso di oltre 700 ora riuniti sotto le denominazione Foà-Giordano, ma inizialmente raccolti dal conte Giacomo Durazzo (1717-1794). ambasciatore della Repubblica di Genova a Vienna ( 1749-1752) e poi consigliere e direttore generale degli spettacoli presso la corte imperiale, sempre a Vienna (1754-1764), al tempo in cui Gluck stava per realizzare la sua riforma del melodramma. Successivamente il Durazzo fu ambasciatore della corte viennese presso la Repubblica di Venezia (1764-1784).
Con ogni probabilità, la raccolta degli importanti manoscritti fu iniziata a Vienna e poi ordinata a Venezia: lo potrebbe testimoniare l'ex libris in forma quadrata recante lo stemma nobiliare e la scritta Conte G. Durazzo A.C. (A.C. Ambasciatore Cesareo, cioè imperiale) che compare su molti volumi della raccolta. Come e quando il Durazzo sia entrato in possesso dei manoscritti vivaldiani (parecchi dei quali autografi) è ancora un mistero: certo, si tratta di musiche che giacevano negli archivi dell'Ospedale della Pietà, giunto alla fine del Settecento ad un pauroso stato di decadenza.
Morto il Durazzo, la raccolta passò al nipote Girolamo Durazzo, ultimo doge della Repubblica genovese (1739-1809) e successivamente al nipote di questi, Marcello (1770-1848) che lasciò in eredità la cospicua biblioteca al figlio Giuseppe Maria (1805-1893). Alla morte di quest'ultimo, il fondo fu diviso in due parti fra i figli: l'uno, Marcello, donò poi la propria al Collegio Salesiano S. Carlo di Borgo S. Martino (Alessandria): l'altro, Flavio, tenne presso di sé la sua quota, trasmettendola infine al figlio Giuseppe Maria.
L'unità del fondo venne ricostituita soltanto negli anni Venti del nostro secolo, quando Alberto Gentili (professore di storia della musica all'Università di Torino) venne a conoscenza che la parte del fondo toccato all'istituto salesiano stava per essere smembrata e venduta sul mercato antiquario. I due tronconi della raccolta, per farla breve, furono acquistati dagli industriali torinesi Roberto Foà e Filippo Giordano, i quali ne fecero dono alla Biblioteca Nazionale di Torino, rispettivamente nel 1927 e nel 1930, in memoria dei loro giovani figli, Mauro e Renzo, prematuramente scomparsi.
Nei 27 tomi vivaldiani «torinesi» sono contenute complessivamente 318 opere strumentali, 20 melodrammi, 30 cantate, 1 oratorio, 2 serenate sceniche, 47 arie e 64 composizioni sacre. E' su questo corpus che principalmente si è lavorato per ridare a Vivaldi un volto e una dimensione (molte altre composizioni, naturalmente, sono sparse in altre biblioteche europee, fra le quali è doveroso segnalare quella di Dresda, che conserva un centinaio di opere strumentali).
Cataloghi, biografie, studi critici si sono moltiplicati in un quarantennio, mentre si è provveduto anche alla pubblicazione delle opere strumentali: con l'eccezione delle più recenti scoperte, le edizioni Ricordi hanno pubblicato, fra il 1947 eil 1972, l'intero corpus strumentale in 530 fascicoli, in massima parte curati da Gianfrancesco Malipiero; della musica vocale sono disponibili a stampa una trentina di composizioni, mentre ancora in alto mare è il problema editoriale per quanto concerne le opere teatrali (un solo melodramma, La fida ninfa, è stato edito in partitura), il settore meno noto della produzione vivaldiana. Proprio su quest'ultimo aspetto creativo si appunterà verosimilmente l'attenzione degli studiosi in quest'anno vivaldiano nel tentativo di chiarire molti interrogativi, il primo dei quali riguarda l'effettivo impegno del compositore, che in una lettera degli ultimi anni vantava una produzione di 90 melodrammi contro i 45 a noi noti (più una serie di opere dubbie).
L'impressionante prolificità dimostrata da Vivaldi, nonostante le non brillanti condizioni di salute che sempre travagliarono il musicista, ha messo a dura prova la pazienza degli studiosi, impegnandoli in un prodigioso gioco di rimbalzo: da un lato si trattava d'indagare sul musicista per stabilire un catalogo delle opere, e dall'altro lato, con un procedimento inverso, si trattava d'inventariare le musiche per raggiungere la verità sul musicista. A questa impresa si sono accinti i primi studiosi vivaldiani: Olga Rudge (1939 e 1941), Mario Rinaldi (1945) e specialmente Marc Pincherle (1948), autore di esemplari studi sul maestro veneziano, ancor oggi validissimi.
Sono poi venute altre catalogazioni (quella più corrente, adottata dalle Edizioni Ricordi, è opera di Antonio Fanna, fondatore dell'«Istituto Italiano Antonio Vivaldi», che ha riassunto le proprie fatiche in un catalogo, delle opere strumentali pubblicato nel 1967), mentre ad un inventario analitico del fondo Foà-Giordano ha provveduto Piero Damilano (1968). Contemporaneamente sono venuti gli studi di Remo Giazotto (1965, rifatto nel 1973) e quelli fondamentali di Walter Kolneder, autore di più volumi e saggi culminati in un volume sulla vita e le opere edito nel 1965.
Intanto sorgeva a Bruxelles un «Centre International de Documentation A. Vivaldi», mentre in anni più recenti prendeva corpo la creazione di una «Société Internationale A. Vivaldi» con sede a Hellerup (Copenaghen), presieduta da Peter Ryom (la società pubblica un bollettino di studi. Vivaldi Informations). A Ryom si devono le più recenti acquisizioni in fatto di catalogazione e classificazione delle opere vivaldiane: un volumetto di Table de concordale des oeuvres (1973) che mette a confronto le varie numerazioni e consente l'individuazione delle singole opere sulla base delle varie classificazioni; un catalogo tematico vero e proprio (Verzeichnis der Werke, 1974), edizione ridotta di un più ampio e dettagliato catalogo: un imponente volume di descrizione e analisi critica dei manoscritti (Les Manuscrits de Vivaldi, 1977), di circa 600 pagine. La classificazione del Ryom (abbreviata con le lettere RV=Ryom-Verzeichnis) è di quelle destinate a rimanere nel tempo per la precisione e il rigore scientifico che la caratterizza.
Ancora una volta si deve constatare l'apporto fondamentale arrecato agli studi vivaldiani dalla musicologia straniera: è alle analisi e alle indagini di Rudolf Eller, Klaus Beckmann. Reinhard Strohm. Michael Talbot — per citare alcuni nomi — che si devono i contributi di maggiore interesse storico, solo in parte controbilanciati dall'applicazione di un Adriano Cavicchi o di un Francesco Degrada.
Nel volgere di due generazioni la materia si è infiammata sotto l'urto dei conflitti critici: dalla esplorazione periferica e in superficie si è pervenuti al centro del problema, alla rappresentazione e percezione della dimensione storica del musicista, non più considerato come un'isolata presenza culturale (e, per assurdo, si è voluta configurare una contrapposizione dialettica, in sé inesistente, fra Vivaldi e Bach, in quanto esponenti singolari di due diverse concezioni della musica) ma inteso nel contesto del suo tempo, scosso dalle correnti che muovevano il mondo musicale del primo Settecento e animato dai fermenti che ancora agitavano l'ultima fase della civiltà veneziana.
Alberto Basso ("La Stampa", 4 marzo 1978)
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