Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, settembre 18, 2009

Richard Strauss: "Enoch Arden"

Melologo, melodrama, mélodrame, Monodram, Duodram, Melodram. Sono i tertuini che in varie lingue e in diversi moinenti storici definiscono la recitazione non musicalmente intonata e di solito ritmicaniente libera di un testo con accompagnamento musicale strumentale, un genere, che non affonda le sue radici nei secoli dei secoli ma che risale soltanto alla seconda metà del Settecento, che fino al Novecento appare, scompare, riappare e riscompare come un fiume carsico e che come un fiume carsico - lo spiegherò poi - sfocia alla fine in un mare, in un mare grande.
L'idea del melologo è da attribuire, sembra, a Rousseau e al suo Pygmalion, rappresentato a Lione nel 1770. Nella querelle fra i sostenitori dell'opera italiana e i sostenitori dell'opera francese, Rousseau si era schierato con i primi sostenendo che la lingua francese, adattissima per la recitazione, non era adatta per il canto. Rousseau salvava così Corneille, Racine, Molière, e buttava a mare Lully, Campra, Rameau. O forse non li buttava proprio a mare, perché non li condannava in quanto musicisti: condannava la lingua che avevano avuto la disgrazia di mettere in musica. E per dimostrare la validità della sua tesi scrisse il testo e in parte la musica del Pygmalion. Che fu un successo.
Ma Rousseau, fatto il primo passo, non fece mai il secondo. Le fortune del melologo passarono nelle mani del boemo Georg Benda, residente a Gotha, che nel 1775 fece rappresentare il «duodramma con musica» Ariadne auf Naxos e il «dramma misto con musica» Medea und Jason, e che nel 1779 fece tradurre e riadattare il testo del Pygmalion di Rousseau, aggiungendovi la musica. Anche Benda ebbe successo, molto e più di Rousseau. Persino Mozart ammirò l'Ariadne auf Naxos e pensò di provarcisi anche lui, con il melologo. Aveva intenzione di musicare una Semiramis, ma poi lasciò perdere perché il melologo, per quanto accolto con entusiasmo, non attecchì: era un «genere ibrido», definizione che si sente ripetere anche oggi da critici attardati, rimasti fedeli alle formule antiche. Parecchi altri compositori vi si dedicarono però, dopo Benda, senza riuscir a far vincere al melologo la concorrenza dell'opera e soprattutto del Singspiel. Più del melologo andò così di moda, fra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, la musica di scena, che differisce dal melologo, almeno in linea di principio, perché non accompagna la recitazione ma la precede e la segue, commentandola senza... sposarla.
Qualche esempio altissimo di melologo lo troviamo in Beethoven (la scena del secondo atto del Fidelio in cui Fidelio-Leonora e Rocco scendono nella segreta dove langue Florestano) e in Schubert (una breve pagina con pianoforte). Un po' più largo il contributo al genere di Schumann e specialmente di Liszt. Ma la vera riemersione del fiume carsico avviene verso la fine dell'Ottocento, con Strauss e Fibich. Zdenék Fibich, che era boemo come Georg Benda, compose melologhi con orchestra nel 1875, nel '77, nel '78, nell'83 e nell'88, e impiegò largamente il melologo nella trilogia Hippodamie (1889-91). Richard Strauss scrisse due melologhi per recitante e pianoforte su sollecitazione di un famoso attore, Ernst von Possart. Il primo di essi, Enoch Arden, fu composto nel 1897 su testo di Alfred Tennyson tradotto da Adolf Strodtmann; il secondo Das Schloss am Meer, su testo di Ludwig Uhland, vide la luce nel 1899. Nel 1897, a trentatrè anni, Strauss era già un musicista famoso. Aveva scritto i poemi sinfonici Don Juan, Tod und Verklärung, Till Eulenspiegel, Also sprach Zarathustra, che avevano ottenuto un successo internazionale, ed aveva al suo attivo un'opera, Guntram. Non era quindi un novellino che dovesse cercare occasioni di mettersi in mostra, e nel comporre Enoch Arden fu mosso da un genuino interesse per il genere.
Gli ampi melologhi teatrali con orchestra prevedevano più attori, i melologhi con pianoforte prevedevano un recitante ma erano brevi. Strauss impegnò un solo recitante e il pianoforte in una dimensione temporale enorme e difficile da reggere: circa un'ora. Nel poema di Termyson sono presenti un narratore e più personaggi che parlano in prima persona. Se ne sarebbe potuto trarre un melologo-oratorio. Ma il committente di Strauss era un attore, e un attore di fine Ottocento, dell'epoca degli Ermete Novelli, delle Adelaide Ristori and Company. Strauss affidò così al recitante il compito di differenziare i personaggi e scrisse musica sia unita alla declamazione, sia, per brevi tratti, indipendente da quella, lasciando anche ampio spazio alla declamazione senza musica. Il risultato è un capolavoro di teatro da camera che, grazie anche alla forza emotiva del testo e alla epicità con cui il poeta sa trattare un argomento che avrebbe facilmente potuto diventare lacrimevole, tiene avvinto il pubblico per tutta la sua durata e che - cosa da non disprezzare - lo lascia con gli occhi umidi di pianto.
Mentre Enoch Arden appartiene in senso lato al teatro naturalista Das Schloss am Meer è simbolista. Una pagina splendida, sospesa in un tempo onirico e allucinato, ma «normale» come durata: una decina di minuti, e cioè la dimensione che era stata praticata da Schumann e da Liszt. Non si creda che la durata di una composizione sia un elemento secondario. Il rapporto fra durata e forma è uno dei maggiori problemi della creazione musicale, che non è costruibile per addizione ma che dev'essere invece unitaria. La riuscita felicissima di Enoch Arden, in un genere privo di una lunga e consolidata tradizione, è dunque un piccolo miracolo di cui non è forse facile rendersi conto ma che in sede critica va valutato. E questo melologo entra perciò nel «paniere» delle cose che fanno di Richard Strauss una delle carte che il Novecento può giocare per sostenere il confronto con il secolo che l'ha preceduto.
Ernst von Possart indusse altri musicisti a scrivere melologhi. I risultati più rilevanti furono ottenuti da Max von Schillings, che in qualche caso indicò una recitazione non libera ma ritmicamente organizzata. Qualche anno più tardi Arnold Schoenberg, con il Pierrot lunaire, trovò con il « canto parlato », lo Sprechgesang, una forma intermedia fra recitazione e canto, in verità non ben definita e che presenta problemi di interpretazione. Il melologo, anche come Sprechgesang, venne adottato da vari compositori del Novecento, sia nella forma 'pura' (Kol Nidre, con coro parlato, Ode a Napoleone, Un sopravvissuto di Varsavia di Schoenberg, Pierino e il lupo di Prokofiev, Ritratto di Lincoln di Copland, ecc. ecc.), sia insieme con il canto (vari lavori di Wladimir Vogel con coro ordinario e coro parlato o con cantanti e recitanti, e molte opere teatrali di diversi autori: tra le più recenti sono da ricordare Blimunda e Divara di Azio Corghi).
Lo sfruttamento novecentesco del melologo nella musica sinfonica e nel teatro musicale non è tuttavia il grande mare di cui parlavo all'inizio: il fiume carsico sfocia invece nel cinema sonoro. Qui veramente le ragioni drammatiche del melologo trovano la loro piena estrinsecazione e nessuno parla del film sonoro come di un «genere ibrido» (fors'anche perché nessuno si preoccupa più della teoria dei generi). La tecnica cinematografica non è la tecnica teatrale, la musica cinematografica non adotta le forme della musica teatrale, la proporzione del rapporto musica-testo e musica-immagine è nel cinema diversa da quella del melologo tradizionale. Ma il cinema sonoro è melologo: che peccato, che Mozart non l'abbia conosciuto!

di Piero Rattalino

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