Lorenzo Arruga (12 giugno 1937) |
Normalmente incomincia per caso. Qualcuno, un vecchio ascoltatore più dei giovani, individua la bellezza d’una voce. “Con quella fai carriera”, dicono i più banali; ed i migliori “Ma tu non sai che dono hai ricevuto”.
Il possessore della voce privilegiata, in caso già lo sapesse, stava sognando di diventare Mina o Jovanotti; ma se ci prova con l’opera, a un certo punto la scoperta di quello che può succedergli entrando in sintonia è così rapinosa che decide di continuare. Si tratta di trovare un maestro di canto. Un bel rischio. Non perché non esistano buoni insegnanti, ma perché sono mescolati agli altri in modo confondibile. Non basta infatti una bella voce né una brillante carriera per comunicare una tecnica e formare una personalità artistica. Inoltre, insieme al canto, si dovrebbe imparare un po’ di cultura, frequentare i teatri e soprattutto studiare bene la musica; e il maestro di canto, di solito, non ha queste aperture e queste ambizioni; e quanto al conoscere la musica egli stesso talora riesce a malapena a seguire con un dito o poco più la melodia sulla tastiera, con quello che i maestri di pianoforte d’una volta chiamavano “tecnica da cucciolo”.
Insegnare canto in sé è difficile, bisogna avere il coraggio di mettere la propria esperienza al servizio di una gola e di una personalità diversa dalla propria, perché, come nelle diete, ottimi sistemi per taluni fanno ingrassare gli altri. E quanto alla cultura, il cantante deve coordinare nozioni ed emozioni, conoscenze e intuizioni con quello che la natura gli ha dato: non dev’essere un intellettuale, ma essere aperto a capire la realtà sua, quella dell’opera e del mondo. Il mestiere del maestro di canto è però uno dei più possessivi che si conosca. Ancor più, forse, che negli altri mestieri, chi lo esercita è convinto di essere l’unico che sa ciò che ci vuole. E non è raro il caso che molti allievi consultino nuovi maestri e ricomincino continuamente da capo.
A un certo punto il giovane apprendista tenta d’andare in Conservatorio. Se ha qualità, soprattutto se non è ricco, ci va appena sia in grado di dimostrarle. Può trovarsi davanti, però, ad esempio, giovani stranieri che hanno già ottenuto il diploma nel loro Conservatorio, e vengano ad ottenerne uno italiano, prezioso per insegnare nel loro paese, e si prendano la precedenza. In genere quelli meglio appiattiti sono preferiti ai più dotati ancora incompleti. I Conservatori italiani non han cambiato abitudine nei secoli. A Eros Ramazzotti è stato detto più o meno ciò che era stato detto a Giuseppe Verdi: lei ha qualità, studi un anno e si ripresenti. Ramazzotti diede più o meno la stessa risposta di Verdi: sono venuto appunto qui per studiare. Ma non ci fu verso.
Chi viene ammesso nel Conservatorio, con tante classi di insegnamento potrebbe incontrare entusiasmanti esperienze comuni; ma è difficile trovare docenti che abbiano desiderio di allargare lo striminzito tempo delle lezioni addirittura ad un lavoro con i colleghi, perché il sospetto di inquinamento evita il rischio di mettere assieme vari allievi ed esercitarli, come potrebbero utilmente, in duetti, pezzi d’insieme o addirittura opere intere. Diplomati, i cantanti hanno bisogno degli agenti, su cui i teatri contano anche a scarico di responsabilità. L’agente non rassomiglia all’impresario di una volta, che accudiva il cantante e all’occorrenza anticipava denaro. In questo momento, dato il pallore dei direttori artistici, che poco frequentano i teatri e non sempre conoscono sufficientemente la musica, l’agente prende un potere decisivo, anche se l’interesse naturale del suo mestiere non è tanto trovare le compagnie più adatte, quanto favorire qualche esecutore d’alto livello per piazzare in cambio un gruppo di generici intercambiabili. Nei rapporti diretti con il cantante o la cantante, gira la fama del consigliere tirannico e impunito. Questo è possibile anche per il carattere isolato dei giovani cantanti, molto più indifesi che ad esempio gli strumentisti. Ad esempio non si ha notizia di molte denunce contro agenti per certi disinvolti convenevoli (me la dai/me lo dai, se no niente), mentre è assai poco diffusa l’espressione “casto come un agente”.
A un certo punto, il cantante deve affrontare la professione e si sottopone all’audizione. L’audizione consiste nell’eseguire uno o due pezzi singoli per una piccola commissione che crea immediatamente non un clima da recita, ma un sentore minaccioso da esame. Di solito, al termine del pezzo, il presidente della giuria dice “grazie”, e non se ne sa più niente. Il rispetto per la fatica, la serietà, la volontà di chi si è sottoposto magari a una trasferta faticosa, e ha lottato contro l’emozione, non viene quasi mai considerato; talvolta il cantante è interrotto alle prime note, al contrario della felice esperienza dell’esame di patente in Svizzera, dove – almeno fino a qualche anno fa – i primi dieci minuti della prova di guida non vengono considerati. Si sa che un’attenzione accanita da parte dei giurati è terrorizzante; è noto il procedimento a cui, nei processi per l’annullamento del matrimonio, in caso di denunciata impotenza del marito, il poveretto doveva sottoporsi a una prova davanti a una dozzina di prelati; e faceva inevitabilmente cilecca. Ma un’attenzione accanita, salvo in caso di dispute furibonde, può darsi per esclusa in gran parte delle audizioni: le commissioni, per cattiva abitudine tradizionale e per oggettiva noia degli ascolti ripetuti, sembrano considerare bagaglio professionale i quotidiani del mattino e soprattutto i telefoni cellulari, a cui parlano normalmente facendosi notare perché ingenuamente tengono la mano davanti al telefono; comunque il cantante dev’essere preparato a non valutare il proprio grado di interesse dal tipo di partecipazione di questo genere di ascoltatori.
Se è bravo e fortunato, prima o poi, il cantante arriva in scena. E’ inutile rimpiangere immaginari tempi d’oro; ma è difficile non notare che una volta un giovane cantante riteneva una felicità e un onore fare da “doppio” ad un cantante illustre, sfruttando l’incomparabile occasione di prendere buoni esempi e di imparare molti segreti del mestiere; mentre attualmente c’è come un atteggiamento un poco autosufficiente e bizzoso, che forse si inserisce nel fenomeno tra i più gravi del nostro tempo, la perdita del gusto dell’attesa. Eppure anche in una carriera modesta, in ogni caso, tutte le parti hanno una grande dignità, sono gioiosamente ragguardevoli; dai comprimari, per esempio, si impara la vita del teatro in tutte le sue sfaccettature, sono loro i custodi delle tradizioni e i salvatori di tante situazioni sceniche; e non per nulla il pubblico ama riconoscerli e ritrovarli.
Ma è naturale che il giovane cantante ambisca a ricoprire i ruoli principali. Già la natura compie le sue predilezioni; per fortuna, le affermazioni di alcuni privilegiati sono sacrosante. Altre sono assai più discutibili, soggette alle mode, alle conoscenze, alle competenze ed incompetenze, al costume e al malcostume. Il fatto che la professione del cantante sia così allo scoperto sembra non influire per nulla sul mercato delle raccomandazioni e bizzarrie. La condizione organizzativa dei nostri giorni chiede un tale continuo spostamento e una tale disponibilità, che viene più facilmente preferito un mestierante prevedibile a un artista di personalità forte e fantasiosa. E poi ci sono alcuni miti che giocano a sfavore dell’affermazione d’un bravo cantante. Per esempio, degli uomini, o almeno dei tenori, si bada soprattutto alla voce; che sia inerte o montagnoso interessa poco; che la sua attenzione alla scena, anche nelle situazioni elementari, sia del tutto insufficiente, ancor meno.
Quanto ai soprani, vale il commovente pensiero che coloro che tanto hanno dato nella vita hanno diritto a rispetto ed affetti; però vale un po’ troppo, e prima che una cantante gloriosa lasci il suo posto a quelle più giovani e meglio in arnese, normalmente passano stagioni imbarazzanti.
C’è un altro ostacolo. I cantanti sono pagati a recita, suddiviso nel cachet delle recite è il periodo di prove; spesso, però, ai cantanti che contano è concesso di presentarsi a pochissime prove, e vengono sostituiti nelle altre da colleghi giovani il cui titolo è chiamato cover; e potrebbe essere un’occasione per far debuttare in caso di emergenza il giovane cantante, protetto dalla simpatia del pubblico; ma per le recite in cui i grandi nomi mancano di solito si preferisce pararsi il ruolo convocando dispendiosamente un nome noto che abbia già in repertorio la parte, mostrando così in un colpo solo disistima per il giovane cantante e per il direttore ed il regista, la cui impostazione interpretativa fino allora provata viene considerata inutile. A favore delle cantanti giovani, però, se appartengono al genere “gnocca”, viene spesso offerta una scorciatoia, presentandole come rivelazione; il guaio è che di solito una cantante di questo tipo è sfruttata per pochi anni senza che possa maturare e viene presto sostituita con un’altra simile.
Arrivato in scena, nel mondo incantato sognato da sempre, il cantante deve comunque tener conto di alcune sorprese deludenti, che dovrà trasformare battendosi con serietà ed entusiasmo. Il direttore anziano è normalmente poco disposto a trovare nella collaborazione una verità nuova o almeno equilibrata; ma il direttore giovane, a parte alcune felici casi proprio delle ultime generazioni, molto spesso non è abbastanza informato sul teatro, non ha studiato drammaturgia, non è stato immerso nelle produzioni operistiche, vanta talora di curar solo la musica perché “è quella che conta”, ritiene che regista, scenografo e costumista non siano complici di scelte interpretative, ma solo curatori della parte visiva, su cui si riserva di protestare a cose fatte, e sul podio tiene l’atteggiamento del “devi dare retta a me”.
E’ difficile imparare a recitare con il regista d’opera. Se legato alla tradizione, tende a non affrontare i problemi del nuovo immaginario, e persino a non correggere mai certi usi nati dalla lettura cinica e indifferente dei libretti e delle partiture e certe trascuratezze sopportate per abitudine: quando mai alle danze di Traviata ci si sente in una piccola volgare festa con gli invitati che ballano; quando mai il fratello di Lucia, che arriva normalmente azzimato e asciutto durante la follia di lei, fa capire d’essere arrivato da uno spaventoso temporale, dove è andato a regolare i conti con il nemico Edgardo, fulcro del dramma; perché mai a Siviglia, sul far dell’alba, Figaro deve incontrare tanta gente ben vestita, e magari tante suore? In questo genere di teatro disattento, la recitazione, quando viene curata, va più per prototipi illustri che per convinzioni interiori, e punta molto sul suscitare comunque emozioni (Luca Ronconi, scherzando, in un incontro pubblico ha detto che “interpretazione è per un cantante un salame degli effetti che hanno avuto successo nelle diverse edizioni precedenti”). Il regista aggiornato può essere un grande artista esperto proprio nel teatro d’opera, pronto a collaborare col direttore se autorevole, o a sopraffarlo se ignavo: ce ne sono di bravissimi, in grado di dare una lezione di quelle che cambiano la vita, così come ci sono eccezionali direttori. Ma il genere che va più di moda è il regista estraneo all’opera o ad essa contrario, che attua quelle che si chiamano con termine stantio “provocazione”, cioè più che convincere i presenti, fa parlare di sé e del teatro gli assenti, anche se male, conferendo così l’idolatrata “visibilità”: viene forzato un carattere della storia, lasciando il resto immutato come quell’astronave dove viveva la sua storia Otello, e tutti entravano e uscivano non si sa da dove né per dove. Oppure facendo quadrare coartatamente gli altri elementi. Non fa interpretazione, ma può fare notizia, all’inizio del Ballo in maschera, la Corte sul water.
L’ambiente del teatro d’opera, soprattutto nel grande teatro, continua a vivere grandi momenti di dedizione e di entusiasmo; ma si dimostra spesso più rivendicativo che appassionato, più frustrato che orgoglioso. Difficilmente il cantante che esce da recite giovanili e disadorne trova la stessa mobilità agile e felice nel coro.
Difficilmente trova un pubblico voglioso di accogliere nuove interpretazioni con gioia; e questa è un’antica malattia.
Molto difficilmente incontra un critico che lo ringrazi per avergli fatto capire qualcosa di bellissimo a cui non era arrivato.
Così, abbiamo spregiudicatamente richiamato trappole e inciampi nella professione del cantante d’opera in Italia. Abbiamo tralasciato di ricordare i disagi, le ingiustizie, le assurdità che vengono da una dissestata formulazione politica, sindacale, organizzativa e all’origine culturale e morale che caratterizza, in questo campo non meno che negli altri, l’attuale periodo di storia italiana, seguendo, pur con tono rapsodico e anche ironico, la priorità indicata dai cantanti stessi nella loro prima decisa e sontuosa presa di coscienza e di posizione.
Perché oggi sui cantanti d’opera possiamo sorridere sulla sproporzione fra la grandiosa nobiltà, la geniale brillantezza o la tenera innocenza dei loro personaggi e la concreta realtà della loro vita e della loro persona, che può benissimo non avere il dono di tanta straordinarietà. Ma non possiamo avere che gratitudine e ammirazione per la dignità piena con cui attraverso la bellezza del loro canto, immersi nei loro personaggi, ci danno testimonianza imparagonabile di che cosa potrebbe essere la vita.
Lorenzo Arruga
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