Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, febbraio 24, 2013

Richard Wagner: L'intervista del bicentenario

Richard Wagner (1813-1883)
Un colloquio immaginario, con risposte autentiche, con il compositore e uomo di teatro nato nel 1813 ma capace di insegnare molto ai lettori del terzo millennio.
 
Wagner scrisse e parlò così diffusamente - e con candore disarmante - della sua vita musicale e della sua visione del teatro che non è difficile trovare risposte alle nostre domande di oggi tra i suoi (moltissimi) scritti e nei diari della moglie Cosima. Risposte che rivelano non solo la coerenza sotterranea delle idee espresse nel corso di molti decenni, ma anche una capacità di sondare in profondità, e con grande equilibrio, temi che oggi sono troppo spesso oggetto di diatribe banali e confuse.
 
La Sua era una famiglia musicale?
Due delle mie sorelle erano musicali. Rosalie, la più grande, suonava il pianoforte senza fare molti progressi; Klara, invece, era più dotata e insieme a una buona musicalità, e alla capacità di ricavare sonorità calde dal pianoforte, possedeva una bella voce, che ebbe uno sviluppo così precoce e significativo che questa sorella, addestrata dal maestro Johann Mieksch, allora ben noto, sembrava pronta a diventare una primadonna quando stava per compiere sedici anni. E fece il suo debutto nell'opera italiana a Dresda, come Cenerentola nell'omonima opera rossiniana. Tuttavia, questo sviluppo prematuro si rivelò dannoso per il suo organo vocale e la povera ragazza ne soffrì per il resto della vita. In ogni caso fu la carriera di Klara che fece arrivare a casa nostra per ripetute visite il Kapellmeister Carl Maria von Weber. E altrettanto spesso ci veniva a trovare il favoloso soprano Sassaroli: un uomo mostruoso, alto e panciuto, che mi terrorizzava con la sua voce acuta e femminile, con la sua volubilità sorprendente e con le sue risate continue e gracchianti. L'aspetto di Weber, singolarmente raffinato, delicato e spirituale, mi riempì invece di un'ammirazione estatica. E quando mia madre presentò a Weber il ragazzo di nove anni che ero io, e lui chiese cose volevo diventare, e se le mie ambizioni c'entravano con la musica, mia madre rispose che, sebbene andassi pazzo per Der Freischütz, non aveva notato nulla in me che potesse indicare un talento per la musica. E la sua osservazione era corretta. Nulla mi commuoveva più facilmente della musica del Freischütz, e cercavo in molti modi di riprodurre l'effetto che aveva su di me, ma non curiosamente attraverso lo studio formale della musica. Era l'inizio dell'ouverture in particolare che mi spinse in infine a tentare, senza nessuna istruzione, di suonare quel pezzo alla tastiera. Stranamente ero l'unico membro della famiglia che non aveva avuto lezioni di pianoforte. Quando ebbi circa dodici anni comunque mia madre ingaggiò un maestro di nome Humann dal qule ricevetti un addestramento rudimentale. In tutta la mia vita non ho mai imparato a suonare il pianoforte come si deve.
Nonostante quest'addestramento rudimentale Lei iniziò presto a comporre. Da chi poi acquisì quel dominio totale delle tecniche compositive che ci lascia sbalorditi nelle Sue opere?
Da Theodor Weinlich, che allora occupava il posto musicale più importante a Lipsia, quello dell'organista e direttore musicale della Tomaskirche: un incarico ricoperto moltissimo tempo prima dallo stesso Sebastian Bach. Il lavoro fatto insieme sulle fughe fece nascere un affetto molto fecondo tra me e il mio geniale insegnante, perché ci divertivamo entrambi enormemente nell'affrontare simili compiti. Un giorno, quando gli diedi una doppia fuga estremamente elaborata, lui mi sorprese dicendomi che dovevo farla incomiciare perché non aveva più nulla da insegnarmi. Siccome non avevo fatto degli sforzi consapevoli per realizzarla, continuai a domandarmi per qualche tempo dopo se potevo davvero considerarmi un musicista formalmente addestrato. Lo stesso Weinlich non attribuì molta importanza a ciò che mi aveva insegnato. Egli disse. «Probabilmente non scriverai mai fughe o canoni. Ciò che hai raggiunto, tuttavia, è l'autosufficienza. Puoi stare in piedi da solo sapendo di poter disporre delle più raffinate tecniche, se occorrono».
Quale fu l'esperienza artistica più forte della Sua giovinezza?
La breve presenza in città - come primadonna ospite - di Wilhelmine Schröder-Devrient, che allora era all'apice della carriera: giovane, bella e piena di ardore come nessun'altra dobba vista da me sul palcoscenico. Si presentò in Fidelio. E quando rivedo tutta la mia vita non trovo nessun altro avvenimento da affiancare a quello per l'impressione che fece su di me. Chiunque ricordi quella meravigliosa donna in quel periodo della sua vita confermerà sicuramente il fuoco quasi demoniaco che veniva acceso dall'interpretazione tanto umana quanto estatica di quest'artista incomparabile. Sapeva gestire il fiato così bene, ed esprimere l'anima femminile con tale franchezza, che non pensavamo neppure alla voce o al canto! Dopo l'opera corsi alla casa di un amico per scriverle una breve lettera in cui le feci capire che la mia vita aveva da quel momento trovato la sua ragion d'essere.
Più tardi la Schröder-Devrient divenne interprete delle Sue opere: Rienzi, Der fliegende Holländer, Tannhäuser. Che consigli darebbe in generale per l'interpretazione di quest'ultimo titolo, il più popolare dei tre?
Mi preme molto che ci sia una prova, coordinata dal regista e seguita dal direttore, in cui l'intera compagnia legge il libretto come se fosse un dramma in prosa, con ciascun interprete che legge ad alta voce il proprio ruolo. Un cantante che non è in grado di recitare la sua parte come si farebbe in un dramma, con un'espressione che rispecchia doverosamente le intenzioni del poeta, non sarà certamente in grado di cantarlo secondo le intenzioni del compositore. Nelle mie opere fra l'altro non esiste nessuna differenza fra le cosiddette frasi declamate e quelle cantate. La mia declamazione è canto; il canto è declamazione. Nei passi di recitativo chiedo ai direttori inizialmente di eseguirli seguendo l'esatto valore delle note e delle battute, a un tempo che corrisponde al significato delle parole. Ma appena il cantante avrà assimilato pienamente le mie intenzioni, è giusto che si lasci spazio alla sua sensibilità naturale, e anche alle esigenze del fiato nelle frasi più agitate. Più creativo diventa il cantante, nella sua grande libertà di sentire, e più verrà ringraziato con gioia da me. A quel punto il direttore dovrà semplicemente seguire il cantante, per evitare qualsiasi lacerazione nel legame tra il fraseggio vocale e l'accompagnamento orchestrale. D'altra parte, ciò sarà possibile soltanto quando la stessa orchestra diventa precisamente consapevole del fraseggio vocale: un risultato raggiungibile quando la linea vocale viene aggiunta ad ogni singola parte orchestrale e quando le prove sono di numero sufficiente. L'indicazione più sicura del raggiungimento di questo obiettivo da parte del direttore è la sensazione ultima, nella produzione, che la sua funzione di
guida sia appena avvertibile.
Ha qualche consiglio da dare al regista e allo scenografo?
Chiedo di prestare particolare attenzione alla piena sincronizzazione dell'azione scenica con i vari caratteri dell'accompagnamento orchestrale. La presentazione della valle di Wartburg nel primo atto - che andrebbe inscenata seguendo alla lettera le indicazioni in partitura - dovrebbe comunicare un senso di freschezza e di serenità così potenti che a quel punto il poeta e il compositore lasciano spazio alla meraviglia dello spettatore. La scena del secondo atto, che mostra la sala dei cantori a Wartburg, fu così ben disegnata per la produzione a Dresda, da un eminente artista francese, che non posso fare altro che suggerire a ciascun teatro di procurarsene una copia e allestire la scena alla stessa maniera.
Ma forse le difficoltà maggiori nell'allestire Tannhäuser riguardano il protagonista.
Devo ammettere che quel ruolo rappresenta una delle sfide più ardue mai messe davanti a un attore. L'essenza di questo personaggio, ai miei occhi, sta nel suo cedere prontamente, e fino alla saturazione, alle emozioni passeggere. Tannhäuser non conosce le mezze misure, ma vive ogni cosa pienamente. Con il più grande trasporto ha gioito tra le braccia di Venere. Poi con altrettanta forza sente la necessità di liberarsi dalle catene che lo legano alla dea dell'amore. Soprattutto chiedo all'interprete di Tannhäuser di dimenticare il suo status di cantante d'opera: i nostri tenori, in particolare, sono abituati a dedicare troppa attenzione alla rotondità dei loro Sol o La bemolle. Se non si coglie poi l'energia di Tannhäuser, si rischia di trasformarlo in un personaggio incerto, vacillante, debole e poco virile.
Altrettanto difficile - e ancora più lungo - è il ruolo di Tristan. Che ricordi ha del primo interprete, Ludwig Schnorr von Carolsfeld?
E' impossibile esprimermi adeguatamente su ciò che Schnorr riuscì a fare come Tristan, raggiungendo un apice nell'ultimo atto del dramma. Bisogna ricordare che, trattandosi di un'opera, il rapporto tra l'enorme orchestra e i monologhi del cantante - che fra l'altro stava disteso su un divano era semplicemente quello fra un accompagnamento e un cosiddetto assolo. E per comprendere l'immensità del raggiungimento di Schnorr posso chiamare ogni ascoltatore sincero di quelle recite monacensi a testimoniare che, dalla prima all'ultima battuta, tutta l'attenzione, tutto l'interesse era concentrato sull'attore, sul cantante, e che mai per un solo momento, per una sola parola, venne meno la sua presa sul pubblico. L'orchestra era totalmente dominata dal cantante, o più precisamente sembrava parte integrante della parola cantata.
Alcuni insinuano che la morte di Schnorr poco tempo dopo le prime recite di Tristan und Isolde, fosse dovuta a uno sforzo vocale troppo oneroso...
In realtà egli non mostrò - né durante né dopo la recita - il pur minimo segno di fatica vocale o fisico. Qualsiasi organo canoro addestrato meramente alla forza fisica soccomberebbe subito, e inutilmente, nell'affrontare le sfide della nuova musica tedesca esemplificata dai miei lavori teatrali, se il cantante non fosse totalmente consapevole del loro significato spirituale. La dimostrazione più convincente di ciò è offerta dallo stesso Schnorr. E per far comprendere la differenza profonda tra mera potenza e comprensione spirituale, cito la mia esperienza di un passo in Adagio nel finale secondo di Tannhäuser, «Zum Heil den Sündigen zu führen». Se la Natura, nella nostra epoca, ha creato in una voce maschile un vero miracolo di bellezza virile, si tratta della voce tenorile di Josef Tichatschek, che per quarant'anni ha conservato la sua potenza e rotondità. Chiunque l'abbia sentito recentemente declamare in Lohengrin il racconto del Santo Graal, con semplicità sublime e risonanza nobile, avrà provato vera soggezione davanti a un simile miracolo vivente. Ma a Dresda molti anni fa dovetti tagliare quel passo da Tannhäuser dopo la prima recita, perché Tichatschek, allora nel più completo possesso dei suoi mezzi potenti e squillanti, era incapace - per la stessa natura del suo talento vocale - di impadronirsi dell'espressione di umiliazione estatica che quel passo richiede, ed era sopraffatto dalla fatica fisica dopo aver emesso pochi acuti. Ora, se dico che Schnorr non solo rese il passo con la più commovente espressione, ma emise quegli stessi acuti di appassionato dolore con una perfetta pienezza e bellezza di suono, ciò non mi spinge a considerare l'organo vocale di Schnorr superiore a quello di Tichatschek in termini di potenza innata. Ma invece di quell'insolito dono di Natura, c'era in Schnorr un'instancabile ricerca messa al servizio della comprensione spirituale.
Lei ha citato cantantí di scuola tedesca. Sono da considerare snperiori a quelli di scuola italiana?
Il cantante tedesco si immedesima volentieri nel personaggio che deve impersonare. Ciò va lodato, ma comporta dei seri pericoli. Se il cantante si lascia trascinare dal ruolo; se non rimane padrone assoluto dell'interpretazione nella sua globalità, allora tutto è perduto. Si dimentica, non canta più, ma grida e geme. Allora la Natura può anche impoverire l'Arte, e l'ascoltatore ha la spiacevole sorpresa di trovarsi improvvisamente nella fogna. Molti cantanti tedeschi ritengono che sia una questione d'onore essere disposti a cantare qualsiasi cosa che sia adatta o meno alle loro voci. L'italiano non esita a dire con franchezza che non può cantare un tale ruolo in quanto inadatto alla sua voce a causa dell'estensione acuta o grave, del carattere degli abbellimenti o di altre caratteristiche. In questo spesso esagera, come se tutte le sue parti potessero essere scritte appositamente per lui. Ma il tedesco, o per libera scelta o perché costretto da circostanze esterne, troppo spesso e troppo prontamente si adatta ad ogni ruolo, con l'effetto di rovinare sia il ruolo stesso, sia la propria voce.
Che ne pensa del canto di coloratura?
Tra noi c'è una setta che accetta, in nome della bellezza, soltanto il canto più semplice e lineare, e condanna totalmente l'arte dell'ornamento. Ma l'arte dovrebbe essere libera. L'espressione e la comunicazione di sentimenti può essere realizzata anche per altre vie. L'arte più nobile dell'ornamento non ha ancora raggiunto nella nostra epoca la sua piena fioritura. Oggi non si sente quasi mai un trillo veramente bello e rifinito; raramente si ode un mordente perfetto, di rado un canto di coloratura ben scolpito, un portamento privo di affettazione e capace di scuotere l'anima, una completa omogeneità del registro vocale e una perfetta intonazione durante l'aumento e la diminuzione del volume. La maggiore parte dei nostri cantanti, appena tentano la nobile arte del portamento, stonano; e il pubblico, abituato all'esecuzione imperfetta, sorvola sui difetti del cantante se quest'ultimo è un attore competente e padrone della scena.
Sarà d'accordo poi che una voce addestrata alle agilità risulterà più duttile dal punto di vista ínterpretativo?
Carl Maria von Weber disse una profonda verità: l'individualità del cantante determina inconsapevolmente lo colorazione di ogni ruolo. Il cantante che possiede una gola agile, e quello che dispone invece di un volume notevole, renderanno il medesimo ruolo in modi del tutto diversi. Il primo sarà ben più animato del secondo, ma il compositore potrà ricavare soddisfazione da entrambi, se tutti e due hanno - ognuno a modo suo - afferrato e riprodotto in modo corretto le gradazioni di passione prescritte.
So che Lei non era del tutto contento delle prime rappresentazioni del Ring des Nibelungen a Bayreuth nel 1876, ma vorrebbe segnalarci qualche interprete di cui rimase particolarmente soddisfatto?
Mi stupisce ancora oggi che l'interpretazione di Karl Hill nei panni di Alberich non venisse apprezzata quanto meritava. Hill realizzò così compiutamente le mie istruzioni urgenti di evitare quegli accenti morbidi e simpatici che gli vengono con tanta naturalezza e di non comunicarci che cattiveria, avarizia e rabbia che egli riuscì a regalarci un ritratto di una perfezione mai vista fino ad allora a teatro: ma tutto ciò sfuggì a un pubblico che reagì con la ripugnanza tipica dei bambini nei confronti dell'orco cattivo delle fiabe. Per quanto mi riguarda dichiaro che il dialogo spettrale e onirico tra Alberich e Hagen all'inizio del secondo atto di Götterdämmerung fu una delle cose più perfette dell'intera rappresentazione.
Posso chiederLe un parere sulle opere di Bellini che Lei diresse in teatro?
Nonostante la loro povertà d'invenzione, c'è una vera passione e un sentimento autentico in quelle opere, e l'interprete giusto deve semplicemente alzarsi e cantare per conquistare i cuori di tutti. Ho appreso delle cose da quelle opere che i signori Brahms e compagni non hanno mai imparato, e lo si sente nelle mie melodie.
Che mi dice invece della musicalità diversissima espressa attraverso le fughe di Bach?
Sono come un sistema cosinico, che si muove secondo leggi eterne, senza sentimenti; i dolori del mondo si rispecchiano in esso, ma in maniera diversa rispetto ad altri generi di musica.
Come risponde a quelle persone che riconoscono la Sua grandezza d'artistà ma giudicano severamente l'uomo Richard Wagner?
Il tentativo di divorziare l'artista dall'uomo è tanto scervellato quanto il desiderio di separare l'anima dal corpo. Nessun artista è stato compreso e veramente amato per la sua arte senza che fosse amato anche - seppure inconsapevolmente - come uomo. Un artista si rivolge poi alla capacità di sentire, non alla comprensione intellettuale. Se si reagisce a lui in termini di comprensione intellettuale, vuol dire che non è stato veramente capito.
Per questo motivo immagino che Lei sia riluttante a spiegare i Suoi personaggi più misteriosi, ma può aiutarci a comprendere le motivazioni di Lohengrin?
Lohengrin cercava la donna che mostrasse fiducia in lui, che non gli chiedesse né il nome né il luogo di provenienza, ma lo amasse per quello che era, senza spiegazioni, con amore incondizionato. Dunque doveva celare la sua natura superiore, perché solo così poteva essere sicuro di non essere adorato proprio per quella natura, oppure venerato umilmente come un Essere che oltrepassava qualsiasi comprensione. L'unica cosa che desiderava, che poteva liberarlo dalla sua solitudine, era l'Amore, l'essere amato, la comprensione raggiunta attraverso l'Amore.
Come si trova l'ispirazione per un'opera nuova?
Consiglierei di non pensare mai di adottare un libretto prima di percepirlo come intreccio che riguarda personaggi che ispirano un interesse vivo. Poi devi osservare con molta attenzione il personaggio che maggiormente ti attira. Se porta una maschera - che venga tolta; se indossa un costume da manichino teatrale - via! Il personaggio va osservato al crepuscolo, quando si percepisce soprattutto la potenza dello sguardo. Se quello sguardo ti parla, la forma stessa del personaggio comincerà probabilmente a delinearsi. E infine la bocca si aprirà e una voce spettrale pronuncerà qualcosa di molto distinto, subito afferrabile, ma così inaudito che ci fa risvegliare di colpo da una specie di sogno. Tutto svanisce poi, ma nell'orecchio spirituale quel qualcosa risuona ancora; hai avuto un'idea, hai trovato un cosiddetto motivo musicale.
Con la costruzione del Festpielhaus, Lei ha realizzato un sogno teatrale coltivato da decenni. Come potrebbe riassumere le dinamiche teatrali che si stabiliscono in quel ambito tra palcoscenico e pubblico?
L'attore, dal suo punto di vista scenico, ha l'impressione che tutto ciò che respira e si muove sul palcoscenico abbracci l'intera umanità. Mentre il pubblico, quel rappresentante della vita quotidiana, dimentica i confini dell'auditorio, si trapianta sul palcoscenico e vive e respira ora all'interno dell'opera d'arte che sembra essere diventata la vita stessa.

intervista immaginaria di Stephen Hastings ("Musica", febbraio 2013)

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