Il cammino di un genio feroce e mite; Gustav Mahler, l'uomo e l'artista. Intervista a Riccardo Chailly.
"Il mio primo incontro con l'universo mahleriano risale ai primi anni '60: ero un ragazzino, e mio padre mi aveva portato all'Auditorium del Foro Italico, lasciandomi per un paio d'ore da solo in platea. Ascoltai una prova di quella che solo poi scoprirò essere la Prima Sinfonia di Mahler, diretta da un giovanissimo Zubin Metha. Ricordo quell'ascolto come fosse ieri; presto ho voluto studiarlo, comprare le partiture, ascoltare tutte le esecuzioni che potevo, dal vivo e registrate".
Parlare di Gustav Mahler in Italia oggi vuol dire inevitabilmente parlare anche di Riccardo Chailly, interprete fra i più apprezzati al mondo delle opere del compositore boemo, dal 2005 direttore dell'Opera e della prestigiosa Orchestra del Gewandhaus di Lipsia, dopo più di dieci anni passati al Royal Concertgebouw di Amsterdam. In occasione dell'attesissima pubblicazione di Gustav Mahler. La vita, le opere di Henry-Louis de La Grange, il Maestro Chailly ha accettato di raccontare a Leggìo il suo rapporto con un compositore difficile e amatissimo: «È stato un infinito percorso di avvicinamento, proseguito negli anni di studio al conservatorio di Milano. Erano anche gli anni dei primi passi della musica di Mahler in Italia: Claudio Abbado aveva voluto un "ciclo Mahler" alla Scala, ed ebbi la possibilità di assistere alle prove di grandi ospiti come Sir John Barbirolli, grandissimo mahleriano, o Leonard Bernstein con un'indimenticabile Nona, o lo stesso Abbado con una Seconda e una Sesta che ricordo ancora benissimo».
E la sua prima esperienza mahleriana sul podio?
«Nei primi anni '80, con l'Orchestra della Radio di Berlino [RSO]: ho cominciato con il capitolo conclusivo, cioè la Decima Sinfonia, che diressi nel completamento di Deryck Cooke. Forse fu un atto di giovanile incoscienza, ma è una sinfonia che riprendo regolarmente, e ogni volta mi convinco di più della qualità del completamento, condotto a partire dalla "particella" originale di Mahler [la partitura ridotta]. Lentamente, ho poi affrontato tutte le altre sinfonie, prima a Berlino e a Milano, negli anni in cui dirigevo l'Orchestra della RAI, e poi al Concertgebouw; infine, a partire dal '95, a Lipsia, dove a maggio dell'anno scorso abbiamo organizzato un grande festival per ricordare il biennio in cui Mahler fu secondo Kapellmeister dell'Opera, invitato dal grande Arthur Nikish - che fu tra l'altro, con l'orchestra del Gewandhaus, uno dei primi interpreti di Mahler. La tradizione a Lipsia proseguì con un altro grandissimo mahleriano, Bruno Walter, primo esecutore del Canto della terra».
Sono davvero così difficili, per un direttore d'orchestra, le sinfonie di Mahler?
«Fin da ragazzo ho ascoltato, come parte della collezione di mio padre, la storica Quarta incisa da Mengelberg ad Amsterdam nel 1939, e fu per me la prima esperienza di ascolto di qualcuno che era direttamente collegato alla grande tradizione mahleriana: un grandissimo interprete, capace di rappresentare compiutamente il pensiero tardoromantico e tutti i suoi eccessi. Quella del Concertgebouw è un'orchestra che ha una straordinaria dimestichezza con il linguaggio di Mahler, iniziata dal compositore stesso; ma a parte questa eccezione, ricordo bene che quando, al principio degli anni '80, dirigevo come ospite le grandi orchestre europee, sentivo chiaramente la loro fatica a contatto con questo linguaggio. È stato un percorso lungo e faticoso, e se il problema tecnico oggi è in parte risolto, Mahler rimane un autore ostile alla facilità, che non si risolve solo con la frequentazione. Anzi, in fondo ogni volta che una sinfonia di Mahler torna sul leggio, la difficoltà della sua realizzazione pratica si ripropone intatta».
Difficoltà tecnica, ma anche interpretativa.
«Senza dubbio. Ciò che un po' mi spaventa dell'attuale successo planetario di Mahler - al quale sono orgoglioso di avere anche in minima parte contribuito - sono le esecuzioni un po' "alla moda", basate sull'effetto, senza focalizzarsi sul cuore di questa musica. Oggi ci sono eccellenti interpreti, ma questa musica richiede un lavoro profondo sullo stile e sui significati: ho passato intere giornate nella biblioteca di Den Haag a studiare le partiture di Mahler annotate da Mengelberg sulle indicazioni del compositore. Certo, tutto questo studio sarebbe rimasto una gabbia, se non avessi a un certo punto trovato la forza di superarlo attraverso la mia personale visione interpretativa. Mahler detestava la "musica a programma": nei primi anni era stato spinto a spiegare per iscritto la genesi e il significato dei movimenti delle proprie sinfonie, ma presto impose la cancellazione di queste note di presentazione. Voleva che la musica parlasse da sola, che l'emozione scaturisse spontaneamente dall'ascolto. È una cosa molto importante, perché ancora oggi questa è la strada maestra, anche se la conoscenza è assolutamente vitale, e per questo sono felice che sia stata portata in Italia l'opera di un grande studioso come Henry- Louis de La Grange.
Lei l'ha conosciuto personalmente?
Certo. Ho incontrato per la prima volta de La Grange nel 1989, allo Châtelet di Parigi, dopo un'esecuzione della Sesta con il Concertgebouw. Ricordo ancora l'incontro folgorante, nel mio camerino, con questo grande musicologo che già allora, per la sua autorevolezza, era considerato il biografo per eccellenza di Gustav Mahler. L'ho ritrovato nel 1995 ad Amsterdam e nel maggio scorso a Lipsia, dove abbiamo voluto celebrare Mahler e il suo rapporto con la città eseguendo tutte e dieci le sinfonie con le migliori orchestre del mondo. Io dirigevo la monumentale Ottava, e Henry-Louis venne ad abbracciarmi dopo il concerto dicendo che in quella esecuzione aveva identifi cato i suoi ideali interpretativi di quell'opera gigantesca, indefinibile e quasi indecifrabile. Per me è stato un commento indimenticabile.
Perchè Mahler in vita fu adorato dal pubblico e odiato dalla critica?
Era un linguaggio troppo nuovo per la sua epoca, qualcosa di assolutamente inaudito. Credo che fosse inevitabile questa grande frattura tra le qualità di Mahler interprete, riconosciute mondialmente, e le qualità, discutibilissime, del suo talento di compositore - a volte del provocatore, a volte persino del "neodilettante": si pensi a quella famosa lettera, feroce, di Toscanini dopo la lettura della partitura della Quinta. La violenza della novità del suo linguaggio ha richiesto un lento processo di acquisizione, anche da parte dei professionisti.
Spesso si tende a dimenticare il Mahler uomo di teatro...
Eppure l'opera sinfonica di Mahler è un continuo gioco di specchi con le sue esperienze direttoriali e teatrali. Per esempio, Mahler confidò alla sua amica Natalie Bauer-Lechner che per il quarto movimento della Quarta, aveva imparato molto dal Falstaff di Verdi. Era sempre sibillino in queste affermazioni. Dato che Falstaff è un'opera che ho diretto molto, mi sono preso il tempo di studiare la cosa e ho scoperto che nel Terzo atto, nella scena delle fate, si ritrovano idee timbriche e persino melodiche che Mahler fece sue: amava molto Verdi, diresse Falstaff più volte, e rimase folgorato dal mondo sonoro e dal colore verdiano.
Un uomo dalle passioni forti, non sempre amato dai musicisti...
Si sa, per esempio, che l'orchestra di Lipsia più volte manifestò al sindaco che forse questo uomo, per quanto eccellente musicista, dovesse essere allontanato dall'incarico. In prova era acribico, aggressivo, esigente fino alla nevrosi, tanto da ritrovarsi coinvolto in conflitti umani e professionali feroci con i musicisti dell'orchestra. La stessa cosa si riproporrà anche a Vienna. È noto anche il suo scontro violentissimo con l'Orchestra di Santa Cecilia, che culminò nel ritiro della sua sinfonia e nella cancellazione di un concerto. Questa fu la dicotomia che lo accompagnò tutta la vita: quella di un uomo anche dolce e affettuoso nella vita privata, un uomo appassionato e tormentato, ma con un carattere veramente impossibile nel momento in cui saliva sul podio e cominciava a fare musica.
di Sergio Bestente (EDT, Leggìo n.24, primavera 2012)
"Il mio primo incontro con l'universo mahleriano risale ai primi anni '60: ero un ragazzino, e mio padre mi aveva portato all'Auditorium del Foro Italico, lasciandomi per un paio d'ore da solo in platea. Ascoltai una prova di quella che solo poi scoprirò essere la Prima Sinfonia di Mahler, diretta da un giovanissimo Zubin Metha. Ricordo quell'ascolto come fosse ieri; presto ho voluto studiarlo, comprare le partiture, ascoltare tutte le esecuzioni che potevo, dal vivo e registrate".
Parlare di Gustav Mahler in Italia oggi vuol dire inevitabilmente parlare anche di Riccardo Chailly, interprete fra i più apprezzati al mondo delle opere del compositore boemo, dal 2005 direttore dell'Opera e della prestigiosa Orchestra del Gewandhaus di Lipsia, dopo più di dieci anni passati al Royal Concertgebouw di Amsterdam. In occasione dell'attesissima pubblicazione di Gustav Mahler. La vita, le opere di Henry-Louis de La Grange, il Maestro Chailly ha accettato di raccontare a Leggìo il suo rapporto con un compositore difficile e amatissimo: «È stato un infinito percorso di avvicinamento, proseguito negli anni di studio al conservatorio di Milano. Erano anche gli anni dei primi passi della musica di Mahler in Italia: Claudio Abbado aveva voluto un "ciclo Mahler" alla Scala, ed ebbi la possibilità di assistere alle prove di grandi ospiti come Sir John Barbirolli, grandissimo mahleriano, o Leonard Bernstein con un'indimenticabile Nona, o lo stesso Abbado con una Seconda e una Sesta che ricordo ancora benissimo».
E la sua prima esperienza mahleriana sul podio?
«Nei primi anni '80, con l'Orchestra della Radio di Berlino [RSO]: ho cominciato con il capitolo conclusivo, cioè la Decima Sinfonia, che diressi nel completamento di Deryck Cooke. Forse fu un atto di giovanile incoscienza, ma è una sinfonia che riprendo regolarmente, e ogni volta mi convinco di più della qualità del completamento, condotto a partire dalla "particella" originale di Mahler [la partitura ridotta]. Lentamente, ho poi affrontato tutte le altre sinfonie, prima a Berlino e a Milano, negli anni in cui dirigevo l'Orchestra della RAI, e poi al Concertgebouw; infine, a partire dal '95, a Lipsia, dove a maggio dell'anno scorso abbiamo organizzato un grande festival per ricordare il biennio in cui Mahler fu secondo Kapellmeister dell'Opera, invitato dal grande Arthur Nikish - che fu tra l'altro, con l'orchestra del Gewandhaus, uno dei primi interpreti di Mahler. La tradizione a Lipsia proseguì con un altro grandissimo mahleriano, Bruno Walter, primo esecutore del Canto della terra».
Sono davvero così difficili, per un direttore d'orchestra, le sinfonie di Mahler?
«Fin da ragazzo ho ascoltato, come parte della collezione di mio padre, la storica Quarta incisa da Mengelberg ad Amsterdam nel 1939, e fu per me la prima esperienza di ascolto di qualcuno che era direttamente collegato alla grande tradizione mahleriana: un grandissimo interprete, capace di rappresentare compiutamente il pensiero tardoromantico e tutti i suoi eccessi. Quella del Concertgebouw è un'orchestra che ha una straordinaria dimestichezza con il linguaggio di Mahler, iniziata dal compositore stesso; ma a parte questa eccezione, ricordo bene che quando, al principio degli anni '80, dirigevo come ospite le grandi orchestre europee, sentivo chiaramente la loro fatica a contatto con questo linguaggio. È stato un percorso lungo e faticoso, e se il problema tecnico oggi è in parte risolto, Mahler rimane un autore ostile alla facilità, che non si risolve solo con la frequentazione. Anzi, in fondo ogni volta che una sinfonia di Mahler torna sul leggio, la difficoltà della sua realizzazione pratica si ripropone intatta».
Difficoltà tecnica, ma anche interpretativa.
«Senza dubbio. Ciò che un po' mi spaventa dell'attuale successo planetario di Mahler - al quale sono orgoglioso di avere anche in minima parte contribuito - sono le esecuzioni un po' "alla moda", basate sull'effetto, senza focalizzarsi sul cuore di questa musica. Oggi ci sono eccellenti interpreti, ma questa musica richiede un lavoro profondo sullo stile e sui significati: ho passato intere giornate nella biblioteca di Den Haag a studiare le partiture di Mahler annotate da Mengelberg sulle indicazioni del compositore. Certo, tutto questo studio sarebbe rimasto una gabbia, se non avessi a un certo punto trovato la forza di superarlo attraverso la mia personale visione interpretativa. Mahler detestava la "musica a programma": nei primi anni era stato spinto a spiegare per iscritto la genesi e il significato dei movimenti delle proprie sinfonie, ma presto impose la cancellazione di queste note di presentazione. Voleva che la musica parlasse da sola, che l'emozione scaturisse spontaneamente dall'ascolto. È una cosa molto importante, perché ancora oggi questa è la strada maestra, anche se la conoscenza è assolutamente vitale, e per questo sono felice che sia stata portata in Italia l'opera di un grande studioso come Henry- Louis de La Grange.
Lei l'ha conosciuto personalmente?
Certo. Ho incontrato per la prima volta de La Grange nel 1989, allo Châtelet di Parigi, dopo un'esecuzione della Sesta con il Concertgebouw. Ricordo ancora l'incontro folgorante, nel mio camerino, con questo grande musicologo che già allora, per la sua autorevolezza, era considerato il biografo per eccellenza di Gustav Mahler. L'ho ritrovato nel 1995 ad Amsterdam e nel maggio scorso a Lipsia, dove abbiamo voluto celebrare Mahler e il suo rapporto con la città eseguendo tutte e dieci le sinfonie con le migliori orchestre del mondo. Io dirigevo la monumentale Ottava, e Henry-Louis venne ad abbracciarmi dopo il concerto dicendo che in quella esecuzione aveva identifi cato i suoi ideali interpretativi di quell'opera gigantesca, indefinibile e quasi indecifrabile. Per me è stato un commento indimenticabile.
Perchè Mahler in vita fu adorato dal pubblico e odiato dalla critica?
Era un linguaggio troppo nuovo per la sua epoca, qualcosa di assolutamente inaudito. Credo che fosse inevitabile questa grande frattura tra le qualità di Mahler interprete, riconosciute mondialmente, e le qualità, discutibilissime, del suo talento di compositore - a volte del provocatore, a volte persino del "neodilettante": si pensi a quella famosa lettera, feroce, di Toscanini dopo la lettura della partitura della Quinta. La violenza della novità del suo linguaggio ha richiesto un lento processo di acquisizione, anche da parte dei professionisti.
Spesso si tende a dimenticare il Mahler uomo di teatro...
Eppure l'opera sinfonica di Mahler è un continuo gioco di specchi con le sue esperienze direttoriali e teatrali. Per esempio, Mahler confidò alla sua amica Natalie Bauer-Lechner che per il quarto movimento della Quarta, aveva imparato molto dal Falstaff di Verdi. Era sempre sibillino in queste affermazioni. Dato che Falstaff è un'opera che ho diretto molto, mi sono preso il tempo di studiare la cosa e ho scoperto che nel Terzo atto, nella scena delle fate, si ritrovano idee timbriche e persino melodiche che Mahler fece sue: amava molto Verdi, diresse Falstaff più volte, e rimase folgorato dal mondo sonoro e dal colore verdiano.
Un uomo dalle passioni forti, non sempre amato dai musicisti...
Si sa, per esempio, che l'orchestra di Lipsia più volte manifestò al sindaco che forse questo uomo, per quanto eccellente musicista, dovesse essere allontanato dall'incarico. In prova era acribico, aggressivo, esigente fino alla nevrosi, tanto da ritrovarsi coinvolto in conflitti umani e professionali feroci con i musicisti dell'orchestra. La stessa cosa si riproporrà anche a Vienna. È noto anche il suo scontro violentissimo con l'Orchestra di Santa Cecilia, che culminò nel ritiro della sua sinfonia e nella cancellazione di un concerto. Questa fu la dicotomia che lo accompagnò tutta la vita: quella di un uomo anche dolce e affettuoso nella vita privata, un uomo appassionato e tormentato, ma con un carattere veramente impossibile nel momento in cui saliva sul podio e cominciava a fare musica.
di Sergio Bestente (EDT, Leggìo n.24, primavera 2012)
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