Il 22 maggio 1873 Alessandro Manzoni moriva nella sua casa di Milano. Nei primi giorni di gennaio, uscendo dalla chiesa di San Fedele, era caduto ferendosi leggermente al capo. Per un uomo di ottantotto anni era il segnale della prossima fine, già annunciato da un progressivo indebolimento, fisico e mentale.
Tra coloro che seguivano preoccupati l'inarrestabile declino dell'infermo v'era Giuseppe Verdi che, a Sant'Agata, si teneva al corrente delle vicende del mondo e, in particolare, di quelle milanesi. Nei primi giorni di giugno un biglietto della vecchia amica Clara Maffei con la notizia di un tragico lutto in casa Manzoni e dello smarrimento mentale del patriarca aveva accresciuto le sue preoccupazioni: «Povero Manzoni!» risponde. «La morte del figlio, il sostegno della famiglia, e quell'altissima mente che si spegne! Ciò è tremendo! La mente di Manzoni spenta! E la Provvidenza? Oh se vi fosse una Provvidenza credete voi che si scatenerebbero tante sventure sulla testa di quel Santo?».
La fine del poeta non giunse quindi inattesa, ma non per ciò fu meno profondo lo sgomento dell'Italia civile che riconosceva nell'autore dei Promessi sposi una delle più alte coscienze della nazione da poco unita. Verdi non partecipò alle esequie celebrate con grande pompa il 29 maggio. Ma nello stesso giorno scrisse alla Maffei un biglietto insolitamente turbato: «Ai funerali io non era presente, ma pochi saranno stati in questa mattina più tristi e commossi di quello che era io, benché lontano. Ora tutto è finito! E con Lui finisce la più pura, la più santa, la più alta delle glorie nostre. Molti giornali ho letto. Nissuno ne pala come si dovrebbe. Molte parole ma non profondamente sentite. Non mancano però i morsi. Persino a Lui!... Oh la brutta razza che siamo!».
Tra coloro che seguivano preoccupati l'inarrestabile declino dell'infermo v'era Giuseppe Verdi che, a Sant'Agata, si teneva al corrente delle vicende del mondo e, in particolare, di quelle milanesi. Nei primi giorni di giugno un biglietto della vecchia amica Clara Maffei con la notizia di un tragico lutto in casa Manzoni e dello smarrimento mentale del patriarca aveva accresciuto le sue preoccupazioni: «Povero Manzoni!» risponde. «La morte del figlio, il sostegno della famiglia, e quell'altissima mente che si spegne! Ciò è tremendo! La mente di Manzoni spenta! E la Provvidenza? Oh se vi fosse una Provvidenza credete voi che si scatenerebbero tante sventure sulla testa di quel Santo?».
La fine del poeta non giunse quindi inattesa, ma non per ciò fu meno profondo lo sgomento dell'Italia civile che riconosceva nell'autore dei Promessi sposi una delle più alte coscienze della nazione da poco unita. Verdi non partecipò alle esequie celebrate con grande pompa il 29 maggio. Ma nello stesso giorno scrisse alla Maffei un biglietto insolitamente turbato: «Ai funerali io non era presente, ma pochi saranno stati in questa mattina più tristi e commossi di quello che era io, benché lontano. Ora tutto è finito! E con Lui finisce la più pura, la più santa, la più alta delle glorie nostre. Molti giornali ho letto. Nissuno ne pala come si dovrebbe. Molte parole ma non profondamente sentite. Non mancano però i morsi. Persino a Lui!... Oh la brutta razza che siamo!».
Pochi giorni dopo, il 3 giugno, concretando un progetto che, in realtà, lo assillava da tempo, si offriva di «mettere in musica una Messa da morto» per «dimostrare quant'affetto e venerazione ho portato e porto a quel Grande che non è più».
La Messa avrebbe dovuto venire eseguita nell'anniversario della scomparsa del poeta, come puntualmente avvenne nella chiesa di San Marco il 22 maggio 1874.
Al nome di Manzoni va tuttavia unito un altro nome, non meno illustre: quello di Gioacchino Rossini, scomparso nel novembre 1868. Anche in quella occasione Verdi aveva progettato una Messa funebre chiamando però a collaborarvi diversi musicisti. Divisi i compiti, gli fu riservato il Libera me che egli scrisse nell'estate del '69. Poi il progetto naufragò per difficoltà organizzative (attribuite, a torto, al direttore d'orchestra Angelo Mariani) e il manoscritto verdiano rimase a dormire negli archivi di casa Ricordi sino al 21 aprile 1873, data in cui venne restituito all'autore che, evidentemente, aveva ricominciato a pensare alla Messa. In effetti questo Libera me lievernente modificato, fornì alla nuova opera la conclusione e il materiale tematico per varie parti. Il primo nucleo di una «Messa da morto» risale quindi al 1869, dopo il rifacimento della Forza del destino. Poi non se ne parla più durante gli anni della composizione dell'Aida. Infine il progetto viene completato nel nome di Manzoni.
Tale progressione cronologica ha un preciso significato. Verdi, come tutti i grandi musicisti, è attirato e intimidíto dal testo del Requiem in cui l'estremo dramma è rappresentato nella forma più alta ed essenziale. Perciò il tentativo iniziale è soltanto un frammento destinato a un'occasione tanto solenne quanto moderatamente sentita.
Nel 1869 Rossini rappresentava, non v'è dubbio, una gloria della musica italiana. Ma una gloria ormai lontana, Come compositore Rossini era uscito di scena da quarant'anni, quando, dopo il Guglielmo Tell, si era ritirato in uno splendido isolamento.
Non a caso il suo nome veniva maliziosamente utilizzato dai conservatori per contrapporlo ai successori: a Bellini, a Donizetti e, infine allo stesso Verdi.
L'omaggio a Rossini era quindi obbligatorio, come quello dell'erede nei riguardi dell'avo, ma non andava oltre l'intenzione di esaltare un patrimonio culturale per difenderlo dalle ingiurie del tempo. Perciò Verdi prende l'iniziativa della Messa collettiva in cui sì limiterà ad unire la propria alle altre voci.
Tutt'altra è la sua commozione di fronte alla spoglia di Manzoni, simbolo di un'Italia che gli uomini del Risorgimento sognavano unita, libera, indipendente e giusta. Per comprendere la gravità della perdita, occorre rifarsi a questo clima di civili passioni che unisce gli uomini liberi con un legame più forte dell'amicizia personale. Tra Verdi e Manzoni, infatti, non esiste alcuna intimità. Si incontrano soltanto da vecchi, grazie a due donne - Giuseppina Strepponi e Clara Maffei - che anche loro si conoscono tardi.
E' la signora Giuseppina che, nel maggio 1867, prende l'iniziativa di presentarsi a Clara, superando, com'ella dice colla consueta arguzia, «una certa ripugnanza per l'embonpoint che da tre anni non mi permette più di sedere nel circolo delle donne sentimentali».
Le due signore, ormai sfiorite, appartengono del pari al passato del musicista. Giuseppina, l'ex cantante che l'ha aiutato nei difficili esordi, è diventata la compagna fedele, la depositaria dei segreti, la custode della celebrità e, anche, il parafulmine su cui si scaricano i variabili umori del genio. La Maffe è la Contessa che ha ricevuto il giovane autore nel suo salotto, l'ha presentato agli uomini illustri che le facevano corona e ne ha seguito da lontano, con immutata fede, la luminosa carriera. Sono ormai vent'anni che lei e Verdi, pur scrivendosi costantemente non si incontrano più.
Giuseppina, recandosi dalla Contessa, ha un'idea ben precisa in mente: provocare l'incontro tra Manzoni e Verdi. Profondamente religiosa, ella spera nell'influenza dello scrittore cattolico sul musicista dichiaratamente irreligioso.
Il colloquio avrà luogo un mese dopo e almeno Verdi ne uscirà profondamente commosso. Lo conferma la sua lettera del 7 luglio 1878 alla cara Clarina: «Come spiegarvi la sensazione dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in me, dalla presenza di quel Santo, come Voi lo chiamate? Io me gli sarei posto in ginocchio dinnanzi, se si potessero adorare gli uomini. Dicono che non lo si deve, e sia: sebbene veneriamo sugli altari, tanti che non hanno avuto il talento, né le virtù di Manzoni, e che anzi sono stati fior di bricconi. Quando lo vedrete, baciategli la mano per me, e ditegli tutta la mia venerazione».
Ancora un momento di grande commozione ma senza i risultati sperati dalla consorte. I due non si incontreranno più, limitandosi negli anni successivi, a uno scambio di brevi biglietti di circostanza. Il contatto con il Santo non convertì il miscredente, tanto che, qualche anno dopo, nel 1872, Giuseppina cercò nuovi aiuti in uno degli amici più cari di Verdi, il medico Cesare Vigna, che dovette anch'egli confessarsi incapace «a scemare quel vuoto doloroso, quel crudele scetticismo».
La credente fu costretta ad accettare lo «strano fenomeno» dell'incredulità unita a mille virtù: «E' artista, tutti s'accordano nell'accordargli il dono divino del genio; è una perla d'onest'uomo, capisce e sente ogni delicato, ed elevato sentimento, con tutto ciò questo brigante si permette di essere un ateo con una ostinazione e una calma da bastonarlo». Poi si corregge: «Si permette di essere, non dirò un ateo, ma certo poco credente, e ciò con una ostinazione e una calma da bastonarlo». E conclude: «Io ho un bel parlargli delle meraviglie del cielo, della terra, del mare, etc. etc. Mi ride in faccia e mi gela in mezzo del mio entusiasmo tutto divino col dirmi: siete matti! e sfortunatamente lo dice in buona fede».
Quattro mesi dopo, scrivendo alla Maffei, la situazione, immutata, trova una sua morale: «Vi sono delle nature virtuosissime che hanno bisogno di credere in Dio: altre, ugualmente perfette, che sono felici, non credendo a niente ed osservando solo rigorosamente ogni precetto di severa moralità. - Manzoni e Verdi!... Questi due uo mini mi fanno pensare - sono per me un vero soggetto di meditazione. Ma le mie imperfezioni e la mia ignoranza mi rendono incapace di sciogliere l'oscuro problema.
In realtà, Giuseppina, senza avvedersene, ha già risolto il problema. E' proprio la «severa moralità» che, investendo tutta la vita, unisce due esseri in apparenza così lontani come Verdi e Manzoni: ateo e mangiapreti il primo, cattolico praticante il secondo.
Lontani in apparenza, diciamo, perché basta scendere sotto la superficie per scoprire che il «cattolicesimo» di Manzoni è tanto intransigente da fare di lui, nei principali argomenti politici e sociali, un vero laico. Non è un gioco di parole. Proprio come cattolico, Manzoni vuole una Chiesa nettamente separata dal potere temporale e svincolata dalle forze conservatrici.
Sulla religiosità di Manzoni sono stati scritti volumi a decine. Non pretendo di aggiungere nulla. Qui basta sottolineare le caratteristiche che rendono venerabile l'autore dei Promessi sposi agli occhi del musicista. Per lui Manzoni è l'uomo che «ha scritto non solo il più gran libro dell'epoca nostra, ma uno de' più gran libri, che siano sortiti da cervello umano. E non è solo un libro, ma una consolazione per l'umanità,... è un libro vero; vero quanto la Verità. In altre parole, Manzoni è l'artista che ha condannato le ragioni dei potenti e dei loro seguaci, che non si è mai piegato allo straniero e che ha difeso l'unità d'Italia suscitando aspre reazioni nel mondo papalino, quel «morsi» che Verdi rilevava con sdegno nei necrologi della stampa di intonazione vaticana: dall'equivoco omaggio dell'«Osservatore cattolico» all'uomo «buono, anche pio, e nei suoi traviamenti più illuso che colpevole» sino al glaciale «Alessandro Manzoni, testè defunto» della «Civiltà cattolica». Il partito nero, neppure davanti al feretro aperto, perdona allo scrittore l'apostolato a favore della «funestissima rivoluzione italiana» condannata da Pio IX.
Se poi dal terreno della politica ci volgiamo a quello dell'arte, non è difficile rilevare altre coincidenze fondamentali. Per vie diverse, il melodramma verdiano, il romanzo e le tragedie manzoniane tendono a un medesimo fine: la creazione di un linguaggio nazionale e popolare, capace di parlare a tutti gli italiani, colti e incolti, abbattendo le barriere di censo e di classe. Li accomuna, assieme al Porta, come insegna Natalino Sapegno, il sapore della civiltà borghese lombarda, in piena espansione. Parentela ideale che si rispecchia in numerosi personaggi manzoniani di Verdi o verdiani del Manzoni, ma soprattutto in quella tematica del potere che, nell'Adelchi o nel Don Carlos, trascina nel baratro l'oppressore assieme all'oppresso.
In Verdi, grazie all'origine popolana e al laicismo incontaminato, tutto ciò riesce più chiaro e immediato, anche ai nostri occhi. Ma proprio perché vede con chiarezza il problema morale di fondo - che è problema politico e sociale - egli è in grado di riconoscere nel Manzoni il compagno di lotta. O, addirittura, la guida, grazie alla maggiore età e alla nobiltà della cultura letteraria verso cui il musicista conserva un'intimidita deferenza.
Perciò, agli occhi di Verdi, la morte di Manzoni non è, come quella di Rossini, la caduta di un frammento ormai logoro dell'edificio della storia, ma è lacerazione della propria vita: l'indice della fine di un'epoca cui egli stesso appartiene.
Scomparsa con Manzoni l'ultima grande voce della letteratura romantica e risorgimentale, Verdi si sente solo e, quel che è peggio, un sopravvissuto. Dopo l'Aida, ritiene conclusa la propria attività di operista. Non per stanchezza senile, ma per l'insanabile rottura con i tempi nuovi. Messi a tacere i conservatori che, per decenni, hanno continuato a rimpiangere Bellini e Donizetti, ora è incalzato dai progressisti che esaltano la scienza tedesca in confronto alla volgarità del teatro italiano.Tra i «critici che la fanno da apostoli» e i maestri «che sanno di musica soltanto quel che studiano sulla falsariga di Mendelssohn, Schumann, Wagner, ecc., ecc.» si trova nella eterna condizione del padre rinnegato dai figli ribelli. Messo da parte, reagisce condannando assieme i nuovi indirizzi artistici e gli assetti politici nati dai plebisciti truffaldini. Gli uni è gli altri indegni eredi, ai suoi occhi, del Risorgimento tradito.
Si cristallizzano così nel suo animo le amarezze accumulate dopo il 1861, anno della morte di Cavour. Da allora, si può dire, l'orizzonte politico non fa che oscurarsi attorno a lui: l'alleanza con la Prussia contro la Francia lo disgusta; la stessa presa di Roma gli appare foriera di sventura; il tedesco e il papato sono i nemici di sempre: «Non posso conciliare Parlamento e Collegio dei cardinali, libertà di stampa e Inquisizione, Codice Civile e Sillabo. Che domani venga un Papa destro, astuto, un vero furbo, come Roma ne ha avuti tanti, e ci ruinerà. Papa e Re d'Italia non posso vederli assieme nemmeno in questa lettera.
Pessimista in tutto, non ha fiducia nella Destra storica, ormai logora, e tanto meno nella Sinistra che sta per assumere il potere. Tirate le somme, l'unità d'Italia gli appare una delusione. In questa prospettiva, la morte di Manzoni rappresenta la chiusura definitiva di un periodo di storia, e prende corpo la tentazione del Requiem come colossale cerimonia funebre per tutte le illusioni perdute.Tre anni prima, quando era ancora preso dai problemi dell'Aida, la medesima tentazione gli era sembrata fastidiosa. Rispondendo ad Alberto Mazzuccato che aveva appena letto con entusiasmo il vecchio Libera me per Rossini, l'ammetteva e la respingeva a un tempo: le «vostre parole avrebbero quasi fatto nascere in me il desiderio di scrivere, più tardi, la Messa per intiero: tanto più che con qualche maggiore sviluppo mi troverei ad aver già fatti il Requiem ed il Dies irae, di cui è il riepilogo nel Libera già composto. Pensate dunque, e abbiatene rimorso, quali deplorabili conseguenze potrebbero avere queste lodi! - Ma state tranquillo: è una tentazione che passerà come tante altre. Io non amo le cose inutili. Messe da morto ve ne sono tante e tante!!! E' inutile aggiungerne una di più».
Nel '74, quel che appariva inutile diventa utile. Chiusa ogni altra prospettiva, il progetto riemerge come una via d'uscita e una conclusione: il monumento eretto sulla tomba del passato. l'ultimo saluto al grand'uomo sopravvissuto all'epoca eroica. La grandiosità della Messa, le sue proporzioni, definite volentieri michelangiolesche, ne confermano il duplice significato: il coronamento di un periodo storico e la sua conclusione. Nel nome di Manzoni, è il requiem per tutti'gli uomini che hanno creduto, sperato, lottato, il requiem per un ideale riposto nel passato. Una meditazione sulla morte, insomma, in cui il tema tante volte affrontato nella finzione teatrale si fa universale. Nel compianto funebre emerge l'ultimo personaggio della tragedia: l'Uomo verdiano, con la sua intransigente moralità, con le sue aspirazioni tradite, vinto e tuttavia superiore al mondo. Il testo latino, come per il luterano Bach o per il panteista Beethoven, perde ogni carattere liturgico: l'uso secolare l'ha spogliato dell'originario significato rituale per lasciar sopravvivere soltanto il fondo terreno e passionale. La Morte sostituisce il Cristo nella Messa, così come la Maternità si sovrappone alla Madonna evangelica nella pittura di Leonardo e dei suoi discepoli: atei o irreligiosi quanto e più di Verdi.
In questa chiave interpretativa appare logico il carattere "laico" di una messa priva di Credo in cui, fuor da ogni schema chiesastico, si addensano i tipici modi del melodramma spinti all'estremo limite: tra gli opposti confini del Dies Irae e della dolcezza che conduce al riposo eterno l'Agnus Dei.
Come una grandiosa ricapitolazione dei motivi di tutta una vita, Verdi ripropone la sua incrollabile visione del mondo. La morte, come scrive il Mila. era sempre stata presente nelle sue opere: «E' una specie di ferro del mestiere drammatico, un ineluttabile evento naturale che, come necessario deus ex machina, viene a tagliare i nodi e a risolvere le intricate situazioni in cui tutti gli uomini si sono cacciati per effetto delle loro passioni. Ora, nella Messa da requiem, e particolarmente nel Dies Irae, è tutto il genere umano che si comporta come i personaggi verdiani, e stramazza fulminato, come selvaggina abbattuta di colpo dall'improvvisa palla di fucile, passando di punto in bianco dal calore di una vita intensissima al gelo della morte».
Appare chiaro il senso dei richiami tematici alle opere del passato - citazioni dell'Aida, della Forza del destino, di un frammento soppresso del Don Carlos e via via come a saldare le tragedie della scena a quelle dell'eternità. Avvolgendole, nello stesso tempo, in una ragnatela di sottigliezze psicologiche e di ripiegamenti interiori in cui si rispecchia il superamento degli slanci popolareschi e quarantotteschi.
Perciò il Requiem chiude un periodo e, quasi contro la volontà del suo autore, ne apre uno nuovo. Esalta - nel china dell'epicedio - le autentiche radici risorgimentali e getta un ponte verso il mondo nel quale lo stesso Verdi entrerà, dopo un lunghissimo silenzio, coll'Otello e col Falstaff. Risultato paradossale di un pessimista convinto di voltare le spalle alla vita.
Rubens Tedeschi (da "Addio, fiorito asil", Edizioni Studio Tesi, 1992)
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