Annibale Carracci A Bacchante (dettaglio) |
Il duca
Ferdinando Gonzaga appare solo di sfuggita nella dedica del Settimo Libro:
tutta l’attenzione è rivolta alla moglie Caterina. Il duca era presumibilmente
in collera per la decisione del compositore di lasciare la città (ricordiamo
che significativamente il Sesto Libro è l’unico che fu pubblicato senza
dedica: come accettare una pubblicazione d’addio?) ma, in quel momento,
Monteverdi non era certamente una priorità per lui. Ferdinando ereditava,
infatti, una fragile situazione finanziaria che egli stesso aggravò con vita e
scelte politiche sbagliate: fu questa circostanza a costringerlo a svendere una
delle più sfarzose collezioni d’opere d’arte (la celeberrima Celeste Galeria
che compendeva opere di Bruegel, Cranach, Dürer, Mantegna,Tiziano, Rubens,
Giulio Romano, Tintoretto, Reni, Correggio, Veronese, oggi sparse nei più
importanti musei del mondo). Monteverdi spera di mantenere i rapporti con
Mantova attraverso la dedica del Settimo Libro: “questi miei componimenti
saranno pubblico et autentico testimonio del mio devoto affetto verso la
casa Gonzaga, da me servita con ogni fedeltà per decine d’anni”. La
decisione di volgere al nuovo e alla Serenissima Repubblica di Venezia, è però
irrevocabile: morto, nel 1619, il musicista ufficiale della corte dei Gonzaga
(ricordiamo che mai Monteverdi ebbe questa carica ufficiosa), il compositore fu
richiamato al servizio del duca, ma egli eluse l'invito con alte richieste
economiche. La considerazione in cui era tenuto il suo lavoro, il buon
stipendio percepito (“non vivo ricco no, ma non vivo neanche povero” scriverà
a Striggio nel 1627), il fatto di trovarsi alle dipendenze d’una istituzione
solida e non soggetta agli umori volubili d’un duca, lo portarono a rifiutare
quel passato a corte, conservando il nuovo “servitio dolcissimo” e la
carica di Maestro di Cappella della Serenissima Repubblica (così si
definisce nel frontespizio del libro) nella Basilica Palatina di San Marco di
Venezia (che, ricordiamo, non era un duomo ubbidiente a Roma, ma la chiesa di
palazzo, la cappella ufficiale delle liturgie religiose della Repubblica).
Questa
nuova condizione, unitamente alla sua naturale propensione per ricercare e
sperimentare nuovi percorsi compositivi, lo porta a pubblicare un libro in
netta rottura con le precedenti pubblicazioni: qui il madrigale è trasformato
o, forse, sarebbe meglio dire totalmente scomparso nella forma alla quale siamo
stati abituati a riconoscerlo fino a questo punto. In trentadue composizioni
(anche questa una novità in quanto tradizionalmente i libri precedenti
raccoglievano dai diciotto ai ventun brani al massimo) non viene incluso
nemmeno un madrigale a cinque voci, ma solo brani da una a quattro voci (ben
quindici sono “a due”) tutti con basso continuo, alcuni concertati con
violini, unitamente a brani che potremmo dire “sperimentali” perchè non
assimilabili alla forma tradizionale del madrigale. Proprio per
quest’eterogenea varietà d’opere Monteverdi impone il titolo di “CONCERTO”,
termine ricco di qualità, programma stilistico che addita maniere
di contrasti entro l’andare concorde delle parti e confronti fra voci e
strumenti. Non ancora l’esecuzione dinnanzi a un’adunanza. Eppure v’è
un’interna disposizione dei pezzi calcolata nel libro, bilanciata
(Claudio Gallico: Monteverdi, 1979).
Proprio la
disposizione dei brani, in questo libro, ha creato molte contraddittorietà tra
gli studiosi ed esecutori, offrendone diverse soluzioni: alcuni esecutori
sconvolgono quest’ordine (Cavina); altri musicologi (tra cui Malipiero e tutti
quelli che lavorano sulla sua trascrizione) rispettano la stampa del basso
continuo che (per ragioni di mera grafica editoriale) pone il brano Non è di
gentil core come secondo anzichè terzo (come è invece segnato in tutte le altre
parti vocali e strumentali). Non ritengo sia solo una pura discussione
accademica rispettare il pensiero monteverdiano, in quanto ritengo che
l’ordinamento voluto dall’autore sia fondamentale per comprenderne questa “disposizione
calcolata e bilanciata”. Come avevamo già riscontrato in tutti i libri
precedenti, i brani si susseguono con una precisa razionalità tutta da
osservare e rispettare, perchè oltre ad aderire ad un criterio di crescente
compagine vocale (ordinata secondo precise estensioni vocali), il libro si
presenta come una specie d’opera lirica, unitaria, che dal prologo iniziale
(colpo di genio dell’autore) seguito dal “coro” d’apertura, va man mano
dipanandosi in scene a duetto e terzetto che dipingono situazioni con diverso
carattere amoroso fino all’esodo gioioso e “corale” del ballo finale. Tradire
questa sequenza di brani (recuperati grazie ad una nuova edizione critica
completa, espressamente edita per questa incisione discografica) sarebbe
assimilabile ad un arbitrario smarrimento della concatenazione narrativa d’un
dramma lirico, ben studiato a tavolino dall’autore, che alterna momenti di
fasto sonoro a momenti di solitario ripensamento, dalla gioia al dramma,
dall’erotismo alla preghiera.
L’apertura
del libro è affidata ad una Simphonia strumentale (assimilabile ad una “Sinfonia
avanti il levar de la tela”) che ingloba i bellissimi versi di
Giambattista Marino, Tempro la cetra tratti da La Lira, una
raccolta di componimenti delle Rime, pubblicate tra il 1602 e il 1614.
Oltre ad una mera introduzione, quest’apertura è assimilabile ad un vero
prologo di un’opera secentesca, affidata alla voce sola, che spiega al pubblico
lo spirito e l’argomento del libro (come, ad esempio, avviene nel prologo
affidato alla Musica nel precedente Orfeo, 1607). Come in un
madrigale (e forse proprio per questo possiamo definirlo ancora un madrigale)
le note si assoggettano al significato delle parole, abbandonandosi a madrigalismi
che lanciano in note acute le parole alzo talor lo stil, fiorendo di
semicrome e abbellimenti le parole e pur tra’ fiori, rallentando
fingendo d’addormentarsi nei versi conclusivi in grembo a Citerea, dorma al
tuo canto. Il risveglio (prima della conclusione finale che ci
riporta alla sinfonia iniziale variata) è una gioiosa danza che sembra
riservata ad un abile gruppo di danzatori. Nell’edizione di Malipiero del 1932
(unica trascrizione per ora in commercio) troviamo in questo brano alcuni
errori che sono stati corretti nella nostra edizione: oltre all’omissione
d’alcuni abbellimenti originali, menzioniamo il testo erroneo de la lira
sublime (l’originale è: de la tromba sublime), le diverse legature
di valore sparite nell’edizione del ’32 (la più percepibile, anche ad un
ascolto distratto, è l’ultima nota finale del violino secondo), errori di note
nelle parti interne strumentali. Esattamente come avviene per la prima
composizione, anche tutti gli altri brani del libro hanno subìto una totale
revisione critica che confronta la prima edizione del 1619 con le successive
ristampe (del 1622, 1623, 1628, 1641) e successivamente confronta i testi con
quelli delle pubblicazioni letterarie originali: molto spesso accade di notare
delle discresie tra le versioni che a volte ne alterano la musica, a volte il
significato testuale. Nel finale del brano successivo abbiamo una di queste
distorsioni. Operando una collazione dei testi, notiamo che le parole assegnate
alle parti vocali terminano con due diverse versioni: de l’antiche dolcezze
ancor gli honori oppure ...ancor gli humori mentre il testo
originale di Marino è ...ancor gli odori. Quest’ultima probabilmente è
la versione corretta (le altre hanno solo un’assonanza musicale ma non
semantica): una dell’essenziali tematiche del Settimo Libro è proprio
quella del “profumo”. Questo tema lo troviamo anche nei brani Vaga su spina
ascosa (dove si invocano le primaverili Ninfe de gli odori e in Con
che soavità (12 del 2° cd) in cui Guarini cita le amate labbra odorate.
Quest’ultimo brano, insieme al secondo, meritano la nostra attenzione: sono due
brani in cui gli strumenti concertano, dialogando, con le voci. A quest’olmo
è un madrigale a sei voci, con basso continuo, due violini e due flauti
obbligati (cioè Monteverdi stesso scrive che desidera questi strumenti
segnandoli sulla parte, cosa abbastanza rara in un epoca in cui si scrivevano
linee melodiche che venivano poi assegnate agli strumenti che erano reperibili
per una specifica esecuzione). Deducendo che il compositore avesse a
disposizione due bravi flautisti, abbiamo ampliato l’organico strumentale del
libro anche a questi due strumenti, alternandosi ai violini (come in questo
secondo madrigale), nel primo brano e nel Ballo finale, ottenendo quella
varietà timbrica desiderata da Monteverdi nel secondo brano.
Con che
soavità,
contrariamente a quanto si possa pensare, non è un madrigale a voce sola
accompagnata da strumenti ma un brano a dieci voci, divise in tre cori, di cui
una sola linea è cantata, mentre le altre voci sono affidate a strumenti
anzichè a cantanti. Questa idea policorale, omaggio ad una concezione tutta
veneziana di comporre (ricordiamo i brani di Gabrieli), sottintende un testo
che è rivelatore d’un importante svolta concettuale e musicale. I versi di
Marino, infatti, antepongono le parole ai baci, in quanto
escludono l’uno irrimediabilmente l’altro (s’ancidono fra lor): è
l’eterno conflitto fra la razionalità e la passione. Sarebbe bello che queste
due parti dell’animo umano si unissero e creassero armonia nel rapporto
amoroso come nel nostro vivere quotidiano; purtroppo questo non può avvenire.
Monteverdi materializza musicalmente questo pensiero ponendo la voce sola (non
polifonia, ma voce sola accompagnata solo dal suo basso continuo) in mezzo ai
due concetti (la razionalità e la passione) materializzati dai due cori di
strumenti asemantici, senza testo. I due cori sono oltremodo antitetici perchè
l’autore scrive che devono essere composti da un gruppo di viole da gamba (con
organo come basso) e un gruppo di strumenti da braccio ossia un
quartetto d’archi “moderno” (con il clavicembalo). L’uomo sogna l’armonia ma
nella realtà deve scegliere fra baci e parole, fra istinto e
lucidità, sperando d’unirli ma sapendo già che la vittoria d’uno conduce alla
morte dell’altro (Che soave armonia fareste, o dolci baci, o cari
detti, se foste unitamente d’ambedue le dolcezze ambo capaci). Sotto
le righe, in questo preciso momento storico, Monteverdi ci sta dicendo che
sarebbe bello che il mondo antico (il coro di viole da gamba e tutto ciò ad
esso congiunto) vivesse in armonia con il nuovo (il quartetto d’archi), ma la
risposta è fatale: da questo madrigale in poi “l’antico” sparirà e il “nuovo”
procederà irrimediabilmente. Mai più, da questo momento, troveremo le viole da
gamba (ricordiamo che Monteverdi era entrato in contatto con la corte dei
Gonzaga presentandosi come violista) che cederanno il passo ai violini (e il
violoncello, considerato un violino da braccio bassa); mai più Monteverdi ritornerà
a comporre il madrigale a cinque voci; mai più egli ritornerà a Mantova.
Sarebbe bello che tutto si conciliasse, ma il cammino verso l’epoca moderna
travolge il mondo antico: questo brano segna concettualmente il preciso punto
di cambiamento storico.
La Lettera
amorosa e la Partenza amorosa sono due monologhi dedicati
rispettivamente ad una voce acuta e ad una voce media (tenore o baritono):
entrambi, dopo il titolo originale apposto dal compositore, recano la dicitura a
voce sola in genere rappresentativo et si canta senza battuta. Come
scrivevo nella pubblicazione del Sesto Libro riguardo al solistico Lamento
d’Arianna, il significato della dicitura apposta da Monteverdi pone al cantante
il problema interpretativo della rappresentazione del brano che non significa
indossare costumi per divenire il personaggio, ma quanto “essere” quel
personaggio: in quel momento (e per momentanea finzione teatrale) egli vive
tangibilmente quelle situazioni coinvolgendone il pubblico. La seconda
indicazione cantar senza battuta, “non presenta particolari problemi,
riferendosi trasparentemente alla necessità di una declamazione che
fuggisse agni rigidità ritmica in favore di una scioltezza recitativa governata
dai soli metri dell’ “oratione” e dell’ “affetto” (P. Fabbri:
Monteverdi, 1985).
Per
favorire tale scioltezza, parte del basso continuo è scritta (per la prima
volta nelle edizioni di Monteverdi) “in partitura” cioè sovrapponendo la linea
del cantante a quella dello strumento che la accompagna favorendone la
coordinazione e la libertà interpretativa. Molti musicologi ed interpreti
giustificavano la scelta monteverdiana della voce acuta per la Lettera
amorosa, immaginando fosse letta dall’amata che riceve lo scritto. Siamo
d’opinione contraria proprio perchè il titolo del poeta Claudio Achillini non
lascia dubbi: Cavaliere impaziente delle tardate nozze, scrive alla
sua bellissima sposa questa lettera. Ancora una volta, abbiamo un
argomento a difesa della nostra ponderata scelta d’utilizzo delle voci maschili
nelle tessiture acute, già difesa nelle precedenti pubblicazioni.
I duetti
che compongono questo Libro mostrano la grande novità: scene teatrali
amorose, dolci o buffe (Io son pur vezzosetta o Dice la mia
bellissima Licori, si alternano a momenti di disperata espressività ed
intensità. Fra questi S’el vostro cor, madonna e Interrotte
speranze traducono l’intensità che riesce ad irrompere da un organico così
ristretto. Dramma privato e cuore sofferente del libro, i due madrigali
mostrano quella sapienza monteverdiana (frutto della Seconda prattica)
di creare pathos, emozione, turbamento, commozione. L’unisono iniziale di Interrotte
speranze che sfocia in dissonanza è un’elaborazione degli esperimenti
ascoltati nel Quarto Libro nel madrigale Ah, dolente partita; il
cromatismo di S’el vostro cor, madonna condurrà ad esiti fonici
inaspettati.
Nel “Concerto”
una particolare attenzione, anche numerica, è rivolta ai componimenti
poetici dedicati al tema erotico del “bacio” scritti da Giambattista Marino
nelle Rime amorose: Vorrei baciarti, o Filli (con il titolo
originale letterario: Bacio in dubbio), Perchè fuggi (Bacio
involato), Tornate, o cari baci (Baci cari) e il geniale e malizioso
terzetto Eccomi pronta ai baci (Bacio mordace). L’estremismo, invece, è
testato in Parlo, miser, o taccio, a tre voci, dove le possibilità
vocali dei cantanti sono messe a dura prova da tessiture dilatate sia
nell’acuto che nel grave (più di due ottave d’estensione sono vocalmente
necessarie al basso per l’esecuzione di questo brano: forse un omaggio al
celebre cantante estense Giulio Cesare Brancaccio) che rendono musicalmente le
estremismi concettuali e i contrasti delle parole.
Conclude
il libro il Ballo Tirsi e Clori che, conformandosi al Libro che ha in
maggioranza madrigali a due voci, inizia proprio con un dolcissimo duetto tra
due pastori. Caratteri diversissimi si avvicendano solisticamente concludendo
con un duetto: in un ritmo ternario, di danza, Tirsi vorrebbe trascinare l’amata
Clori alla gioia e ai piaceri della danza, ma timidezza e ritrosia femminile
(musicalmente visualizzata da una libertà recitativa offerta dal tempo binario)
frenano lo slancio passionale del pastore. Il duetto finale è simbolo
dell’unione fra i due amanti che, placata ogni renitenza, sfocia poi nella
gioia corale della danza trascinando altre voci e strumenti in una profusione
d’alternanze ritmiche d’eterogenee atmosfere. Molte testimonianze, attestano
che il Ballo fu composto da Monteverdi e da Striggio (stilisticamente
l’autore del testo) per l’incoronazione del Duca Ferdinando Gonzaga nel
febbraio 1616. Una lettera autografa ci offre una bella testimonianza di quello
che Monteverdi stesso desiderava in quell’occasione: giudicherei per bene
che fosse concertato in mezza luna, su li angoli della quale fosse posto
un chitarrone et un clavicembalo per banda, sonando il basso l’uno a
Clori et l’altro a Tirsi, et che anch’essi avessero un chitarrone
in mano sonandolo et cantando loro medesimi nel suo et li detti duoi
ustrimenti. Se vi fosse un arpa in loco del chitarrone a Clori sarebbe
anco meglio, et gionti al tempo del ballo dopo dialogati che averanno
insieme, giongere al ballo sei altre voci per essere ad otto voci, otto
viole da braccio, un contrabasso, una spineta a spata. Se vi fossero
anco duoi leuttini piccioli sarebbe bene. La volontà di
differenziare i due protagonisti è chiarissima sia nella disposizione scenica
(devono stare ai due lati opposti della scena) che nella caratterizzazione
timbrica degli strumenti che li accompagnano (Tirsi, clavicembalo e chitarrone
in mano; Clori, chitarrone o meglio l’arpa). E’ facile notare come il brano
descritto ha alcune differenze sostanziali nell’organico (nel ballo finale cita
otto voci accompagnate da otto archi e contrabbasso e bc, rispetto alle sole
cinque voci del Settimo Libro), ma sappiamo come Monteverdi adattasse le
proprie musiche alle varie occasioni e ai vari organici disponibili. Per
ricordare questa bramata opulenza strumentale, nella nostra versione,
raddoppiamo le cinque linee vocali del finale con violini, viole (da gamba e da
braccio), violoncello, contrabbasso, flauti, percussioni e tutti gli strumenti
di continuo usati nei precedenti madrigali: questo contrasta felicemente con
l’arpa sola che accompagna Clori e il clavicembalo, la viola da gamba e la
chitarra barocca che immaginiamo suonata dalle stesse mani da Tirsi.
Marco
Longhini
(note al CD Naxos 8.555314-16)
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