Arnold Schönberg Center, Vienna |
In occasione dell'apertura della nuova mostra multimediale "Who I am", allestita all'Arnold Schönberg di Vienna per festeggiare il 10° anniversario dell'istituzione, Nuria Schöenberg Nono, figlia del compositore e curatrice della mostra (aperta sino al 22 agosto 2008), ci parla dei criteri che hanno guidato le sue escelte espositive e illustra alcuni dei materiali presentati.
Rispetto alla mostra multimediale precedente, che ha girato tutto il mondo, comprese diverse città italiane, il nuovo concetto espositivo è completamente diverso. Cosa ha reso necessario sostituire l'esposizione precedente?
«Non è stata una necessità. Prima di questa mostra, qui nell'Arnold Schönberg Center, ci sono state diverse esposizioni, il cui intento era quello di mostrare il materiale del lascito, di mostrare molti manoscritti, di mostrare Schönberg nei vari momenti della sua vita (in America, in Germania, ecc.). Mi è sempre sembrato che i materiali esposti fossero troppo pochi per i musicologi. Se ci sono venti manoscritti, è poco, e se uno vuole veramente studiare va in archivio, si siede e può consultare comodamente tutti i manoscritti. Per chi vuole solo conoscere Schönberg, invece, venti manoscritti sono forse troppi. Quando sono venuta a conoscenza del fatto che negli.ultimi anni pi# di 120.000 persone - un numero pazzesco - hanno visitato il centro (gruppi, bambini, scolaresche, turisti, ecc.) ho pensato che forse sarebbe stato meglio mostrare i vari aspetti della vita di Schönberg in un modo facilmente comprensibile. Ho limitato moltissimo il numero di manoscritti e ho cercato di fare una mostra in cui il visitatore diventa praticamente un protagonista».
Guardare ma non toccare?
«Qui no! Invitiamo la gente a toccare, a guardare, a scoprire da sé ciò che desideriamo mostrare. Il pubblico può ascoltare la voce di Schönberg, immaginarsi la casa in cui viveva o sperimentare il modo in cui insegnava. Su un tavolo ci sono diversi, materiali didattici che Schönberg aveva concepito per i suoi studenti, per esempio copie dei test d'esame che lui dava a Los Angeles. Queste fotocopie si possono addirittura portare via per poi svolgere a casa queste prove. Oppure ci si può iscrivere virtualmente sul formulario, delle Schwarzwald'sche Schulanstalten, il primo istituto in cui Schönberg insegnò a Vienna. Il visitatore rompe il diaframma che c'è normalmente, la vetrina. Generalmente guardo le cose in vetrina, sono cose che non si possono toccare, oppure leggo dei pannelli lunghissimi. Ma il mio motto è che una mostra non deve essere un libro, che si legge stando in piedi. Se uno vuole leggere un libro, si siede e lo legge. Non va a una mostra. Anche qui ci sono dei libri, c'è anche la biografia che ho sviluppato partendo dai documenti del lascito. Uno allora si prende il libro, si siede comodo e lo legge, o lo sfoglia. La mostra deve essere uno stimolo. Chi trova qualcosa che lo interessa, può poi magari tornare, andare in archivio, chiedere di vedere, di approfondire».
A differenza di altre istituzioni, l'Archivio viennese si pone in maniera molto aperta nei confronti dell'utente. E' una volontà degli eredi di Schönberg?
«Quello che succede qui non succede da nessuna altra parte. Non è solo una nostra volontà, è stata una prerogativa. Se l'istituzione non avesse messo negli statuti che l'archivio è aperto a tutti con orari d'apertura comodi, non avremmo trasferito il lascito a Vienna. Qui ci sono tantissime cose da conoscere, e non solo i musicologi si interessano. Noi pensiamo che l'archivio debba essere aperto a tutti. E' il nostro modo di vedere le cose, forse anche un po' americano. Anche a Los Angeles era così. L'archivio era aperto a tutti, durante l'orario dell'università».
La prima stazione della mostra è la ricostruzione dello studio di Los Angeles in cui Schönberg lavorava.
«Questa stanza era chiusa e noi sapevamo che non dovevamo disturbare quando lavorava. E' un rispetto che abbiamo imparato già da piccoli, ma non attraverso l'autoritarismo. Molti mi chiedono se mio padre fosse autoritario. Mio padre aveva l'autorità che nasce dall'aver ragione, dal fare le cose perché c'è una ragione dietro. Comunque passava molto tempo con noi. Giocava, ci spiegava le cose. Mi ricordo quando ci ha spiegato il movimento dei pianeti attorno al sole girando attorno alla lampada del salotto. Ci aiutava nello studio, andava spesso a guardare mio fratello che giocava a tennis. E' importante sfatare l'opinione generale di Schönberg come persona sempre seria e arrabbiata. Sì, a volte lo era, ma, raramente: Era un padre e un insegnante appassionato».
All'inizio della carriera didattica Schönberg faceva pagare i suoi studenti in base alle loro possibilità economiche. Questo forte intento sociale permane anche dopo l'emigrazione in America?
«E' stato così per tutta la sua vita. Se uno non poteva pagare, ovviamente non pagava. All'inizio, appena arrivato a Los Angeles, venivano molti compositori del cinema, che erano ricchissimi. Volevano studiare con lui, anche perché questo faceva poi parte del loro curriculum. Arrivavano per un colloquio con le loro opere e mio padre stava 2-3 ore con loro a guardare e discutere le loro partiture. Poi se ne andavano dicendo "Thank you, Mr. Schönberg". Andavano via e dicevano di aver studiato con Arnold Schönberg. E lui, zero. Allora a un certo punto ha deciso che a queste persone chiedeva di esser pagato anche per un semplice colloquio. Lui si impegnava sempre, non si tirava indietro e non prendeva le cose alla leggera. Cercava di aiutare, di spiegare, gli piaceva moltissimo insegnare».
In una sezione della mostra dedicata alla gestazione del Moses und Aron, viene mostrato il suo intenso travaglio interiore legato alla religione e all'ebraismo.
«Non direttamente, ma il suo travaglio si sentiva, anche se lui era molto positivo, guardava sempre in avanti e non parlava spesso dell'Europa. Non piangeva sul passato. Parlava di altri problemi. Sapevamo per esempio di quanto fosse rattristato dell'esser stato forzato ad andare in pensione dall'università. Lui avrebbe voluto continuare. Sapevamo anche che aveva scritto alla Guggenheim dicendo che era stufo di dare lezioni private, anche perché i suoi studenti non è che fossero tutti geni come Berg e Webern».
La ricostruzione dello studio di Los Angeles era esposta qui anche prima. Ma adesso c'è un pannello video-audio in cui Lei illustra alcuni degli oggetti che vi si trovano.
«E' molto bello vedere lo studio, ma ci sono moltissimi oggetti che non si riconoscono, che non si sa esattamente cosa siano. Anche delle curiosità, come la macchinetta per tendere lo scotch che in quegli anni non esisteva. Da un punto di vista artigianale, oggi ci sembra un oggetto fatto un po' male ma bisogna considerare che allora non c'era, e lui invece lo aveva inventato. Lui inventava continuamente».
Qual è secondo Lei la sua invenzione più geniale?
«La composizione con i dodici suoni. Anche quella è un'invenzione! Mah, forse la macchina per scrivere la musica, per la quale ha anche depositato il brevetto. Ma soprattutto tutte le cose che allora non esistevano e che per noi oggi sono ovvie. Confrontandosi con tutto, lui pensava sempre in che modo fare meglio. E' un modo molto positivo di vedere la vita. E questo, credo, lo ha anche salvato in molti momenti difficili, in cui per esempio altri rifugiati in America non ce l'hanno fatta e sono caduti in depressione. Ma è anche importante capire che attraverso queste occupazioni manuali faceva cose utili, anche per risparmiare soldi».
C'è una zona della mostra in cui alcune delle sue invenzioni. e degli oggetti che si costruiva da sé (blocchetti, agende, ausili per comporre, ecc.) sono esposti in riproduzioni in facsimile e invitano il pubblico a toccare, sfogliare e curiosare.
«C'è anche un modellino in carta della sua bocca, che aveva fatto perché voleva spiegare al dentista dove batteva e gli faceva male la dentiera. Modellini ne faceva tantissimi. Poi rilegava da solo i libri e la musica. Prima della guerra in Europa si potevano comprare i libri e la musica non rilegati a prezzi minori. Molti rilegavano a casa, e lui si era fatto una macchina per rilegare professionalmente. Le sue rilegature erano bellissime. Dipingeva la carta dentro, faceva gli angoli in pelle. Tutte queste cose le faceva per distrarsi dal lavoro. Per rilassarsi c'è chi legge libri gialli, chi fa passeggiate nel bosco. Lui lavorava».
Appena entrati nella mostra ci si ritrova in una specie di cinema.
«Questa è forse la cosa più importante di tutta la mostra. E' una sala creata da Anthony Morris, un musicista che negli ultimi venti anni si è occupato di surround sound e che ha sviluppato sistemi per poter riprodurre un concerto o un avvenimento musicale come lo si sente in una data sala. Per noi ha sviluppato un sistema full high definition 1080p video e 24-bit digital audio con altoparlanti 14.2 e surround sound a 16 canali. Per questo sistema, però, ancora non abbiamo contenuti. Quello che si può vedere adesso sullo schermo è un dvd normale, in commercio, una scena del Moses und Aron della scorsa stagione della Staatsoper di Vienna, con accanto una riproduzione della partitura. L'idea innovativa di questa mostra è il suo voler essere aperta. Si svilupperà e continuerà a ricevere nuovi contenuti. In futuro questa sala conterrà documenti per l'archivio: una serie di esecuzioni, di workshops, di lezioni, masterclasses di persone che hanno lavorato con Schönberg. Esiste per esempio un'esecuzione di Claudio Abbado di Pelleas und Melisande, recentemente incisa. Abbado ha richiesto il master alla casa discografica e ce lo dovrebbe mettere a disposizione tra qualche settimana. A differenza del cd o del dvd poi messo in commercio il master non è compresso. La musica si potrà ascoltare in modo completamente diverso. Chiediamo a tutti coloro che abbiano la possibilità di fornirci dei documenti autentici da inserire nel sistema di farsi avanti. Vogliamo creare una mediateca per l'archivio che rimarrà per le future generazioni. Questa si potrà usare come strumento d'insegnamento. Questo è qualcosa di completamente nuovo, con cui festeggiamo i primi dieci anni dell'Arnold Schönberg Center e con cui ci prepariamo ad affrontare i prossimi dieci».
intervista di Juri Giannini
("il giornale della musica", n.05, 2008)
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