Aleksandr Borodin (1833-1887) |
Attraverso la tranquilla Weimar, attraverso la verde Weilandplatz, accanto al piede destro del monumento di bronzo di Weíland, giù per Marienstrasse.
«Vive qui Liszt?».
La piccola casa a due piani con il giardinetto curato apparteneva al giardiniere del granduca di Weimar.
«Herr doktor Líszt? E' qui, entrate». E Borodin consegna il proprio biglietto.
L'andito stretto, la scala verso l'alto, dipinta con la tinta a olio. I gradini scricchiolanti sembrano emettere spari sotto il largo e pesante piede di Borodín.
Poco tempo prima avevano ricevuto la prima notizia sull'atteggiamento di Liszt verso la loro piccola cerchia: Liszt ammirava la musica del 'gruppetto'. Come sempre, non per questioni personali, ma per iscrivere all'uníversítà di Jena due gíovani studenti di chimica, il figlio di pope Díanin e l'odessíta Goldsteín, Aleksandr Porfir'evíc era venuto all'estero. Alla mattina era arrivato in treno da Jena a Weímar, aveva visitato la casa di Goethe, la casa di Schíller, la casa di Herder, si era ínchinato alle amate tombe nel cimitero di Weimar. (Mentre Aleksandruska Dianin e Misa Goldstein, rimasti a Jena, impazienti, non sapevano cosa fare).
«Vous avaít fait une belle symphonie!», dice una voce alta e veloce sopra Borodín, e, con i lunghi capelli grigi e il naso affilato, con la prefettizia nera a lunghe falde, la cravatta nera, compare sopra di lui Liszt. Le sue lunghe dita raffigurano nell'aría quei tempi dello scherzo, che Musorgskíj definisce «colpi di becco». «C'est ravissant, c'est ingéníeux! », dice, stringendo forte con la mano sottile quella robusta di Borodín, e lo conduce nel proprio studio.
Aleksandr Porfir'evíc tace e ascolta il torrente veloce dell'eccellente e precisa parlata francotedesca; davanti a lui la figura del vecchio abate, che ora si siede sul divano, ora si muove tra il piano e l'étagère, davanti a tre finestre che danno sul giardino di rose.
«Síe sind wohl weít gegangen, sie haben aber nie verfehelt!», grida Liszt. «Non date retta a nessuno, andate per la vostra strada, siate originale ...».
Alla fine, si siede; il servitore montenegríno porta delle bottiglie e dei piccoli bicchieri. Adesso il discorso verte su Korsakov e Musorgskij. Sul leggío del Bechstein aperto c'è l'Islamej di Balakírev e l'opera di Anton Rubinstejn Nerone si trova sul tavolínetto a fianco dei bicchierini.
«Grazie a Dio - dice -, non avete studiato al conservatorio. Il futuro appartiene alla musica russa, alla vostra musica... Monsíeur Borodin, io sono troppo vecchio per fare complimenti ... ».
Agitando l'occhialíno appeso a un piccolo cordone, gettando indietro i capelli, con quel rigido alto colletto inamidato che portava per dovere, si muoveva con semplicità e leggerezza per la stanza, trovava degli accordi, si fermava, si sedeva di nuovo, parlava scandendo le parole; la bocca spalancata e chiusa con forza, gli occhi fissi sull'interlocutore. E la sua parlata si riversava su tutto: la musica, la Russia, Sadko, le romanze di Kjuí, il trio di Napravník, e ritornava alla prima sinfonia di Borodin.
«Dobbiamo suonarla assieme», ripeté diverse volte, e Borodín, intimidito, smarrito, assicurava di non saper suonare, di non potere, di non osare...
Se ne andò verso sera, con inviti per colazione, pranzo, matinées, a lezione con i discepoli, ad una serata con il granduca. Tutti gli inviti gli si erano confusi nella mente. Tornò a Jena ed era soltanto in grado di dire ai propri ragazzi:
«Domani lo vedrete voi stessi. Domani verrà qui, ha un concerto nella cattedrale».
Nella cattedrale di Jena i concerti venivano dati una volta all'anno, per questo il nome di Liszt non compariva sulla locandina. Si era riunito un numeroso pubblico di aristocratici e di gente semplíce, poiché già tutta la città sapeva che avrebbe suonato Líszt. Aleksandruska e Mísa si erano introdotti nella cattedrale sin dal mattino, avevano ascoltato tutte le prove, avevano visto Líszt arrívare e, come inebetiti, inciampando e correndo, gli erano corsi dietro, senza vedere e senza ricordare nulla. Borodin di tanto in tanto vedeva i loro volti beati, istupídití dall'entusiasmo, che ora balenavano in lontananza, ora incalzavano il 'maestro' all'uscíta dalla cattedrale, ora pallidi e tesi mentre lui suonava, ora sudati e rossi sotto il sole per la strada, mentre Liszt con il suo seguito e i suoi allievi se ne andava all'albergo «Zum schwarzen Bären ».
Camminava a testa alta, tenendo sottobraccio la baronessa Meyendorf, nata principessa Gorcakova, a lui vicina già da alcuni anni, amica del granduca e di tutti i notabili di Weimar. Alla sinistra di Líszt c'era l'amata allieva del maestro, Vera Tímanova, minuta, elegante, vivace, vestita alla moda di Parigi, con piedini e manine piccolissimi (non era in grado di prendere un accordo di sesta in fa minore). Dietro loro tre, cinguettando, stríllando, ridacchiando, camminava un'intera nidíata di fanciulle, volate da Liszt dall'Irlanda, l'Unghería, la Svezia, l'Italia, l'America, senza cappelli, senza guanti, che raccoglievano ciliegie per la strada, che si incipriavano davanti a tutti, che spaventavano le tedesche con il loro aspetto sconveniente. Tra di loro c'erano due o tre allievi, con i capelli lunghi, con dei lunghi colletti ripiegati.
«Salve... Non restate distante. Liszt vi ama molto», sussurrò velocemente la Timanova a Aleksandr Porfir'evic, ed egli, corpulento, calvo, semiingrigito, vestito in tussor di seta, presa sottobraccio una allegra e abbronzata danese, si mise a camminare assieme agli altri (mentre a Aleksandruska e Misa, che balenavano da lontano, cadevano lacrime di invidia, ma Borodín non vacíllò).
«Zum schwarzen Bären»... La gentilezza della baronessa Meyendorf, gli sguardi amichevoli della piccola Timanova, i discorsi, le risate, il silenzio improvviso alla prima parola di Liszt, di nuovo domande e inviti, e infine il ritorno generale a casa, a Weimar. Il capostazione comunica che per il maestro e le signore hanno attaccato un vagone speciale; Liszt, emaciato, stanco, se ne va nel proprio scompartimento. Il treno si muove, qualcuno butta delle ciliegie a Borodin, che è in piedi sulla píattaforma; egli agita il cappello: a domani! (Ma gli balena il pensiero che, eccetto quello da viaggio, non ha altro vestito. Ah! Dío mio, che scalogna!).
Si volta: quattro occhi seguono il treno che si allontana, Aleksandruska e Mísa con speranza e disperazione accompagnano a Weimar il grande ospite.
La città di Goethe e Schíller nei mesi estivi diventava la città di Liszt. Viveva qui, e la folla multilingue delle sue giovani allieve per tutto il giorno faceva risuonare il pianoforte attraverso le finestre aperte. Le lezioni, a una delle quali era stato invitato Borodín e per le quali Líszt non esigeva alcun pagamento dagli allievi, si svolgevano nel suo studio, dove tutti sedevano assieme, chi sul davanzale, chi sul divano, e ascoltavano assieme al maestro l'allievo di turno. Erano tutti riuniti, quando Aleksandr Porfir'evic entrò nella stanza e si rallegrarono rumorosamente con lui.
Vera soprintendeva a tutto. Era evidente che Líszt adorava la sua piccola Tímanova. La abbraciava, le carezzava la guancia, la portava a tutti come esempio, faceva tutto quello che lei voleva, e lei di tanto in tanto gli baciava la mano e civettava con lui, con Borodín, con gli allievi, sapendo che tutti la ammiravano e ammirandosi essa stessa. Suonava in modo tale che Borodin rimase tutt'orecchi. Amava i virtuosismi al pianoforte, una volta in una grande compagnia aveva esclamato a proposito di Nikolaj Rubinstejn: «Suona come un figlio di cane!».. E il modo di suonare della Timanova lo faceva tremare; nel profondo dell'animo invidiava Líszt.
Ma ecco che lo stesso Liszt si è seduto al piano. Si fece silenzio. Le tre finestre sul giardino erano spalancate, era una calda giornata estiva. Stava suonando una sonata di Chopín. Ogni volta suonava la marcia funebre in modo diverso e la Timanova sussurrò a Borodin: «Ríesce ogni volta a sbagliare in modo nuovo, che orígínale!».
Nessuno volle ascoltare le giustificazioni di Aleksandr Porfir'evic, perché non aveva l'abito di gala; con quello da viaggio, le scarpe impolverate, alla sera venne obbligato a presentarsi all'albergo della baronessa Meyendorf. La Timanova gli augurò buon viaggio, mentre egli chiamava in aiuto tutto il proprio coraggio: doveva suonare a quattro mani con Liszt.
«Liszt non mi permetteva di fermarmi - scriveva in Russía -; al termine di una parte, cambiava e diceva: 'Allez toujours'. Quando sbagliavo o non arrivavo alla fine, mi faceva notare: 'perché vi fermate, va così bene!'. Poi lui e la baronessa si sono messi a pregare con insistenza che io cantassi le mie romanze e gli mostrassi qualcosa dell'opera. Mi sono decisamente rifiutato di cantare, ma ho suonato il piccolo coro delle donne dall'Igor',.. Ero come ebbro e a lungo non sono riuscito a prendere sonno».
Anche la notte seguente non aveva potuto prendere sonno: di nuovo suonare, di nuovo tutti in quell'albergo sontuoso, e i candelabri, che i servitori in polpe portavano davanti agli ospiti, che entravano a due a due nella sala da pranzo, e i complimenti enfatici che gli prodigava il granduca, e Líszt, questa volta tirato a lucido e cerimonioso, tutto rafforzava la solennità e la pompa della serata. Nella sala enorme, tra i quadri, i bronzí e le reliquie, aveva ascoltato le proprie cose, suonate da Líszt, e non credeva che potessero essere quegli stessi suoni che un tempo egli stesso aveva timidamente accennato nel salotto di Balakírev.
Quindi, aveva suonato e cantato per loro il Mare.
«Ma dove, dove mai sono queste composízíoni? gridava Líszt - Chi è il loro editore? Perché io non le ho?».
«Ecco il tentativo di una nuova sinfonia», disse Borodin...
(Stasov la chiamava la 'leonessa', ma Borodin sapeva che non tutto era buono, che bisognava semplificarla, erano resti dell'entusiasmo per gli strumenti a fiato).
Líszt acoltava. Ascoltava anche il granduca, un uomo alto con un gilet bianco, guanti lilla e una croce sul petto, se per volontà del destino era diventato padrone di questa città, come avrebbe potuto esserlo di un altro ducato o contea tedesca. Sapeva come comportarsi con i geni, era tradizione della sua stirpe, che seppelliva i poeti nella stessa cripta delle teste coronate.
Anche Borodin si ascoltava, non gli era mai capitato prima di suonare in una situazione così solenne, assieme a un semidio. Faceva del suo meglio, come un allievo, maledicendo in quegli istanti e l'insufficienza della propria tecnica di pianista, e tutto quanto nella vita gli aveva impedito di essere un vero musicista.
«Che bello», disse Líszt, quando ebbe finito, «che meraviglioso musicista russo mi sta davanti».
... Il treno lo portava lentamente a casa, attraverso Jena, Berlino, Eydtkuhnen, ma il pensiero correva sempre indietro, sforzandosi di completare, di correggere quello che gli era successo, ma, come un sogno, queste due settimane restavano immutabili, írrípetíbili; esse diventavano solamente sempre più díafane, illusorie; lentamente, pesantemente Píetroburgo gli si avvicinava con gli affari, le preoccupazioni, le avversità e sapeva di già che non avrebbe potuto trattenere per intero in sé il ricordo di quest'uníca festa nella sua vita. Ecco, come accade sulla banchina (mentre il vapore già se ne va, se ne va, e non c'è ritorno!), erano balenate le mani della Tímanova, con le quali aveva suonato per lui l'Islamej; ecco che era risuonata la voce chiara e allegra del vecchio canuto, con il colletto da ecclesiastico, e quegli occhi unici al mondo lo avevano passato da parte a parte ...
E tutto era scomparso nella nebbia di Pietroburgo.
Nina Berberova (tratto da "Genio e regolatezza", Passigli Editori, 1993)
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