Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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sabato, settembre 01, 2012

Yes: Tales from Topographic Oceans

"Tales from Topographic Oceans" - Yes (1973)
Scrivere un concept album è una sfida ambiziosa. La sfida si complica quando si sente che per portare a termine il proprio progetto è necessario estendere la propria creatività in un doppio album. Considerate la portata del progetto quando la modalità espressiva del progetto stesso è la musica progressive. Infine considerate le complicazioni che derivano dall’affrontare l’ipercomplessità degli aspetti della vita attraverso un’ottica mistica, sfuggente ed estranea alla cultura occidentale quale quella proposta da Paramhansa Yoganada nel suo libro “Autobiografia di uno Yogi” (libro a cui si ispira il presente album).
Per fare tutto questo non basta un’ambizione enorme ma anche è necessario un talento fuori dal comune. Gli Yes, dopo aver creato lo splendido “Close To The Edge”, sentirono di poter portare ai limiti estremi le loro capacità e decisero di comporre il mastodontico “Tales From Topograhic Oceans”.
La scintilla per la creazione di questo album scaturì dalla lettura che fece Jon Anderson, cantante della band, del già citato “Autobiografia di uno Yogi”: una parte di questo libro descrive le quattro scritture shastriche che coprono i più svariati aspetti della vita umana fungebndo da spunto per altrettanti movimenti musicali, di circa venti minuti ciascuno, che delineano lo scorrere maestoso di questo album.
Le note dell’album gettano ulteriore luce sulla creazione dell’album descrivendo un iniziale incontro creativo di circa sei ore fra Jon Anderson e Steve Howe, chitarrista della band, i quali posero le basi concettuali, liriche e melodiche del futuro album in una stanza d’albergo, durante la notte rischiarati dal lume di una candela. Dopo una notte creativa così esaltante coinvolsero il resto della band per sviluppare ulteriormente il materiale scaturito dalla jam iniziale e definire gli arrangiamenti della musica durante i cinque mesi successivi.
Parlare delle quattro suite che formano l’album con delle note generiche è estremamente riduttivo soprattutto perché ognuna di essa è estremamente eterogenea al proprio interno: ritengo necessario arrivare ad una descrizione dell’album attraverso i momenti diversi delle varie suite.
Il primo movimento è “The revealing Science of God, Dance Of The Dawn”. Le note dell’album ci ricordano che “la conoscenza di Dio è ricerca costante e chiara”. La parte iniziale della suite è dominata dal crescendo vocale di Anderson che nella parte finale diventa maestoso anche grazie all’inserimento delle voci di Squire, bassista e fondatore della band, di Howe e delle tastiere di Wakeman. Siamo in presenza di un’introduzione in cui la presenza delle parole è estremamente serrata, sfociando in un eccesso di “verbosità” necessaria ad introdurre i temi mistici dell’album. La batteria di White introduce la successiva parte strumentale in cui, come d’abitudine per gli Yes, i diversi strumenti seguono linee melodiche e ritmiche che si intrecciano una sull’altra. Qui inizia quella che può essere definita come una classica canzone degli Yes, con dei pregevoli cambi di tempo e una buona varietà di melodie che si legano ed alternano (qualcuno con le melodie di questa parte potrebbe ricavarci almeno tre canzoni). La successiva parte inizia con la ritmica incalzante di Squire e White su cui si ergono la voce di Anderson e la chitarra di Howe. Ma è solo un breve sussulto perché le atmosfere si fanno ben presto più delicate ed eteree. Howe e Wakeman lasciano il segno con fraseggi delicati ed ispirati prima di lasciare spazio alla voce evocativa di Anderson. Ricomincia il fraseggio che però si evolve ancora verso passaggi forse un po’ meno ispirati. Le “acque” si placano nuovamente portando gli Yes verso uno dei momenti più ispirati dell’album. I suoni sono liquidi, la ritmica rarefatta e misurata, e le splendide melodie sono messe in risalto dalla voce intensa di Anderson. Improvvisamente si accendono i veloci contrappunti ritmici della band su cui si erge un feroce ed ispirato assolo di Wakeman. In questo punto si ripetono alcuni motivi già presentati per poi sfumare delicatamente e portare a conclusione la suite.
Il secondo movimento è “The Remembering, High The Memory”. “Tutti i nostri pensieri, le nostre impressioni, le nostre conoscenze e paure sono state sviluppate nell’arco di milioni di anni. Tutto ciò può essere legato al nostro passato, alla nostra vita, alla nostra storia… la profondità del nostro sguardo interiore”. Si ripercorre la “Topografia dell’oceano”. Gli arpeggi di Howe si uniscono alle melodie di Wakeman per poi accogliere gradualmente prima Anderson e poi Squire. E’ un inizio di grande atmosfera, col difetto però di essere un po’ monotono. La musica diventa più varia e, con l’entrata in scena della batteria di White, il ritmo si fa leggermente più sostenuto: è il primo gradino verso gli ulteriori cambi di ritmo successivi. Questo passaggio strumentale è uno dei più belli della suite ed è dominato costantemente dai dolci fraseggi di Howe e Wakeman. Il ritmo sale e in questo passaggio la suite è sostenuta principalmente da Howe che in alcuni passaggi fa risuonare in modo molto interessante gli armonici della sua chitarra acustica (ce da aspettarselo però dall’autore di “Clap” e di “Mood for a day”). Siamo in presenza di un breve ponte strumentale creato per portare al passaggio successivo. Qui la band accelera ulteriormente esaltando il fantasioso basso di Squire. Un ulteriore ponte strumentale, di buona fattura, ci riconduce ai temi musicali. Gli Yes qui raggiungono vette incredibili: uno dei passaggi strumentali più evocativi che abbia mai sentito in ambito progessive. La suite conduce verso la fine con una breve canzone, che rischia di sfigurare dopo la prestazione precedente, e si conclude con un passaggio strumentale.
Il terzo movimento è “The Ancient, Giants Under The Sun”. Questo brano ci porta a ripensare “alle bellezze e ai tesori delle antiche civiltà” … le quali “ci hanno lasciato un immenso tesoro di conoscenze”. La suite inizia con le percussioni di White a cui si aggiungono in un primo momento i riff di Wakeman e di Squire, e in un secondo momento, la chitarra slide di Howe. Non posso nascondere una certa antipatia per questo introduzione perché, a mio modesto avviso, sembra un riempitivo, frutto più del mestiere che dell’ispirazione. Il livello sale un po’ in questa fase, anche se siamo lontani ancora dai migliori Yes. Alternandosi a delle brevi parti strumentali si susseguono un accenno di canzone che prosegue con un ritmo che ricorda una marcia e una parte in cui Anderson, favorito dal ritmo molto squadrato del pezzo, “elenca” diversi modi di dire “sole” in diverse lingue. Da questo punto inizia una lunga parte strumentale in cui l’ispirazione della suite, già abbastanza debole fino ad ora, sembra tornare quasi ai livelli dei primi minuti: per carità, grandissimo mestiere, ma sembra che questa parte sia stata realizzata “raschiando il fondo del barile”. Fortunatamente da questo punto in poi la suite comincia a prendere quota vigorosamente: Steve Howe incanta con i suoi arpeggi e fraseggi suonati in polifonia, facendo tornare in mente una perla racchiusa nell’album “Fragile”, “Mood For A Day”. La voce di Anderson si adatta perfettamente a questa atmosfera “acustica”, con un’ interpretazione calda e romantica.
Il quarto movimento è ”Ritual, Nous Sommes Du Soleil”. “Sette note di libertà per imparare e conoscere il rituale della vita. La vita è una battaglia fra sorgenti maligne e di puro amore”. La quarta suite inizia con una parte strumentale che apre l’immaginazione verso grandi paesaggi, interrompendosi però a tratti con brevi ma belle accelerazioni. Questo punto si apre con un strumentale che lentamente tesse le basi per il canto di Anderson. Durante tutta questa parte notate il modo di rifinire e di abbellire con misura il brano da parte di Squire e Howe: questi musicisti sono davvero dei modelli a cui ispirarsi. Da questo punto comincia una strumentale che si apre su atmosfere eteree per poi cambiare decisamente registro e lasciare spazio a uno splendido assolo di basso di Squire seguito da uno dei più aggressivi e feroci assoli mai eseguiti da Howe. Segue un’altra parte strumentale dominata dalle percussioni di White, che richiama alla mente la “battaglia fra sorgenti maligne e di puro amore” di cui si parla nelle note. La chitarra di Howe ci riporta ai motivi già presentati per poi terminare in un emozionante assolo finale.
Il viaggio è finito, ed è stato un percorso lungo e intenso a cui sono molto legato. Per concludere, siamo in presenza di un album non esente da difetti, ferocemente criticato da alcuni (amanti del punk in testa), spesso definito “elefante privo di vitalità” e “degenerazione della musica progressive” (anche di “The Lamb Lies Down On Broadway” dei Genesis alcuni continuano a parlarne in questi termini) altri invece lo amano incondizionatamente.
Secondo me è un album che ha bisogno di molti ascolti e di molto tempo per poterne apprezzare la complessità e la bellezza: non so se tutti siano disponibili a dedicare tanto tempo ad un album, ma vi assicuro che ne vale la pena. Inoltre se fosse stato “asciugato” di circa 15 minuti sarebbe stato l’album più bello degli Yes.
Nel 1973 ardeva un fuoco creativo incredibile…

shine (www.debaser.it)

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