Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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venerdì, maggio 23, 2014

Elektra: «Questo deve essere un giardino zoologico»

Elektra (Frederic Leighton)
Richard Strauss giganteggia nel teatro musicale europeo della fin de siècle grazie a due fra i massimi capolavori di quegli anni, Salome (1905) e Elektra (1909), vere e proprie sfide al sistema produttivo per l’impegno ai limiti del possibile (e più spesso oltre) richiesto a tutti gli interpreti. Il lettore che voglia rendersene conto senza preamboli apra le rubriche dedicate all’orchestra e alle voci in questo volume, prima di scorrere la guida all’opera di Riccardo Pecci, che affronta la sterminata partitura (un tour de force per l’esegeta) con acume e passione.
La sfida a monte postulata dal progetto ambizioso di Strauss era quella di affrontare un soggetto imprescindibile del teatro occidentale, misurandosi con la fonte del mito, il dramma di Sofocle, tramite l’adattamento per le moderne scene tedesche che Hugo von Hofmannsthal aveva proposto con molto successo a Berlino nel 1903. Il rapporto incrostato di intertestualità fra la tragedia antica e quella moderna, che ne attualizza lo spirito, viene affrontato nelle pagine seguenti da Guido Paduano, grecista e filologo insigne, ma soprattutto studioso di drammaturgie comparate capace di svelarne le caratteristiche più profonde. Nel saggio d’apertura Jürgen Maehder, specialista della fin de siècle musicale, mette in rilievo le principali peculiarità drammaturgiche di Elektra partendo dal suo genere, la Literaturoper («il cui libretto coincide con una fonte letteraria preesistente, eventualmente un po’ abbreviata»), per addentrarsi nel laboratorio di Strauss, valutando l’importanza di schizzi e abbozzi nel processo compositivo, spesso confermato dalla partitura finita. Anche in questo saggio balza agli occhi il peso decisivo dell’orchestrazione, vero e proprio parametro dello spettacolo che fa assurgere istanze proprie della tecnica a specificità drammaturgiche.
Maehder mette in rilievo il ruolo per la nascita di Elektra di Gertrud Eysoldt (la si veda a p. 14 ritratta da Lovis Corinth), attrice fra le più talentose nel teatro tedesco tra Otto e Novecento, e del regista Max Reinhardt, determinante nel qualificare le nuove tendenze non solo del teatro di parola, ma anche di quello lirico. L’interpretazione della Eysoldt, prima Elettra nel dramma di Hoffmannsthal, fu tra i fattori che eccitarono maggiormente la fantasia creatrice di Strauss. Come non ricordare due muse ispiratrici come Eleonora Duse e Sarah Bernhardt, protagoniste riconosciute delle scene di quegli anni, e l’impulso creativo che la Bernhardt, in particolare, trasmise in occasione di Tosca a Giacomo Puccini, quando vide la pièce di Sardou nel 1889 e nel 1895?
Questo dato lega Strauss e Puccini a un evento performativo capace di mettere in movimento la loro ispirazione e sollecita una breve riflessione sulle relazioni fra i due artisti così come vengono alla luce osservando le protagoniste vocali del tempo. Gemma Bellincioni Stagno, acclamata interprete dei veristi, fu tramite decisivo, ad esempio, per la penetrazione del teatro di Strauss in Italia agendo come Salome per la prima volta al Regio di Torino il 23 dicembre 1906 sotto la bacchetta dell’autore, mentre la Scala produceva l’opera negli stessi giorni sotto la direzione di Arturo Toscanini, con Salomea Krusceniski (26 dicembre). Quest’ultima era stata Butterfly nella ripresa del maggio 1904 a Brescia, e avrebbe sostenuto la parte della protagonista anche nella prima italiana di Elektra a Milano, il 6 aprile 1909, appena tre mesi dopo la prima assoluta (la si veda in questo volume, statuaria e affascinante nel ruolo, a p. 126). Ebbe inizio allora una vera e propria osmosi fra interpreti pucciniane che ebbero poi a primeggiare nel teatro di Strauss e viceversa. Basti ricordare che Maria Jeritza, acclamata come Tosca (1921) Minnie (1913) e Giorgetta (1920), era stata protagonista delle prime assolute di Ariadne auf Naxos (1912 e 1916) e della Frau ohne Schatten (1919), e s’esibì con successo in Salome e Der Rosenkavalier (Octavian) al Metropolitan a partire dal 1921. Emmy Destinn, Minnie a New York nel 1910, era anch’essa una Salome di grido; Selma Kurz passò da Zerbinetta nella versione rifatta dell’Ariadne (1916) a Tosca (1923); e la grandissima Lotte Lehmann, Sophie nel Rosenkavalier ad Amburgo (1911) e poi memorabile Arabella (1933), fu negli anni Venti una stupenda Suor Angelica, non senza eccellere, con la piena approvazione dell’autore, anche come Manon a Vienna nel 1923, Tosca e Liù (in questo ruolo cantò assieme alla Jeritza/Turandot nel 1926).
Il mondo musicale tedesco aveva finalmente prodotto quell’operista in grado di primeggiare nei favori del pubblico internazionale, ed era naturale che Puccini avvertisse la rivalità. Ragion per cui l’ostilità che trapela in queste poche righe indirizzate a Giulio Ricordi da Napoli il 2 febbraio 1908 somiglia a quell’antipatia che Mahler ebbe più volte a dimostrargli:
 
Ieri capitai colla première di Salomé diretta da Strauss e cantata (?) dalla Bellincioni la quale danza a meraviglia. […] Strauss, alle prove, nell’incitare l’orchestra ad un’esecuzione rude e violenta disse «Miei signori, qui non si tratta di musica! Questo deve essere un giardino zoologico.Forte e soffiate negli strumenti!». Storico!

Fortunatamente Puccini non si limitò all’astio, e fino a che visse seguì sempre con attenzione Strauss, che fu per lui l’unico serio concorrente. Ad onta dell’obiettiva differenza nel linguaggio armonico e orchestrale, Strauss e Puccini ebbero in comune l’attenzione quasi esclusiva per le protagoniste femminili e lo scaltrito impiego del Leitmotiv, ma soprattutto il senso del dramma e l’istinto per il coup de théâtre (anche quando veniva applicato a soggetti di natura affatto diversa). E in fondo, insieme a Massenet, Janácek eBerg, Puccini e Strauss furono tra gli ultimi autori a possedere un autentico istinto per la narrazione in musica, tradotto in una serie di opere che rappresentarono l’estremo atto di fiducia nel genere tradizionale, condotto sino all’esaurimento delle proprie risorse.

Michele Girardi (2008, Teatro La Fenice)

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