“Nel 1969 conoscevo tutto di Menotti: le sue composizioni, i suoi successi, i suoi problemi con la critica italiana...”.
«Nel corso della mia carriera ho frequentato Giancarlo Menotti solamente in tre occasioni e ogni volta mi sono arricchito di qualcosa sia sul piano artistico sia su quello umano.
Il primo incontro risale al 1969 (mamma mia quanto tempo fa!) scritturato dal Festival di Spoleto per il ruolo di Mustafà nell’Italiana in Algeri di Rossini. La cittadina umbra era regno incontrastato del compositore italo-americano, da quando, nel 1958, egli aveva ideato il Festival dei Due Mondi, manifestazione che ha dato a Spoleto lavoro, ricchezza e fama. Senza il Festival e ovviamente senza Menotti, Spoleto sarebbe come tanti altri piccoli centri della nostra Italia, belli e preda del turismo “mordi e fuggi”. Anzi oggi, in piena crisi turistica, più “fuggi” che “mordi”. Non so che cosa Menotti abbia individuato in Spoleto e nelle antiche bellezze dei luoghi; di sicuro lo stimolò l’idea di un’affascinante avventura: far restaurare dei teatri, scovare, tra tante testimonianze, luoghi in cui fare musica e teatro.
Durante i giorni dedicati alle prove, accanto a colleghi quali Patricia Kern, Isabella, Piero Bottazzo, Lindoro, Alberto Rinaldi, Taddeo, incontro due o tre volte per le strade e le piazze di Spoleto Menotti girovagante in maniche di camicia con le spalle, il nasone aristocratico fendente l’aria quell’anno, a dire il vero, assai scarsa ché il caldo era soffocante. Naturalmente non ho il coraggio di avvicinarlo, anche perché il compositore era attorniato da anziane signore, certamente straniere le quali, al piacere di incontrarlo e all’onore di parlargli, emettevano acuti gridolini che l’accento americano rendeva più striduli. Il baritono Rinaldi mi traduceva quello che le dame (Spoleto allora ne aveva tante e con tanti dollari) dicevano a Menotti: “Caro Maestro, ricorda due anni fa a New York?” oppure: “Maestro Giancarlo ricorda cinque anni fa proprio qui a Spoleto?” e il Maestro, grande attore: “Yes... yes...” con tutta l’apparenza della sincerità.
Un altro giorno incontro il Maestro nel suo meditabondo girovagare che guarda con fissità un mattone spostato, un balcone fiorito, un negozio chiuso, proprio nel momento in cui è fermato da un allampanato signore di mezza età che, ancor prima di incrociarlo, gli rivolge il solito “Si ricorda di me?” Rimango esterrefatto dalla risposta secca del Maestro: “No, non mi ricordo di lei!” Menotti prosegue lasciando di stucco il malcapitato. Poiché un attimo prima dell’incontro stava canticchiando sottovoce presumo che lo sconosciuto signore gli abbia disturbato la scoperta di un motivo, di una bella melodia per una composizione. Seppi poi che l”’allampanato” altri non era che un famoso critico poco gradito al Duca.
Nel 1969 conoscevo tutto di Menotti (o quasi): le sue composizioni operistiche, i suoi successi, i suoi problemi con la critica, soprattutto quella italiana che non l’apprezzava molto. Per di più non è che i nostri teatri facessero a botte per allestire le sue opere. E queste forme di ostilità sono sempre state la sua spina nel cuore. Sapevo anche dei suoi capricci che sfogava soprattutto a Spoleto, come la pretesa che le campane del Duomo tacessero perché disturbavano la sua pace domestica. Le campane tacquero. Durante le prove si lavorava come matti con quel pazzo di Patrice Chéreau, rampante regista sessantottino che a me pareva un genio, un vero fiume di idee. Ed ecco Menotti arrivare in teatro, insieme a un giovane assistente segretario, l’immancabile golf a dargli l’aria di finto casual, la solita aria stralunata. Ha in mano un libro troppo piccolo perché possa leggerne il titolo senza farmi notare. Infatti, dopo alcuni inutili tentativi, il Maestro.con fare allegro mi sbatte sul muso la copertina: “Ecco, leggi - mi dice – visto che sei così curioso”. Consigli per vivere felici di... non ricordo più chi (forse Seneca?). Bel titolo, anche utile, penso, ma sono convinto che Menotti, in fatto di vita felice, potrebbe dare lui stesso consigli all’autore. “Vedo che ti piacciono i libri - dice - toh, te lo regalo”. E mi allunga il voIumetto finemente rilegato “Ma guarda - continua - non prenderlo molto alla lettera. Per essere felici non si ha bisogno di consigli. Si nasce felici, e basta…”. A questa gentilezza scorgo negli occhi del supposto segretario (più avanti saprò trattarsi di un laureando che vuole fare la tesi sul Maestro) una punta di gelosia subito dissolta non appena resosi conto che non potevo rientrare nei gusti estetici del Maestro. Notai anche che il ragazzo, alquanto belloccio, gli ricordava date, fatti, impegni, nomi mentre, a ogni frase del compositore, prendeva appunti.
Così le voci su un Menotti distratto e smemorato prendevano corpo. Le sue ruffianate alle signore sui selciati di Spoleto erano veramente false. Una piccola parentesi: sono anni che cerco disperatamente negli angoli più nascosti della mia biblioteca il volumetto menottiano senza trovarlo. La stessa sera il Maestro invita tutta la compagnia di canto e Chéreau a Palazzo Campello dimostrandosi un perfetto anfitrione: simpatico, loquace quanto basta, spiritoso, ride spesso di se stesso, soprattutto della sua memoria. E sentendolo parlare e raccontare molti aneddoti della sua vita, mi viene da pensare: “Ma come fa quest’uomo a vivere in Scozia, al freddo in un castello dove dicono ci sia anche un fantasma se ama tanto stare al sole come una lucertola?” Mah! A tavola tratta tutti con affabilità mantenendo la conversazione a un notevole livello di ironia sull’Arte e sulla Vita come sulla Morte. Alla signora Morte accenna spesso, certo per scaramanzia.
Appena viene a sapere che sono di Mantova mi racconta che con la mia città aveva preso contatti per un festival, prima di giungere a Spoleto. Ma i mantovani, sempre maestri nel dire di “no” e nel farsi sfuggire le occasioni, sempre colpiti da pigrizia cronica avevano tergiversato e perso, come si suol dire, il treno. Non chiesi con chi avesse avuto i contatti, tanto non l’avrebbe ricordato, mentre chiudeva il discorso: “Meglio così, troppo caldo umido, troppe zanzare”. Poi, vedendomi unpo’ mortificato, cercò di rimediare alla gaffe continuando: “Ma Mantova è così bella che non ha bisogno di un Festival per farsi ammirare”. “Sì - pensai tra me - Mantova è così bella ma anche tanto vuota”.
Nel 1969 il Festival dei Due Mondi di Spoleto compiva il suo undicesimo anno di vita con Verdi e Daudet, De Falla e Berio, Prokofiev e Rossini, Donizetti e Henze. In tutti questi anni grandi nomi alla ribalta: Visconti e Jerome Robbins, Rossellini e Carla Fracci, Paolo Stoppa e Zeffirelli, Patroni Griffi e Richter, De Lullo e Romolo Valli, scusate se è poco, oltre a tanti, tantissimi giovani talenti molti dei quali spariranno in seguito nell’inesorabile setaccio del teatro ma altri, quali ad esempio Thomas Schippers, Patrice Chéreau, Luca Ronconi e Bruno Campanella diventeranno qualcuno. Nei primi anni del Festival il suo creatore stette un po’ in disparte come compositore poi, piano piano, le sue creature ebbero peso crescente nel programma musicale. Proprio nell’anno del mio debutto a Spoleto ascoltai rapito la sua Medium, regia dell’autore, scene e costumi di Samaritani. direzione di Campanella che già si capiva sarebbe diventato un grande ed estroso direttore. L’opera di Menotti, abbinata a El retablo de maese Pedro di De Falla, mi piacque molto perché se anche la musica poteva suscitare dubbi e sospetti la resa teatrale era perfetta. Secondo il mio modesto parere la musica di Menotti non ha nulla da spartire con quella di Puccini, come imputatogli da molti: è invece la toccante drammaturgia che più si avvicina all’autore di Tosca. Inutile dire che la serata De Falla-Menotti fu un vero trionfo per tutti e il Duca di Spoleto, all’apparire al proscenio, fu salutato da un frenetico applauso di entusiasmo. Gli strilli delle solite dame furono coperti dagli applausi del pubblico.
L’infittirsi di allestimenti menottiani a Spoleto si pensa sia stato voluto dal compositore per compensare l’immotivata esclusione delle sue opere dai teatri italiani. Erano gli anni nei quali i suoi melodrammi avevano un enorme successo di pubblico mentre le composizioni della cosiddetta avanguardia (molte di queste opere poi, improvvisamente invecchiate e ora improponibili) erano sistematicamente fischiate. “Ah, voi bandite dai vostri teatri le mie creature? – avrà pensato Menotti - e io le faccio eseguire al “mio” Festival”. Detto fatto».
di Enzo Dara ("Personaggi in chiave", Azzali, 2004)
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