Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, agosto 14, 2009

Igor Stravinsky: La Messa

Prologo
Musica sacra.
Un’espressione corrente, che indica abitualmente la musica destinata ad un utilizzo liturgico. Nel senso comune, tuttavia, il termine sacra tende ad assumere subito un peso esorbitante rispetto a quel significato puramente funzionale. Quasi che l’intima familiarità con la Parola divina carichi i suoni di un’insondabile profondità, la faccia in qualche modo partecipare al Mistero di Dio.
Accostarsi così, da autore, al compito di creare una pagina musicale sacra può essere un compito da far tremare i polsi; tale da richiedere - forse - una preparazione in fervente preghiera, come accadeva agli antichi iconografi bizantini.
Per secoli, musicare i testi canonici della messa è stato un compito svolto da compositori legati da un vincolo professionale pressoché esclusivo con la Chiesa (non importa se cattolica, come nel caso di Palestrina o Mozart, o luterana come per J.S. Bach). Musicisti che - per una parte rilevante della propria vita - si sono identificati con il servizio alla Parola divina. Musicisti che in alcuni casi (e pensiamo ancora una volta a Bach) hanno concepito - in una visione evidentemente ancora integrale della fede - il loro fare musicale come parte assolutamente integrante della propria vita cristiana.
In alcuni casi - al contrario - il musicare i testi della messa ha costituito semplicemente la testimonianza di un fugace erompere del senso religioso in animi, fino a quel momento (e, a volte, dichiaratamente), lontani da una reale fede cristiana. Pensiamo alla Missa Solemnis di Beethoven o a Giuseppe Verdi che - profondamente, e personalmente, colpito dalla morte di Alessandro Manzoni - scrive la sua drammatica, e popolarissima, Messa da Requiem.
Accostandoci invece alla Messa per coro e doppio quintetto di fiati, scritta tra il 1944 il ’47 da Igor Stravinskij, le cose cambiano. Ci troviamo, infatti, di fronte ad un unicum sia per quanto riguarda la sua genesi sia per il ruolo che questo capolavoro ricopre nel panorama musicale del Novecento, così povero di opere sacre di significativo spessore artistico.
Ci troviamo di fronte ad un evento singolare anche nello spazio - in verità, circoscritto - della produzione religiosa del compositore. La Messa, infatti, si colloca come punto nodale tra i primi lavori sacri, che ricalcano - anche stilisticamente - la secolare tradizione musicale ortodossa, e le composizioni religiose dell’ultimo decennio di vita, nelle quali l’elaborazione musicale (basata in prevalenza sulla tecnica dodecafonica “scoperta” da Stravinskij nei suoi anni americani) assume alti livelli di complessità e di astrazione simbolica. Vedremo più avanti il ruolo che l’Autore attribuirà a questi ultimi, specifici elementi costruttivi.

L’autore
Igor Stravinskij (Oranienbaum, Russia, 1882 - New York, 1971) non può certo essere annoverato tra i grandi musicisti “sacri” del Novecento, per lo meno dal punto di vista puramente quantitativo (scrisse circa una dozzina di brani di carattere religioso, metà dei quali nell’ultimo decennio di vita).
Autore dal controverso ma folgorante successo con lavori sinfonici del calibro dei balletti Petrushka (1911) o La Sagra della primavera (1913), Stravinskij ci si presenta con l’aspetto di un onnivoro uomo di mondo, ugualmente a suo agio a Parigi come a New York, a Losanna come a Los Angeles.
La sua storia pubblica è quella del costituirsi progressivo di un mito: quello di un compositore capace di passare, nel giro di pochi anni, da brani ritenuti allora assolutamente sperimentali (o, per qualcuno, barbari) a ciò che superficialmente potrebbero apparire come semplici riesumazioni del passato.
Un autore, per qualcuno, in grado di assimilare e riproporre in modo assolutamente personale tutta la storia musicale precedente; per altri un irresoluto, eterno fanciullo che ha saputo mantenere con la musica un rapporto esclusivamente ludico e forse - si vuol fare intendere - leggermente irresponsabile.
Un personaggio pubblico che passa con disinvoltura dai doveri di una cattedra all’Università di Princeton, alla tavola del Presidente John Fitzgerald Kennedy (in memoria del quale scriverà poi, nel 1964, Elegy for JFK).
Sotto questo turbinoso viaggiare, emigrare, dirigere, comporre, scrivere saggi, apparire e scomparire, si muove tuttavia un fiume sotterraneo, invisibile e potente, che a tratti emerge con forza producendo eventi (musicali e non) inattesi. Accadimenti che possono assumere aspetti e valenze apparentemente diversi ma riconducibili tutti alla forza di quel flusso nascosto.
Il primo di questi eventi - ben lungi dal costituire un fatto unicamente interiore e privato - è il suo ritorno, all’età di 44 anni, alla fede cristiana. Dopo essersi allontanato, come anche oggi tanto spesso accade ai più giovani, dalla pratica religiosa (si deve peraltro riconoscere che la sua educazione non era stata ispirata ad una religiosità particolarmente sentita) nel 1926 “riscopre” la Chiesa Ortodossa Russa, nella cui fede ogni buon russo si era per secoli riconosciuto.
La sua conversione ha, probabilmente, anche a che fare con la frequentazione del circolo parigino di artisti e intellettuali che faceva capo al grande filosofo cattolico Jacques Maritain, come pure con la profonda esperienza religiosa che lo investì durante la sua visita al Santuario di S. Antonio a Padova, sempre nel 1926. Il “concreto” Stravinskij definirà quel momento come “l’esperienza più reale della mia vita”.
Da quel momento in poi, il fitto e multicolore tessuto della sua produzione sarà periodicamente rischiarato da gemme rare e luminose: le sue composizioni sacre (o, comunque, di ispirazione religiosa).
La serie si apre con il Pater Noster del 1926, seguito da un Credo e da un’Ave Maria (i tre pezzi furono pubblicati con la dicitura “per l’Ufficio Divino” e mostrano i caratteri più tipici della musica liturgica russa: quella di Alexander T. Gretchaninov, per esempio) e giunge subito ad un clamoroso culmine con la Sinfonia di Salmi in tre movimenti (1930), nata da una commissione ricevuta per il cinquantesimo anniversario della Boston Symphony Orchestra. Alla rituale richiesta del suo editore di scrivere un pezzo “popolare”, Stravinskij rispose scegliendo di utilizzare - all’interno di un lavoro sinfonico - il testo del Salmo 150, ritenendolo popolare nel senso di qualcosa di universalmente ammirato. Non era secondario, in questa scelta, neppure l’orgoglio di dimostrare quale uso si potesse fare di un testo tanto elevato che - secondo lui - nelle mani di molti compositori era stato un puro e semplice “aggancio per i loro sfoghi lirico-sentimentali”. Il risultato fu la grandiosa e severa Sinfonia che porta la dicitura “composta per la
gloria di Dio” (come non pensare al Soli Deo Gloria che Bach premetteva a molte delle sue composizioni, non importa se profane?).
Nulla per ora, tuttavia, che apparisse seriamente implicato con un’effettiva collocazione liturgica delle composizioni.

La genesi
Sappiamo che l’idea di comporre la Messa venne a Stravinskij come reazione istintiva ad alcune messe di Mozart, scovate a Los Angeles nel ’42 in un negozio di libri di seconda mano. Lo stile mozartiano gli apparve “rococò e operistico”; le messe come “dei dolci peccatucci” musicali. Esattamente il contrario di ciò che, nella sua mente, avrebbe dovuto essere una vera messa. A questa istintiva repulsione, si univa l’impressione di completa decadenza che il compositore ricavava dalla musica sacra ascoltata nella chiesa ortodossa di Nizza, città nella quale soggiornò prima del trasferimento a Parigi (1920).
A composizione della Messa per coro e doppio quintetto di fiati ultimata il compositore, da buon neoconvertito, si schermirà affermando di “non conoscere alcunché della musica liturgica ortodossa di quei tempi” e ciò gli sarà di occasione per chiarire che “probabilmente le parti della Messa fondono ricordi infantili della musica sacra a Kiev e Poltava, con lo scopo cosciente di aderire ad uno stile armonico semplice e severo”.
La scelta di comporre - lui di fede ortodossa - una messa cattolica può apparire eccentrica (ed avvalorare, quindi, la patente di leggerezza e irresponsabilità di cui si è già detto), ma le motivazioni sono serie, tenendo anche conto del fatto che l’opera è una delle sue pochissime nate indipendentemente da commissioni esterne, ma solamente per una personale esigenza interiore.
Innanzitutto, la Chiesa ortodossa non ammetteva - e non ammette - l’uso degli strumenti musicali nella liturgia (fatta eccezione per le campane divenute, nei secoli, il simbolo sonoro della Russia cristiana stessa) e Stravinskij non poteva tollerare la musica sacra a cappella, senza accompagnamento strumentale, se non in uno stile - a suo dire - “armoniosamente primitivo” (riferendosi, probabilmente, al Canto Gregoriano e ai primi esempi di polifonia medioevale).
Più interessante, e decisiva, è invece la seconda ragione: la sua dichiarata aspirazione a scrivere un brano non destinato al mondo concertistico, bensì ad un reale ed esteso impiego liturgico. Per questo, il compositore mette in musica unicamente i testi delle preghiere comuni a tutto l’anno liturgico, il cosiddetto Ordinario: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei.

Le idee, i fatti
Eccoci, allora, finalmente di fronte ad uno di quei punti emergenti del fiume sotterraneo che ribolle al di là - e al di sotto - della consapevolezza dell’Autore stesso.
Alcuni passi erano però ben chiari alla sua coscienza.
Innanzitutto, la sua Messa non avrebbe dovuto rivolgersi al mondo delle emozioni e dei sentimenti (proprio questo egli rimproverava alle messe mozartiane!), bensì “direttamente allo spirito” dell’ascoltatore (e quindi, nelle sue intenzioni, del fedele). Per riuscirci, il compositore sentiva di dover scrivere una musica “fredda, assolutamente fredda”.
L’idea che l’affettività, la carnalità possano costituire un ostacolo ad un’autentica esperienza di fede ci lascia probabilmente un po’ perplessi. Nei fatti, siamo stati redenti attraverso il dolore, il sudore e il sangue di Gesù Cristo nato dal ventre di Maria: se tutto ciò si può chiamare puramente spirituale… Ma, probabilmente, nell’animo di Stravinskij prevalevano indirizzi più astratti e “parigini”.
In secondo luogo, la sua Messa, per essere “realmente liturgica”, avrebbe dovuto essere “quasi priva di ornamenti”. Con questo, il compositore sentiva di dover prendere le distanze dai grandi esempi monumentali che incombevano dal passato (la Messa in Si minore di Bach, la Missa Solemnis di Beethoven e - naturalmente! - la Grande Messa in Do minore di Mozart) a favore di qualcosa di più modesto e familiare.
Il suo lavoro avrà così una “ragionevole” durata di soli 17 minuti circa.
Terzo, la composizione della Messa non fu mai concepita come un solitario (seppur alto) atto di fede individuale, ma come servizio funzionale alla certezza della fede. Sono particolarmente illuminanti, a questo riguardo, le affermazioni di Stravinskij stesso: “Nel musicare il Credo volevo proteggere in modo particolare il testo. Come si compone una marcia per facilitare chi sta marciando, così io spero con il mio Credo di fornire un aiuto al testo. Il Credo è il tempo più esteso. C’è molto da credere”. Così, come nelle migliori intenzioni controriformistiche, il testo liturgico è sempre integralmente rispettato e reso facilmente comprensibile, anche nei punti di maggior complessità della polifonia.

L’opera
Detto - come già sopra - che l’Autore mette in musica unicamente i testi dell’Ordinario, mille sarebbero i particolari da mettere in luce all’interno delle cinque parti che formano l’opera completa; lavoro di una ricchezza e di una sapienza costruttiva che - ad un primo ascolto - possono anche risultare non immediatamente evidenti.
Cercheremo quindi di evidenziare alcuni aspetti di carattere globale che ci possano aiutare a percepire la Messa di Stravinskij nella sua assoluta originalità, e in tutto l’enorme valore artistico che le è proprio.
Chi vorrà poi dedicare del tempo ad un ripetuto ascolto - o chi vorrà prendere in mano la partitura, facilmente rinvenibile nei negozi musicali - scoprirà più nel dettaglio tutta l’enorme sovrabbondanza della fantasia di questo campione del Novecento musicale. Iniziamo dalla formazione impiegata. Ci troviamo di fronte ad un coro misto a quattro voci che in brevi tratti si divide in cinque, o anche sei, parti. La raccomandazione dell’Autore è che la parte più acuta - quella dei soprani - sia affidata a voci maschili di fanciulli (voci bianche). Questa scelta, non sempre rispettata nelle esecuzioni concertistiche, è il primo indizio del desiderio di freddezza di cui si è già detto.
Le voci bianche hanno un timbro limpido e possiedono una ricca sonorità, ma sono prive del patetismo di cui le voci femminili sono naturalmente cariche.
Il coro è accompagnato - ma meglio sarebbe dire, affiancato - da un doppio quintetto di fiati. Il primo quintetto è formato da due oboi, un corno inglese e due fagotti, tutti strumenti appartenenti alla classe dei cosiddetti legni. Il secondo da due trombe, due tromboni tenore e un trombone basso, tutti ottoni.
Chi conosce un poco gli strumenti musicali tradizionali, noterà che Stravinskij fa una scelta che già fu di Mozart (ancora lui!) nella Grande Messa già citata: quella di escludere il timbro sensuale dei clarinetti a favore di quello più nasale degli oboi, e di non utilizzare i corni - dal suono caldo e dall’enorme estensione - privilegiando i tromboni. Il risultato è estremamente significativo: un timbro arcaico e distante, che (negli oboi) ricorda il Barocco tedesco e (nei tromboni) si richiama alla grande tradizione veneziana - tardo rinascimentale e barocca - della Basilica di S. Marco dove, accanto agli organi, i tromboni univano la loro voce a quella dei cori battenti, cioè spazialmente contrapposti, in una sorta di stereofonia ante litteram dagli effetti stupefacenti e maestosi.
Se consideriamo che spesso i due gruppi strumentali suonano separatamente, ci troviamo di fronte ad una sorta di triplo coro (anche questo di veneziana memoria) in parte umano, in parte artificiale: aria, voci, legno, metallo, uniti in una lode concorde. Il suono del mondo, insomma; un mondo con lo sguardo rivolto al suo Creatore.
Stravinskij stesso ci informa che i dieci strumenti sono destinati ad accordare il coro; probabilmente non solo nel senso più banale di “suggerire l’intonazione ai coristi” (compito che indubbiamente svolge), ma in quello più sostanziale di colorire timbricamente - e quindi espressivamente - l’impasto vocale. Il suono privo di vibrato - e, quindi, di patetismo - le dinamiche (i livelli di intensità sonora) piatte e l’utilizzo di un legato e di uno staccato assoluti, senza sfumature, tendono a evocare il suono di un organo primitivo, “raffreddando” decisamente
il clima espressivo.
In questo senso, possiamo senz’altro dire che la doppia formazione strumentale rappresenta l’aspetto musicalmente più oggettivo (!) del complesso.
Al coro sono invece affidati gli elementi di maggiore e più immediata espressività: le voci si dipanano in figurazioni piuttosto lineari, chiaramente ispirate alla polifonia dei grandi maestri rinascimentali (Palestrina, innanzitutto) e alle scarne e ossessive cellule ritmo-melodiche della polifonia tardo medioevale. Un ricercato ritorno all’antico, insomma; ad una semplicità (o “primitività”, secondo le parole dell’Autore) sentita come patria e salvaguardia dell’autentica fede, di fronte a ciò che veniva percepito come generalizzata decadenza della musica sacra.
Non sarà inutile ricordare che il termine oggettività è uno di quelli più frequentemente utilizzati - al limite dell’abuso - nei confronti della produzione stravinskiana.
Troppo spesso è stato inteso nel senso (improprio) di neutro, anti-sentimentale, ma è il compositore stesso a sgombrare il campo da ogni equivoco.
Per Stravinskij, il carattere proprio della musica non è l’espressione, bensì la costruzione. Egli non nega certo il potere di evocare idee e sentimenti che ogni brano musicale degno di tale nome possiede, ma questo costituisce per lui un aspetto secondario (nel senso di non originario, derivato): in definitiva, di superficie. Questa “ovvia” implicazione espressiva è in relazione con la capacità della musica di modellare il tempo psicologico, soggettivo, suscitando analogicamente in noi un vasto mondo di immagini e sensazioni. Ma è la costruzione (si potrebbe dire: la forma) che ci mette in contatto con un tempo più profondo e originario (più “Ur-” direbbero i tedeschi); con ciò che il compositore russo definisce tempo ontologico. Secondo l’Autore, il contatto con questo tempo profondo è in grado di generare in noi uno stato di euforia, o meglio di “calma dinamica”.
Comprendiamo finalmente, così, che il suo obiettivo di freddezza non è nient’altro che l’espressione del desiderio di prendere per mano l’ascoltatore e di condurlo al centro della musica, verso quel misterioso tempo ontologico. Per usare le parole di Stravinskij, “mettere l’ascoltatore in condizione di partecipare all’universale realtà dell’Essere assoluto”.
Venendo ora alla concretezza della Messa, scorriamone rapidamente i cinque tempi evidenziandone gli elementi di una qualche importanza (senza alcuna pretesa di esaustività) per un’iniziale comprensione dell’opera.
Il Kyrie si apre con il doppio quintetto di fiati che, partendo in successione dagli oboi per arrivare al trombone basso, enunciano su più ottave un bicordo DO-MI bemolle, allusivo forse della tonalità di Do minore (il coro, pochi secondi dopo, intonerà quelle stesse note). A questo riguardo, Stravinskij stesso ebbe modo di precisare più volte che la sua musica, piuttosto che a-tonale, era anti-tonale. Tralasceremo quindi (anche per ragioni di brevità) ogni riferimento al piano armonico dell’opera, che pur costituirebbe un campo di indagine interessante e promettente.
Ci interessa invece notare il modo in cui vengono suonate quelle prime note: ogni nota porta l’indicazione poco sfp (= poco sforzando, piano).
L’effetto è quello di un’improvvisa percussione, seguita immediatamente da una coda di suono tenuto, quasi un riverbero. Come non pensare a rintocchi di campana? Come non intravedere le pianure sterminate della Santa Madre Russia, e immaginare il nostro Igor con il naso all’insù sotto le navate delle chiese ortodosse della sua infanzia? Questo effetto musicale (o figura) si riproporrà più volte nel corso del Kyrie, anche nella variante di un arpeggio discendente distribuito tra tutti gli strumenti del doppio quintetto. Ma lo ritroveremo anche in significativi punti-chiave delle sezioni successive.
Nel Gloria, per esempio, dove il “rintocco” richiamerà inesorabilmente l’attenzione dell’ascoltatore introducendo, e separando tra loro, le parole “Quoniam Tu solus Sanctus, Tu solus Dominus, Tu solus Altissimus, Jesu Christe” (che costituiscono il vertice concettuale del testo sacro).
E all’inizio del Sanctus, dove legni e ottoni si alternano nell’introdurre e nel concludere gli interventi di due tenori (e del coro) che enunciano selvaggiamente la Triplice Lode. E poi una ventina di secondi più avanti, quando i tromboni e le trombe scandiscono con profondi e inquietanti rintocchi (prevalentemente a distanza di quinta: uno degli intervalli acusticamente perfetti, che i pitagorici prima, e il Medioevo poi, mettevano in relazione con la perfezione dei rapporti numerici che reggono l’Universo) l’esposizione di fuga che in una figurata “ascesa al cielo” - dal MI di un basso solista, su fino al SOL estremo di un soprano - incarna il testo “Pleni sunt coeli et terra gloria tua”. O ancora quando un breve ma evidentissimo rintocco introduce all’imprevedibile tenerezza del “Benedictus”.
Non possiamo certo tacere del Credo che costituisce - dal punto di vista materiale, come pure nelle intenzioni formali del compositore - il centro dell’intera Messa. Al punto di maggior densità teologica (ricordiamo: “…c’è molto da credere”) corrisponde, inaspettatamente, la maggior semplicità di scrittura. Le quattro voci enunciano tutte insieme il testo, senza ripetizioni, sullo sfondo di accordi tenuti dei fiati (veramente il suono di una sorta di organo arcaico) in un piano uniforme, senza alcuna enfasi.
In questo contesto le tre brevi sottolineature sonore (unicamente poco più f) delle parole “Ecclesiam… peccatorum… mortuorum” balzano violentemente in primo piano, come scagliate interrogativamente contro l’inerzia della coscienza. Questa compatta uniformità di andamento delle voci ricorrerà in altre sezioni dell’opera, eloquente immagine sonora di un’umanità implorante (come nel Kyrie iniziale, e nell’Agnus Dei conclusivo) o in preda all’esaltazione assoluta del giubilo (come nei due travolgenti “Hosanna in excelsis” del Sanctus).
Impressionante, sia sul piano espressivo che su quello formale, risulta anche il brano finale della Messa, l’Agnus Dei. Per la prima e ultima volta, nel corso della composizione, le voci del coro sono lasciate a se stesse, senza accompagnamento strumentale (a cappella). Ecco, allora, che nella definitiva resa al Mistero fattasi richiesta di misericordia e di pace (“Agnus Dei… miserere nobis… dona nobis pacem”), il pathos delle voci umane nella loro nudità si fa finalmente, completamente evidente. I fiati introducono solennemente la preghiera, e si alternano alle voci con movenze e scelte sonore (tanti intervalli di quarta e quinta, dalle sonorità trecentesche) degne di una messa di Guillaume De Machaut. Le voci (prima femminili, poi maschili, poi unite) e il gruppo compatto degli strumenti si alternano in modo tranquillo e assolutamente privo di enfasi: un intimo dialogo tra umanità e materia, una commovente supplica alla quale il Creatore non potrà certo - allora, come ora - non prestare orecchio.

Epilogo
Bisogna purtroppo constatare che la Messa non conobbe - di fatto - la diffusione e l’utilizzo liturgico che Stravinskij sperava. Banalmente, alcune ragioni del mancato obiettivo sono di carattere eminentemente pratico.
La scrittura corale utilizzata non è certo facilmente affrontabile da un coro parrocchiale medio (o anche di livello qualcosa più che medio) e, oltre a ciò, richiede la presenza delle voci bianche, ormai raramente disponibili nelle chiese cattoliche, anche di una certa importanza. Il gruppo strumentale, inoltre, è un po’ troppo nutrito per essere assemblato senza difficoltà, ma un po’ troppo ridotto per interessare immediatamente la sezione fiati di un’orchestra sinfonica.
Nei fatti, la Messa avrà la sua prima esecuzione il 27 ottobre 1948 al Teatro alla Scala di Milano, sotto la direzione di Ernest Ansermet (che, intelligentemente, terrà a battesimo molti brani ritenuti, poi, pietre miliari della musica colta del ’900), e vivrà essenzialmente nel circuito sfavillante - ma chiuso - delle programmazioni concertistiche internazionali.
Sul piano della ricezione dell’opera, inoltre, non ha certo positivamente influito la sempre crescente tendenza del compositore russo - particolarmente evidente a partire dagli anni Sessanta - ad esprimersi in un linguaggio musicale scarno e conciso (influenzato, in uguale misura, dalla tardiva “scoperta” della tecnica dodecafonica e dall’aforistica estetica weberniana), facendo ricorso a scelte timbriche aspre e inusuali (la parte strumentale della Messa ne costituisce un esempio eloquente). Ma non possiamo non riconoscere che - come c’era da attendersi dall’autore del Sacre - Stravinskij utilizza una formazione tanto insolita in modo subito perfetto e naturale: perfettamente naturale, ovviamente, per il fine espressivo che lo spinge ad intraprendere “senza rete” un’avventura compositiva dall’esito tanto incerto.
A noi non resta che metterci all’ascolto di questa sua capitale fatica con orecchio sgombro e cuore aperto.
E speriamo, oggi, che la nostra gratitudine possa giungergli intatta là dove ora finalmente contempla il Volto Santo di quell’Essere assoluto nel seno del quale - esplicitamente o meno - ha concepito e deposto tutta la sua straordinaria opera.

© Umberto Bombardelli - Milano, 10 agosto 2006

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ma come ho fatto a perdermi questo magnifico Blog?? Ringrazio il Pierrot Lunaire per avermi fatto trovare questo tuo cyberspazio su Google. E ora passerò il mio (poco purtroppo) tempo libero a leggere tutti i tuoi articoli. Fantastici! Ti ringrazio molto, ma una cosa: trovo che stai trascurando un po' Debussy :) Io lo adoro, ti consiglio di ascoltare qualcosa e rimarrai folgorato.
Principalmente ti consiglio:
Preludes a l'apres midi d'un faune;
La Mer;
Danze per arpa e orchestra d'archi;
Beau Soir.
Per pianoforte ti consiglio:
Preludes book I e II;
Images (entrambe le serie);
Children's Corner;
Etudes.

Ciao! Continua così!!

Anonimo ha detto...

Volevo segnalare che finalmente domenica 27 Giugno a Milano presso la Palazzina Liberty verrà eseguita la Messa di Stravinsky per coro e doppio quintetto di fiati.
Io, dopo aver letto quello che hai scritto, non vedo l'ora di ascoltarla!!!!
Due esecuzioni nello stesso giorno: ore 17 e ore 20.

Ciao