Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, luglio 18, 2008

Giovanni Sollima: sporcarsi le mani

L’aspetto che mi ha affascinato fin dal nostro primo incontro nell’attitudine musicale di Giovanni Sollima è l’assoluta naturalezza del suo rapporto con la musica. Non sembri un fatto scontato. Né lo si attribuisca automaticamente al suo essere figlio d’arte (il padre Eliodoro, lo ricordiamo, è stato compositore affermato ed ottimo musicista). La fluida spontaneità con la quale Giovanni Sollima parla di musica, scrive musica e la suona, l’immediata semplicità con la quale passa da un ruolo all’altro (dal compositore all’interprete, al commentatore) è qualcosa che appartiene alla sfera del talento. Ovvero a quella sfera nella quale, nonostante gli sforzi di schiere di studiosi, facciamo davvero fatica ad entrare per spiegare i segreti dell’artista, o dello scienziato, dell’inventore, o del genio. Peraltro, essendo ancora noi nipoti del romanticismo, talento e genio sono parole che usiamo con singolare casualità. Sono, nella maggior parte dei casi, parole frutto della meraviglia, di quello stupore infantile, per dirla con Mircea Elide, che ci prende dinanzi alla semplicità. Non dunque una forma di sindrome di Stendhal. Questa ha a che fare col ‘grandioso’, col ‘sublime’, con l’incommensurabile e l’ineffabile. Il talento, e la sua forma suprema, il genio, ha a che vedere con la natura nella sua forma più ‘naturale’. Ed è questo che stupisce in Giovanni Sollima: la facilità di comunicare in primo luogo la sua passione per l’arte in cui eccelle, e di trasformare tale comunicazione in un’emozione.
Questo accade anche nelle situazioni più improbabili. Per esempio parlando al telefono, nella pausa fra due prove; oppure salendo le scale del Conservatorio tra una chiacchiera e l’altra; o semplicemente facendo due passi per strada: quando la conversazione cade sul tema “musica”, quel fluire naturale coinvolge chi ascolta. Ovviamente, non fanno eccezione neppure le interviste, nelle quali Giovanni Sollima racconta con organica schiettezza dei suoi progetti, del suo lavoro, del come nascono i programmi. Programmi che, come quello che presenterà a Musica Insieme con l’ensemble dei Violoncellisti della Scala, spesso sono frutto – e a questo punto possiamo dire non per caso – di una sorta di sperimentazione sul campo, dove l’esperienza del violoncellista (e dei violoncellisti) si somma con quella del compositore. Ed infatti: “Abbiamo affrontato Biber non come se volessimo farne una trascrizione. Quello che ci ha guidato era un principio diverso: lavorare un po’ come si faceva in epoca rinascimentale e barocca. Ovvero adattando la musica agli ensemble che si avevano a disposizione, e quindi ridistribuendo le parti di conseguenza. Quindi, il gruppo di violoncelli trattato come se fosse una sorta di insieme di viole da gamba, o di quei gruppi di archi dove si trovavano strumenti ibridi, oggi non più in uso. Peraltro, la musica di Biber, ed in particolare questa sua Battàlia, mi ha sempre affascinato. L’ascoltavo già da bambino, e quello che mi colpiva e mi colpisce tuttora è la straordinaria inventiva contenuta in quel brano. È una pagina musicale immediatamente descrittiva, ma lo è in maniera non banale, sfruttando poliritmie a volte anche molto complesse, o sovrapposizioni di tonalità che farebbero persino pensare ad una specie di politonalismo ante litteram. È stato, perciò, quasi ovvio adottare certe soluzioni, come dividere i violoncelli in due cori, imitando in questo l’originale che prevede due gruppi contrapposti, mentre la mia parte l’ho posizionata al centro, cercando anche di creare una sorta di distribuzione spaziale dei suoni, una stereofonia da palcoscenico”.
Come volevasi dimostrare: il violoncellista esperto, l’interprete navigato, applica la sua esperienza al servizio del risultato compositivo. Analogo, del resto, il caso del brano che segue: Flagellazione, tratto da un balletto ispirato ad alcuni dei capolavori di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio. “È ancora un brano per ensemble di violoncelli caratterizzato da una componente sonora non dissimile da quella di Biber. Peraltro, tutto il balletto ha una genesi particolare. In alcuni quadri Caravaggio, con la consueta meticolosità, ha inserito partiture. Naturalmente, si tratta di brani autentici, ed io sono riuscito a ritrovarne tre. Si tratta di madrigali composti da Jacques Arcadelt”. Arcadelt, rammentiamolo, è compositore francese (forse fiammingo), che fu allievo, proprio in terra di Francia, del grande Josquin Desprès. Lo ritroviamo poi a Firenze – dove studiò con Verdelot – ed infine eccolo a Venezia, inserito in quel gruppo di musicisti che ruotava intorno a Willaert. È proprio a Venezia che, tra il 1539 ed il 1544, Arcadelt pubblica le sue raccolte di madrigali, raccolte grazie alle quali ha conquistato un suo posto nella storia della musica. Dalla città lagunare si trasferì poi a Roma ed infine tornò a Parigi, dove morì nel 1568. “Nel caso di Flagellazione – torniamo a Sollima – il madrigale che ho utilizzato aveva un andamento mediamente lento. Nel trasporlo per l’ensemble di violoncelli ho in primo luogo cambiato proprio la velocità metronomica. Poi, ho infittito le articolazioni, e sono intervenuto ovviamente sulle singole parti, adattandole agli strumenti. In ogni caso, uso quel madrigale di Arcadelt nella sua struttura quasi integrale sia all’inizio sia alla fine della mia composizione. Nel centro, invece, pur partendo sempre da un frammento che deriva da quella partitura, costruisco una struttura completamente diversa. In certo senso, colloco quel frammento in un altro contesto, un contesto che ha una forte connotazione pittorica, l’ensemble utilizzato, per così dire, in maniera oceanica. Per contrasto, al tutti si contrappongono tre solisti, che suonano la medesima parte, ma sfalsati nel tempo, quasi si trattasse di una sorta di delay (ossia un ritardo, ndr) naturale. Il risultato è sonoramente lacerante, come del resto sono laceranti certa figuratività e certa pittura barocche, che sono cupe e dolenti, quasi anticipassero il romanticismo. Insomma, come per il brano di Biber, la componente strumentale e quella compositiva s’intrecciano. Il comune denominatore dell’intero programma del concerto è proprio questo: lo sporcarsi le mani tra la composizione e lo strumento. Il brano di Domenico Gabrielli, invece, è un omaggio alla tradizione violoncellistica emiliana, ed in particolare bolognese”. Gabrielli, infatti, a Bologna è nato (nel 1659) e a Bologna si è spento (nel 1690). Anche lui ha un posto di rilievo nella storia della musica, in particolare perché è stato tra i primi (se non il primo) a comporre pagine per il solo violoncello, alle quali si sono ispirati tutti i compositori a lui successivi, Bach compreso. “Dal punto di vista violoncellistico, quella di Gabrielli è un’opera fondamentale – precisa Sollima – tant’è che sto pensando di realizzare molto presto un progetto discografico tutto dedicato a lui. Gabrielli potremmo dire ha inventato il violoncello, estendendone le possibilità in maniera straordinaria. Da strumento limitato ad eseguire linee di basso, a strumento virtuosistico, che suona parti ricche di fioriture e di diminuzioni. È Gabrielli il primo a spingere lo strumento in quel registro tenorile, quello che lo fa cantare, in seguito divenuto d’uso comune. Proprio le innovazioni di Gabrielli stabiliscono, in certo senso, la differenza tra il gruppo di viole da gamba ed il gruppo di violoncelli: questi ultimi possiedono, per così dire, una sonorità più carnale, più corposa”.
Di questo sporcarsi le mani è, infine, esempio preclaro proprio il brano che segue, e lo è fin dall’attribuzione autoriale: Vival-Drix, ovvero l’incontro fra Antonio Vivaldi e Jimi Hendrix. “Tutto nasce ovviamente dal celebre Concerto per due violoncelli di Vivaldi, e dal fatto che, nel
trascriverlo per i soli celli, ho incontrato qualche difficoltà, sia per la complessità di certi passaggi nel basso, sia ovviamente per i problemi legati all’estensione della parte dei violini. Così ho ridistribuito tutte le parti tra i celli cercando di mantenere quella ricchezza, al punto che due li ho utilizzati solo in pizzicato, quasi fossero dei chitarroni. La scrittura vivaldiana, poi, ha un certo sapore rock: sincopata, ritmicamente molto incalzante, vitale nel suo scorrere. Ed ecco che, in prova, giocando con le note, mi sono accorto di una certa vicinanza tra Vivaldi ed Hendrix. È stato allora quasi automatico creare una sorta di dissolvenza incrociata nel finale e passare fluidamente dall’uno all’altro
”.
Il concerto si concluderà sulle note del più celebre fra i lavori di Sollima, "Violoncelles, vibrez!": “L’ho composto molti anni fa, e quando ho finito di scriverlo per la verità non mi sembrava granché. Evidentemente mi sbagliavo, tant’è che sono tornato ad inciderlo anche ora, nel mio nuovo cd per la Sony”.

di Fabrizio Festa

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