Nel 1938 presso l'editore torinese Bocca un buon musicologo del tempo, il Viatelli, pubblicò un volume intitolato L'ultimo liutista, incentrato sulla figura di un virtuoso bolognese morto nella prima metà del seicento, Alessandro Piccinini, la cui ultima opera a stampa apparve postuma nel 1639. Vigeva allora il celebre pregiudizio chilesottiano sulla improvvisa decadenza del liuto, strumento principe del rinascimento, agli albori del secolo XVII. Oscar Chilesotti, meritorio pioniere della riscoperta delle fonti liutistiche italiane, aveva ricavato a fine Ottocento la sua visione negativa sulla sopravvivenza del liuto in Italia nel seicento proprio dalla rarità o assenza di stampe o manoscritti posteriori al 1650 (un prezioso inventario da lui stilato intorno al 1880 cita come fonte più tarda a lui nota nelle biblioteche italiane il volume di Bemardo Gianoncelli stampato in quell'anno). Eppure lo stesso Chilesotti aveva potuto evidenziare la longevità della tradizione liutistica in Germania, scoprendo un metodo per lo studio dello strumento (Baron 1727), trascrivendo in notazione moderna l'edizione del 1747 delle sonate di Kellner e perfino una fonte del grande S.L.Weiss oggi altrimenti ignota. L'ultimo liutista tedesco, Christian Gottlieb Scheider, morto nel 1815, aveva potuto adattare allo strumento le arie dal Don Giovanni di Mozart: al bilingue Chilesotti tutto ciò doveva esser noto, mentre nulla si conosceva sulla sopravvivenza della pratica liutistica in Italia.
Principalmente grazie agli studi ed alle edizioni anastatiche curate da Orlando Cristoforetti per la SPES di Firenze, oggi conosciamo una realtà ben diversa. Le fonti, per cominciare, esistono e, sia pure quantitativamente non numerose, coprono non soltanto l'intero secolo XVII ma financo il successivo, poichè la più tarda fu materialmente scritta intorno al 1759 ed utilizzata fino alla morte, ai primi dell'ottocento, da "Filippo Dalla Casa Suonatore d'Arcileuto, e Compagnatore sopra le Parti", dei quale resta anche un suggestivo ritratto con lo strumento (facsimile SPES 1984). Dopo Gianoncelli, troviamo almeno l'intavolatura per tiorba del ferrarese Pittoni (Bologna 1669: l'esemplare della Biblioteca Comunale di Ferrara fu utilizzato almeno fino al 1713 da un nobile cittadino, come indicato da una iscrizione). Per quanto riguarda i manoscritti, sia pure di livello artistico discontinuo rispetto a queste poche stampe, le ricerche degli specialisti (confluite recentemente nell'importante dissertazione di V.Coelho pubblicata dalla casa Garland) hanno rivelato una abbondanza ed una diffusione notevoli, per tutto il secolo XVII e parte del successivo (anche se con i decenni si assiste all'abbandono della notazione intavolata in favore della meno criptica edizione tastieristica, come suggerito dal trattato francese secentesco di Perrine).
Nessuna decadenza, dunque, bensì trasformazione, in parte organologica, in parte funzionale dei nuovi liutisti dell'età barocca e galante. Lo strumento si allunga e si arricchisce di corde, ma questo avviene già con Piccinini, a fine Cinquecento (arciliuto, tiorba e chitarrone, restano comunque lo stesso strumento con accordature differenziate); il liutista diviene un realizzatore di basso continuo, come funzione primaria (sempre restando, per le capacità di esecuzione polifonica dello strumento, perfettamente in grado di suonare a solo) e assai spesso è un polistrumentista: cetra, mandola, chitarra soprattutto, ma anche arpa, cembalo, violino etc. Due arciliuti resteranno al servizio dei senato bolognese fino al termine del secolo XVIII; fino alla metà di quel secolo l'orchestra del teatro di corte di Napoli (poi San Carlo), occuperà a sua volta liutisti (con arciliuti e/o tiorbe) di grande fama, come gli Ugolini o i Sarao; lo stesso accade a Roma nei palazzi cardinalizi e nelle chiese, o a Venezia, a Modena come alla corte del Granduca di Firenze, e perfino in piccole cappelle periferiche d'Italia.
In questo contesto l'esistenza, a lungo sfuggita alle bibliografle, di una edizione italiana di Sonate d'intavolatura di Leuto datata 1718 si presenta emblematica di un mondo liutistico tuttora vivo e vegeto, sia pure senza clamori. Se l'editore lucchese Marescandoli ha creduto di poter rischiare una iniziativa editoriale così specialistica non può essere soltanto perchè probabilmente l'autore gli avrà presentato delle lastre già incise e pronte per la stampa: qualcuno doveva esserci in quel momento in grado di acquistare e leggere un libro di musica in intavolatura. Per questo, il volume non contiene lettere dedicatorie, prefazioni o indicazioni ai lettori e mostra il minimo di intervento tecnico dello stampatore, a parte il frontespizio (citiamo dalla edizione anastatica SPES del 1982, a cura di Orlando Cristoforetti, dell'unico esemplare noto della Biblioteca del Conservatorio di Santa Cecilia in Roma). Le notizie biografiche sono così scarse sull'autore di questo libro da poterle riassumere in poche righe: Giovanni Zamboni (si dichiara "Romano" nel frontespizio) dopo un periodo di apprendistato forse nella stessa Roma di cui nulla conosciamo, figura come "contrabbassista" della Primaziale di Pisa dal 1707 al 1713 dopo essere stato al servizio dell'Opera del Duomo di quella città. Secondo il cronista pisano Busoni era "bravissimo contrappuntista di musica e virtuosissimo sonatore di Tiorba, Liuto, Cimbalo, Chitarra sminuita, Mandola e Mandolino, e bravo arrotatore di pietre orientali cioè gioielli" (e ne riferisce poi un contrasto finito in duello con un altro musico della cappella, andato a finir bene).
Perchè stampò a Lucca la sua edizione? I Marescandoli, successi al Bidelli nella conduzione della principale tipografia di quella città dal 1654, mantennero una sorta di monopolio editoriale fino al 1805. Dal 1711 era stata reinstaurata la tradizione dell'annuale festa della S.Croce: la città il 13-14 settembre accoglieva tutti i musici "stranieri" che avessero voluto unirsi alle compagini locali, non di poco conto se si pensa che della Cappella Palatina di Lucca aveva fatto parte dal 1707 al 1710 Francesco Gemignani prima di lasciare l'Italia. Dunque un "mercato" potenzialmente più aperto e internazionale di quello pisano.
Se volessimo individuare un retroterra culturale per l'arte compositiva di Zamboni quale emerge dalla lettura delle Sonate, diremmo certamente la Roma di Arcangelo Corelli e, per la scrittura liutistica intrinseca, una filiazione diretta da Lelio Colista, grande liutista e violinista romano morto nel 1680. Ma come scrive Cristoforetti "sul piano terminologico e organologico Zamboni dimostra ancora la piena validità delle affermazioni di Piccinini", volendo dire che il liuto (o arciliuto) del bolognese del 1623 è lo stesso strumento del romano-pisano del 1718: l'accordatura per esempio, definita impropriamente "rinascimentale" in Sol, e soprattutto i segni grafici della notazione, dalle cifre alle indicazioni di abbellimenti (presenti il tremolo, lo strascico, il portamento, e tutta la casistica di appoggiature, acciaccature, ritardi, legati, etc.).
Dal punto di vista tonale le 11 sonate sono perfino statiche e ripetitive, non tentando neppure di presentare cicli tonali, alla maniera dei francesi o dei tedeschi (utili per esempio a livello didattico). Nella Tabella che segue abbiamo riassunto la tonalità e i movimenti di danza che compongono le diverse suites, che ricalcano in maniera evidente lo stereotipo corelliano pur con qualche interessante variante (la Giga prima della Sarabanda in tre casi, l'inserimento di Gavotta, Bourre, Ceccona).
Benchè in apparenza già strutturate, le suites della raccolta si prestano ad essere riorganizzate in maniera libera, come nella presente registrazione avviene per la sonata VII, che recupera all'inizio l'Arpeggio iniziale della VIII (una citazione evidente dell'Arpeggiata del primo libro di liuto del 1604 di Kapsberger, in singolare anticipo di 4 anni sul primo preludio del Clavicembalo ben temperato) e alla fine la Ceccona dell'ultima sonata. Questa danza su basso ostinato è trattata ancora come i tanti esempi di inizio seicento, e risente assai del filtro stilistico della chitarra spagnola. Altrettanto antiquarie appaiono le due Fughe della raccolta, che paiono fantasie tratte da un libro liutistico tardo-rinascimentale, se non fosse per le contaminazioni armoniche che rendono per esempio quella della sonata III un incrocio tra una composizione dell'epoca di Piccinini o Falconieri e una di Weiss.
La Sonata IV è probabilmente la più moderna, riflettendo l'ormai prossimo stile galante di Weiss: a questo proposito sarebbe interessante esaminare che relazione poterono intercorrere tra Zamboni e il grande liutista tedesco, che fu a Roma tra il 1708 e il 1714. Ancora più esplicito si mostra il Preludio della sonata IX, avvolto nell'atmosfera melanconica che ritroveremo per esempio nella sonata Infidéle di Weiss.
Le sonate in tonalità minore (VI e IX) sono invece più arcaiche e di gusto italiano: la VI ci pare la più bella in assoluto ed in fondo anche la più significativa dal punto di vista della scrittura liutistica, carica com'è di "affetti" e di "effetti" idiomatici dello strumento (l'Allemanda è punteggiata di appoggiature e ritardi alla Kapsberger, ma sorretti da armonie corelliane) e lascia intravvedere l'esperienza di realizzatore di basso continuo e accompagnatore dell'autore. Da questo punto di vista, oltre alle preziose indicazioni sugli abbellimenti (anche sciolti), la raccolta di Zamboni ha per i liutisti moderni un valore paragonabile agli esempi di continuo realizzato da Händel per i tastieristi: non soltanto siamo di fronte a sonate solistiche, ma a schemi compositivi ed esecutivi applicabili a tutta la produzione strumentale dell'epoca post-corelliana, scarlattiana e vivaldiana.
testo a cura di Dinko Fabris (note al cd Symphonia SY 92S16 "Gio.Zamboni Romano - Sonate d'intavolatura di leuto, Lucca 1718")
Principalmente grazie agli studi ed alle edizioni anastatiche curate da Orlando Cristoforetti per la SPES di Firenze, oggi conosciamo una realtà ben diversa. Le fonti, per cominciare, esistono e, sia pure quantitativamente non numerose, coprono non soltanto l'intero secolo XVII ma financo il successivo, poichè la più tarda fu materialmente scritta intorno al 1759 ed utilizzata fino alla morte, ai primi dell'ottocento, da "Filippo Dalla Casa Suonatore d'Arcileuto, e Compagnatore sopra le Parti", dei quale resta anche un suggestivo ritratto con lo strumento (facsimile SPES 1984). Dopo Gianoncelli, troviamo almeno l'intavolatura per tiorba del ferrarese Pittoni (Bologna 1669: l'esemplare della Biblioteca Comunale di Ferrara fu utilizzato almeno fino al 1713 da un nobile cittadino, come indicato da una iscrizione). Per quanto riguarda i manoscritti, sia pure di livello artistico discontinuo rispetto a queste poche stampe, le ricerche degli specialisti (confluite recentemente nell'importante dissertazione di V.Coelho pubblicata dalla casa Garland) hanno rivelato una abbondanza ed una diffusione notevoli, per tutto il secolo XVII e parte del successivo (anche se con i decenni si assiste all'abbandono della notazione intavolata in favore della meno criptica edizione tastieristica, come suggerito dal trattato francese secentesco di Perrine).
Nessuna decadenza, dunque, bensì trasformazione, in parte organologica, in parte funzionale dei nuovi liutisti dell'età barocca e galante. Lo strumento si allunga e si arricchisce di corde, ma questo avviene già con Piccinini, a fine Cinquecento (arciliuto, tiorba e chitarrone, restano comunque lo stesso strumento con accordature differenziate); il liutista diviene un realizzatore di basso continuo, come funzione primaria (sempre restando, per le capacità di esecuzione polifonica dello strumento, perfettamente in grado di suonare a solo) e assai spesso è un polistrumentista: cetra, mandola, chitarra soprattutto, ma anche arpa, cembalo, violino etc. Due arciliuti resteranno al servizio dei senato bolognese fino al termine del secolo XVIII; fino alla metà di quel secolo l'orchestra del teatro di corte di Napoli (poi San Carlo), occuperà a sua volta liutisti (con arciliuti e/o tiorbe) di grande fama, come gli Ugolini o i Sarao; lo stesso accade a Roma nei palazzi cardinalizi e nelle chiese, o a Venezia, a Modena come alla corte del Granduca di Firenze, e perfino in piccole cappelle periferiche d'Italia.
In questo contesto l'esistenza, a lungo sfuggita alle bibliografle, di una edizione italiana di Sonate d'intavolatura di Leuto datata 1718 si presenta emblematica di un mondo liutistico tuttora vivo e vegeto, sia pure senza clamori. Se l'editore lucchese Marescandoli ha creduto di poter rischiare una iniziativa editoriale così specialistica non può essere soltanto perchè probabilmente l'autore gli avrà presentato delle lastre già incise e pronte per la stampa: qualcuno doveva esserci in quel momento in grado di acquistare e leggere un libro di musica in intavolatura. Per questo, il volume non contiene lettere dedicatorie, prefazioni o indicazioni ai lettori e mostra il minimo di intervento tecnico dello stampatore, a parte il frontespizio (citiamo dalla edizione anastatica SPES del 1982, a cura di Orlando Cristoforetti, dell'unico esemplare noto della Biblioteca del Conservatorio di Santa Cecilia in Roma). Le notizie biografiche sono così scarse sull'autore di questo libro da poterle riassumere in poche righe: Giovanni Zamboni (si dichiara "Romano" nel frontespizio) dopo un periodo di apprendistato forse nella stessa Roma di cui nulla conosciamo, figura come "contrabbassista" della Primaziale di Pisa dal 1707 al 1713 dopo essere stato al servizio dell'Opera del Duomo di quella città. Secondo il cronista pisano Busoni era "bravissimo contrappuntista di musica e virtuosissimo sonatore di Tiorba, Liuto, Cimbalo, Chitarra sminuita, Mandola e Mandolino, e bravo arrotatore di pietre orientali cioè gioielli" (e ne riferisce poi un contrasto finito in duello con un altro musico della cappella, andato a finir bene).
Perchè stampò a Lucca la sua edizione? I Marescandoli, successi al Bidelli nella conduzione della principale tipografia di quella città dal 1654, mantennero una sorta di monopolio editoriale fino al 1805. Dal 1711 era stata reinstaurata la tradizione dell'annuale festa della S.Croce: la città il 13-14 settembre accoglieva tutti i musici "stranieri" che avessero voluto unirsi alle compagini locali, non di poco conto se si pensa che della Cappella Palatina di Lucca aveva fatto parte dal 1707 al 1710 Francesco Gemignani prima di lasciare l'Italia. Dunque un "mercato" potenzialmente più aperto e internazionale di quello pisano.
Se volessimo individuare un retroterra culturale per l'arte compositiva di Zamboni quale emerge dalla lettura delle Sonate, diremmo certamente la Roma di Arcangelo Corelli e, per la scrittura liutistica intrinseca, una filiazione diretta da Lelio Colista, grande liutista e violinista romano morto nel 1680. Ma come scrive Cristoforetti "sul piano terminologico e organologico Zamboni dimostra ancora la piena validità delle affermazioni di Piccinini", volendo dire che il liuto (o arciliuto) del bolognese del 1623 è lo stesso strumento del romano-pisano del 1718: l'accordatura per esempio, definita impropriamente "rinascimentale" in Sol, e soprattutto i segni grafici della notazione, dalle cifre alle indicazioni di abbellimenti (presenti il tremolo, lo strascico, il portamento, e tutta la casistica di appoggiature, acciaccature, ritardi, legati, etc.).
Dal punto di vista tonale le 11 sonate sono perfino statiche e ripetitive, non tentando neppure di presentare cicli tonali, alla maniera dei francesi o dei tedeschi (utili per esempio a livello didattico). Nella Tabella che segue abbiamo riassunto la tonalità e i movimenti di danza che compongono le diverse suites, che ricalcano in maniera evidente lo stereotipo corelliano pur con qualche interessante variante (la Giga prima della Sarabanda in tre casi, l'inserimento di Gavotta, Bourre, Ceccona).
Benchè in apparenza già strutturate, le suites della raccolta si prestano ad essere riorganizzate in maniera libera, come nella presente registrazione avviene per la sonata VII, che recupera all'inizio l'Arpeggio iniziale della VIII (una citazione evidente dell'Arpeggiata del primo libro di liuto del 1604 di Kapsberger, in singolare anticipo di 4 anni sul primo preludio del Clavicembalo ben temperato) e alla fine la Ceccona dell'ultima sonata. Questa danza su basso ostinato è trattata ancora come i tanti esempi di inizio seicento, e risente assai del filtro stilistico della chitarra spagnola. Altrettanto antiquarie appaiono le due Fughe della raccolta, che paiono fantasie tratte da un libro liutistico tardo-rinascimentale, se non fosse per le contaminazioni armoniche che rendono per esempio quella della sonata III un incrocio tra una composizione dell'epoca di Piccinini o Falconieri e una di Weiss.
La Sonata IV è probabilmente la più moderna, riflettendo l'ormai prossimo stile galante di Weiss: a questo proposito sarebbe interessante esaminare che relazione poterono intercorrere tra Zamboni e il grande liutista tedesco, che fu a Roma tra il 1708 e il 1714. Ancora più esplicito si mostra il Preludio della sonata IX, avvolto nell'atmosfera melanconica che ritroveremo per esempio nella sonata Infidéle di Weiss.
Le sonate in tonalità minore (VI e IX) sono invece più arcaiche e di gusto italiano: la VI ci pare la più bella in assoluto ed in fondo anche la più significativa dal punto di vista della scrittura liutistica, carica com'è di "affetti" e di "effetti" idiomatici dello strumento (l'Allemanda è punteggiata di appoggiature e ritardi alla Kapsberger, ma sorretti da armonie corelliane) e lascia intravvedere l'esperienza di realizzatore di basso continuo e accompagnatore dell'autore. Da questo punto di vista, oltre alle preziose indicazioni sugli abbellimenti (anche sciolti), la raccolta di Zamboni ha per i liutisti moderni un valore paragonabile agli esempi di continuo realizzato da Händel per i tastieristi: non soltanto siamo di fronte a sonate solistiche, ma a schemi compositivi ed esecutivi applicabili a tutta la produzione strumentale dell'epoca post-corelliana, scarlattiana e vivaldiana.
testo a cura di Dinko Fabris (note al cd Symphonia SY 92S16 "Gio.Zamboni Romano - Sonate d'intavolatura di leuto, Lucca 1718")
2 commenti:
Grazie per le preziose notizie su Giovanni Zamboni Romano!!!
Interessantissime le notizie sul ruolo del liuto in Italia e aggiungo che le Sonate e la Ceccona di Zamboni sono bellissime!
Posta un commento