Nato a Trieste nel 1892, e dunque a tutti gli effetti cittadino dell’impero asburgico, Victor de Sabata era figlio di musicisti e affiancò fin dagli inizi della sua carriera l’attività compositiva a quella direttoriale. La famiglia si trasferì ben presto da Trieste a Milano e il giovane Victor si iscrisse al Conservatorio di quella città, in cui si diplomò con lode nel 1910 in composizione, pianoforte e violino, dirigendo personalmente una suo pezzo nel saggio di fine anno. Come compositore de Sabata si fece apprezzare assai presto, e il 30 marzo del 1917 la sua prima opera, Il macigno, fu rappresentata al Teatro alla Scala sotto la direzione di Ettore Panizza. L’anno successivo de Sabata fu scritturato dall’Opéra di Montecarlo come direttore stabile, mentre al 1919 risale la stesura del suo poema sinfonico Juventus, che fu anche nel repertorio di Arturo Toscanini, un direttore col quale de Sabata ebbe sempre rapporti improntati a grande cordialità. Il 9 gennaio 1921 il musicista triestino diresse il suo primo importante concerto sinfonico all’Accademia di Santa Cecilia, proponendo musiche di Sibelius, Franck, Pick-Mangiagalli, Richard Strauss e il suo Juventus. La sua fama di direttore si estese rapidamente in Italia e all’estero. De Sabata diresse frequentemente alla Scala (dove per tredici volte fu chiamato a inaugurare la stagione), al Maggio Musicale Fiorentino e ai concerti dell’EIAR. I successi direttoriali non gli avevano comunque fatto dimenticare l’attività di compositore: al 1923 e al 1925 risalgono, rispettivamente, i poemi sinfonici La notte di Platon e Gethsemani. Nel 1930 de Sabata diresse a Parigi e nel 1934 si fece conoscere a Salisburgo, collaborando come compositore delle musiche di scena per il Mercante di Venezia di Shakespeare messo in scena da Max Reinhardt e in seguito ripreso anche a Venezia. L’anno successivo propose alla Staatsoper di Vienna l’Otello di Verdi, esibendosi poi anche, con il consueto successo, a Praga e a Budapest. Il 12 gennaio del 1936 diresse per la prima volta i Berliner Philarmoniker, con i quali, nel 1939, quando la guerra appariva ormai inevitabile, curò per la Polydor una serie di incisioni discografiche dedicate a musiche di Brahms, Verdi, Wagner, Respighi e Kodaly, straordinarie sia per la formidabile resa artistica che per l’altissima qualità sonora. Nel 1939 de Sabata debuttò a Bayreuth con sei recite di un memorabile Tristan und Isolde. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, fu il primo direttore appartenente ad una nazione ex-nemica a dirigere in Gran Bretagna, facendosi apprezzare, il 21 aprile 1946, in un concerto tenuto allo Stoll Theatre di Londra. Da quel momento in poi, per de Sabata fu un susseguirsi frenetico di concerti e di trionfi in Europa e negli Stati Uniti, cui pose inopinatamente fine, nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1953, il grave attacco cardiaco che lo obbligò a lasciare definitivamente la direzione d’orchestra. Dal 1954 al 1956 de Sabata fu sovrintendente artistico del Teatro alla Scala; Ritiratosi dall’attività musicale nel 1957, morì a Santa Margherita Ligure l’11 dicembre del 1967.
Un oggetto nascosto, di cui conosciamo l’esistenza, può perdersi a poco a poco nel fondo della memoria, consegnandoci alla malinconia che ogni realtà irrecuperabile lascia dietro a sé. Ma se lo intuiamo prezioso in virtù del suo stesso nome, quell’oggetto può vestirsi di colori leggendari. Questo è avvenuto, per quasi un ventennio dopo la sua scomparsa, a Victor de Sabata compositore. Fino agli anni Settanta del Novecento, la conoscenza del suo lascito creativo, frequentato e studiato soltanto da studiosi specialistici e da appassionati cultori, è stata inversamente proporzionale all’immenso prestigio irradiato da lui direttore d’orchestra. Ridotta quasi a zero nell’esperienza d’ascolto del pubblico, anche degli ascoltatori non privi di cultura e di consapevolezza storica nei confronti della grande tradizione musicale, la nozione del lascito compositivo di de Sabata indusse alcuni (i rari cultori di musica che si ponevano a volte quel problema) a identificare quell’occultamento e quell’oblio con una sottintesa irrilevanza. Questa squilibratissima dicotomia tra il “Kapellmeister” e il compositore fu per qualche tempo il destino di de Sabata così come lo fu per un sommo musicista a lui molto affine per l’aspetto sacrale, per la nobiltà dei tratti e del gesto direttoriale, per la cultura di alta qualità disciplinata da ottima scuola e raramente rintracciabile nella maggioranza dei direttori d’orchestra: Wilhelm Furtwängler, di sei anni più anziano di de Sabata. Per inciso, guardando a una generazione anteriore, la suddetta dicotomia lasciò per anni una ferita poi rimarginata nell’immagine di Gustav Mahler, che molti pur non del tutto ottusi considerarono per anni come autore di “musica per Kapellmeister” e “da Kapellmeister”.
Uno strano disegno del destino, entità misteriosa ma certo specializzata in coincidenze cronologiche, volle che Victor de Sabata, nato a Trieste domenica 10 aprile 1892, venisse al mondo come cittadino di quello stesso Impero absburgico che fu la complessa (e anche “complicata”) patria culturale del poc’anzi evocato Mahler, e proprio negli anni in cui di quest’ultimo il pubblico e la critica cominciavano ad ammirare senza riserve la grandezza direttoriale, mentre dichiaravano scettica perplessità di fronte all’opera creativa del musicista austro-boemo-ebraico. Anche de Sabata fu fedele al proprio destino e ai propri connotati d’origine, com‘è proprio di ogni individuo d’alta nobiltà. Italiano fermamente e con passione ma parzialmente, spirito di cultura e di disciplina spirituale dall’impronta mitteleuropea ravvivata dall’elemento intellettuale per eccellenza penetrante, dovuto alla radice ebraica, egli si presentò al mondo artistico e culturale italiano come “uno dei nostri”, certo, ma con i connotati di una classe intellettuale “diversa”, ossia, absit iniuria verbis, “superiore”. Il suo essere italiano in misura parziale fu dunque qualcosa in più, non certo una mancanza. Questo probabilmente, e non fuggevoli ed eventuali circostanze, fu il vero motivo conduttore della freddezza che per anni contrassegnò il suo rapporto con Toscanini, italiano “al quadrato”, e notoriamente avverso sia a Furtwängler tanto affine a de Sabata, sia a Mahler, fantasma consanguineo e quasi archetipico alle spalle del musicista triestino. Quando, nell’agosto 1953 (stava cominciando allora quella “sovrintendenza artistica” della Scala che egli si vide affidata a Milano fino al 1957 continuando ad essere anche poi “alto consulente artistico” del massimo Teatro italiano), de Sabata registrò una mirabile esecuzione di Tosca − con Maria Callas, Giuseppe Di Stefano, Tito Gobbi, Franco Calabrese, Angelo Mercuriali − poi divenuta una memorabile incisione discografica, alcuni, in Italia e all’estero, si esposero affermando che egli era il più grande direttore d’orchestra allora vivente, e forse di tutti i tempi. Una decina d’anni fa, James Badal scriveva che grazie anche solo a quella Tosca del 1953, «e anche se in vita sua non avesse registrato né diretto una sola nota d’altro» la fama di de Sabata «sarebbe imperitura» (Recording the Classics, Kent State University Press, Maldstone-Rochester-Canterbury 1996, p. 11).
Crediamo, tuttavia, che questo dei “primati assoluti” sia un discorso ozioso. Nessuno potrà mai dire chi sia il massimo poeta dell’umanità, il compositore eccelso fra tutti, il supremo architetto, il più geniale matematico. La grandezza discende da archetipi politeistici, luminosamente “pagani”, non monoteistici. Gli spiriti eletti sono sempre un tìaso, un Bosco Liceo, un giardino di Acàdemo, un “nobile castello” simile a quello descritto da Dante in Inferno, IV, 67-147. È più opportuno volgere l’attenzione alle circostanze storiche in cui si consumò l’ultima fase dell’esistenza di de Sabata, morto a Santa Margherita Ligure lunedì 11 dicembre 1967, quando esisteva ancora in Italia un’ultima riconoscibile traccia di tanta grandezza e di tanta nobiltà. Durante l’ufficio funebre per l’estinto, l’Orchestra della Scala suonò senza direttore: esisteva ancora la capacità di intuire i significati supremi, gli archetipi, le forme simboliche. Nel 1967, un anno prima dell’irruzione di un fangoso fiume di volgarità e di viltà nel contesto italiano, Milano e l’Italia non erano ancora devastate da un sudiciume che oggi è orrore ostile ai nostri cinque sensi, ma è anche segno esteriore d’immondizia dello spirito, di menzogna e di codardia diffuse dai bassifondi e dai palazzi del potere. Non erano ancora amministrate, governate e giudicate da individui indegni. La musica non era ancora spregiata e detestata dal trono come dall’altare.
Nella seconda metà degli anni Settanta, una esigua schiera di studiosi intelligenti ha cominciato a gettare luce su de Sabata compositore, suscitando polemiche civili ma acute nei confronti di una consuetudine musicologica e critica che si era mostrata miope e torpida nei confronti della figura di de Sabata considerata nel suo insieme. Ma anche a questo proposito si è configurata una dicotomia. Un’attenzione viva e costante si è indirizzata verso i lavori orchestrali di de Sabata, soprattutto i più maturi: un crescente interesse, anche a fini discografici, ha preso in esame non tanto la Suite del 1909 o le due Ouvertures del 1910, quanto i poemi sinfonici Juventus (1918), La notte di Platon (1923) e Gethsemani (1925). L’attenzione di cui parliamo è finalmente uscita dalla fase della “curiositas”, avendo preso coscienza della bellezza sapiente e ispirata di quelle pagine e dell’eccellenza strumentale di cui l’autore dà sempre alta prova (non parliamo, poi, della sensibilità poetica e della salda dottrina filosofica di de Sabata), e si sta rafforzando. Molto cammino resta da compiere per restituire alla cultura musicale non soltanto italiana i lavori ideati da questo luminoso artista per il teatro. Parzialmente privilegiata è stata, finora, l’azione coreografica Mille e una notte (Milano, 1931). Si offre ancora alla ricerca e allo studio pionieristico l’opera Il macigno (Milano, 1917, poi con il titolo mutato in Driada), di cui sopravvivono uno spartito per canto e pianoforte e altre scritture da cui si potrebbe ricostruire ai fini di renderlo eseguibile, questo lavoro distrutto in un incendio. Si attende una ripresa delle musiche di scena per Il mercante di Venezia di Shakespeare, eseguite a tutt’oggi una sola volta nel 1934 a Venezia (a San Trovaso) con la regia di Max Reinhardt e con Renzo Ricci, Marta Abba e Memo Benassi fra gli attori. Incompiuta e inedita è la musica per Lisistrata, su un soggetto tratto da una “contaminatio” di due commedie di Aristofane.
Restava da compiere il primo passo per quanto riguarda il lascito pianistico; è questa la dicotomia “interna” di cui si parlava. In assoluto, il primissimo passo è la registrazione e incisione presentata da questo CD. Si deve ad Alessandro Marangoni l’iniziativa davvero eroica di una ricerca sistematica, svolta nelle biblioteche dei Conservatori “Giuseppe Verdi” di Milano e “Santa Cecilia” a Roma. Il risultato è stato un’insperata serie di manoscritti e di edizioni rarissime, uniche, dimenticate, in ogni caso introvabili oggi. . Questo ha permesso di ricostruire, anche con la consulenza attenta e fervida di Eliana de Sabata Ceccato, l’appassionante sviluppo di una concezione della scrittura pianistica che prende le mosse da un abile “pastiche” di stili, ora parodiati ora affettuosamente ma sempre ironicamente “citati”, e raggiunge una cifra interamente originale, del tutto “altra” e non assimilabile ad altri esiti d’invenzione strumentale.
Le composizioni pianistiche qui raccolte, alcune scritte come pagine d’occasione o come prestazione professionale di un giovane musicista impegnato a guadagnarsi da vivere con la propria arte, sono collocate da Alessandro Marangoni in un ordine cronologico. Quest’ordine, fin dove è possibile, corrisponde a realtà. Ciò avviene là dove l’editore è Ricordi: in calce alla prima pagina è sempre rintracciabile la data di edizione che, trattandosi di pezzi pianistici quasi sempre scritti su commissione e in vista di finalità pratiche legate a spettacoli di vario genere, sembra escludere un significativo divario di tempo tra il momento della composizione e quello dell’uscita editoriale. In altri casi si tratta di una diversa firma editoriale, milanese come Ricordi ma molto meno resistente al fluire del tempo e allo svanire della memoria storica. Si tratta dei Riuniti Stabilimenti Musicali Giudici & Strada – A. Demarchi – A. Tedeschi, di Paolo Mariani fu Carlo. In questi fascicoli, dalle copertine illustrate in stile “Ballo Excelsior”, la cronologia è soltanto plausibile e congetturale. Possiamo argomentare, grazie allo stile grafico e iconografico, all’identificazione della firma editoriale poi scomparsa da Milano, alla fisionomia della scrittura rispetto a lavori esplicitamente datati e certo più maturi, che tutti il gruppo di marce e ballabili collocati da Marangoni al principio risalga ad anni anteriori o coevi alla prima guerra mondiale. Tutte queste brevi composizioni in sequenza reale o probabile sono state inquadrate dal pianista ricercatore e curatore, all’inizio e alla fine di questo CD, tra due lavori che invece rappresentano la fase più avanzata negli anni. Si tratta delle trascrizioni per pianoforte − realizzate dallo stesso autore quasi contemporaneamente agli originali per orchestra − di due partiture orchestrali che oggi cominciano ad essere note e ammirate da un novero sempre meno ristretto di ascoltatori: Gethsemani e Juventus.
Gethsemani, “poema contemplativo per orchestra”, è il più tardo e il più maturo fra tutti i lavori presentati da questo CD. Datato 1925, fu edito a Milano da Ricordi, e questa trascrizione pianistica reca il copyright 1926. Che si tratti di musica a programma, si può indurre dall’analogia con Juventus e con La notte di Platon, anche se qui l’indicazione del genere poetico e tematico (non della “forma”, che dato il carattere “durchkomponiert” del discorso musicale sarebbe comunque una “non-forma”) è diversa. Siamo dunque dinanzi a una situazione letteraria dal referente religioso, evangelico, paragonabile al referente dell’oratorio Christus am Ölberge op. 85 di Beethoven. L’assenza di un testo e la veste puramente strumentale (fra l’altro, “in bianco e nero” qui nella trascrizione per pianoforte) ci obbligano a interpretare la programmaticità suggerita dal titolo come un “inneres Programm”. L’autore trentatreenne intende la propria “meditazione” come libera dagli obblighi di storicizzazione, sicché questa non è per così dire “musica in costume”, così come sono i personaggi di certi sciagurati film hollywoodiani di genere biblico e in particolare cristologico. Perciò, niente abuso di modi ecclesiastici, niente arcaismi di prammatica; piuttosto, un forte uso di esatonia e di pentafonia, al fine di immergerci in un’atmosfera insolita e disincarnata dalla fisicità quotidiana. Anche l’invenzione melodica vuol essere strana, come fuori dal mondo. La struttura è tendenzialmente ternaria: un movimento veloce e concitato (Un po’ più vivo), racchiuso tra due movimenti più lenti, l’iniziale Calmo, contemplativo in Fa diesis maggiore, e un Grave (con raccoglimento), che ci scuote nel profondo con l’iniziale ed elementare cellula motivica discendente La 2 - Sol 2 su un pedale (tremolo) di Re bemolle nel registro più grave. La sezione centrale Un po’ più vivo si lega al Grave mediante un episodio la cui stessa didascalia agogica ed espressiva merita attenzione: Con grande pace, estaticamente (dolcissimo pp, come stellata [sic]).
Per il ballo Sui Pirenei, di cui ci sfugge l’autore, de Sabata scrisse un Gran Valzer in Mi maggiore, databile al periodo 1908-1915. Esso ci risulta edito dai citati Riuniti Stabilimenti Musicali, senza anno di edizione: in copertina, il nome dell’autore compare come “Vittorio De Sabata”, con il prenome italianizzato e con la “D” maiuscola nella preposizione del cognome. Questa variante onomastica è anche sulle copertine dei tre pezzi pianistici della serie Studenti di Parigi (sempre edita dai Riuniti Stabilimenti), mentre l’altra serie edita dai suddetti Giudici & Strada eccetera, Fra nastri e cappellini, reca soltanto l’iniziale del prenome, e sia prenome che cognome sono stampati in tutto maiuscolo, per cui non è possibile stabilire la scelta grafica relativa alla “D”. Il valzer è strutturato secondo il classico modello viennese: una breve introduzione con scaleggi ascendenti e discendenti, e una serie di ezioni di cui la prima è la briosa esposizione. La scrittura pianistica è spiritosa e mai “ordinaria” , con un fraseggio morbidi pur nella convenzionalità dell’accompagnamento in stile “un’ottava, due accordi”. Bellissima la sezione centrale, in pianissimo, nella quale l’accompagnamento mantiene il suo carattere mentre la mano destra fraseggia con una serie di tremoli delicati da cui emerge le linea melodica.
Studenti di Parigi fu a quanto pare un’azione coreografica di A. Bigiarelli (non ci è possibile per ora svelare in prenome nascosto dall’iniziale). Per essa, “Vittorio” de Sabata (anzi, “De” Sabata…) scrisse una sorta di piccola suite costituita da una Marcia, un Valzer e una Polka. La Marcia in Re maggiore fa uso abbondante di cromatismi dal significato parodistico: deformazione e destrutturazione dominano anche nel Valzer in La maggiore preceduto dalla consueta introduzione in 2/4. La scrittura non pretende nulla: neppure l’originalità. Ma…quale mano! Quale scioltezza di riflessi, quante idee, come per esempio il divertirsi a “cantare” su una nota sola mentre la mano sinistra svolge un elaborato disegno! Nella Polka in Sol maggiore (ma conclusa in Do maggiore) ritorna il cromatismo, a colorire il ritmo stupidello connaturato in questo tipo di danza.
Uno strano disegno del destino, entità misteriosa ma certo specializzata in coincidenze cronologiche, volle che Victor de Sabata, nato a Trieste domenica 10 aprile 1892, venisse al mondo come cittadino di quello stesso Impero absburgico che fu la complessa (e anche “complicata”) patria culturale del poc’anzi evocato Mahler, e proprio negli anni in cui di quest’ultimo il pubblico e la critica cominciavano ad ammirare senza riserve la grandezza direttoriale, mentre dichiaravano scettica perplessità di fronte all’opera creativa del musicista austro-boemo-ebraico. Anche de Sabata fu fedele al proprio destino e ai propri connotati d’origine, com‘è proprio di ogni individuo d’alta nobiltà. Italiano fermamente e con passione ma parzialmente, spirito di cultura e di disciplina spirituale dall’impronta mitteleuropea ravvivata dall’elemento intellettuale per eccellenza penetrante, dovuto alla radice ebraica, egli si presentò al mondo artistico e culturale italiano come “uno dei nostri”, certo, ma con i connotati di una classe intellettuale “diversa”, ossia, absit iniuria verbis, “superiore”. Il suo essere italiano in misura parziale fu dunque qualcosa in più, non certo una mancanza. Questo probabilmente, e non fuggevoli ed eventuali circostanze, fu il vero motivo conduttore della freddezza che per anni contrassegnò il suo rapporto con Toscanini, italiano “al quadrato”, e notoriamente avverso sia a Furtwängler tanto affine a de Sabata, sia a Mahler, fantasma consanguineo e quasi archetipico alle spalle del musicista triestino. Quando, nell’agosto 1953 (stava cominciando allora quella “sovrintendenza artistica” della Scala che egli si vide affidata a Milano fino al 1957 continuando ad essere anche poi “alto consulente artistico” del massimo Teatro italiano), de Sabata registrò una mirabile esecuzione di Tosca − con Maria Callas, Giuseppe Di Stefano, Tito Gobbi, Franco Calabrese, Angelo Mercuriali − poi divenuta una memorabile incisione discografica, alcuni, in Italia e all’estero, si esposero affermando che egli era il più grande direttore d’orchestra allora vivente, e forse di tutti i tempi. Una decina d’anni fa, James Badal scriveva che grazie anche solo a quella Tosca del 1953, «e anche se in vita sua non avesse registrato né diretto una sola nota d’altro» la fama di de Sabata «sarebbe imperitura» (Recording the Classics, Kent State University Press, Maldstone-Rochester-Canterbury 1996, p. 11).
Crediamo, tuttavia, che questo dei “primati assoluti” sia un discorso ozioso. Nessuno potrà mai dire chi sia il massimo poeta dell’umanità, il compositore eccelso fra tutti, il supremo architetto, il più geniale matematico. La grandezza discende da archetipi politeistici, luminosamente “pagani”, non monoteistici. Gli spiriti eletti sono sempre un tìaso, un Bosco Liceo, un giardino di Acàdemo, un “nobile castello” simile a quello descritto da Dante in Inferno, IV, 67-147. È più opportuno volgere l’attenzione alle circostanze storiche in cui si consumò l’ultima fase dell’esistenza di de Sabata, morto a Santa Margherita Ligure lunedì 11 dicembre 1967, quando esisteva ancora in Italia un’ultima riconoscibile traccia di tanta grandezza e di tanta nobiltà. Durante l’ufficio funebre per l’estinto, l’Orchestra della Scala suonò senza direttore: esisteva ancora la capacità di intuire i significati supremi, gli archetipi, le forme simboliche. Nel 1967, un anno prima dell’irruzione di un fangoso fiume di volgarità e di viltà nel contesto italiano, Milano e l’Italia non erano ancora devastate da un sudiciume che oggi è orrore ostile ai nostri cinque sensi, ma è anche segno esteriore d’immondizia dello spirito, di menzogna e di codardia diffuse dai bassifondi e dai palazzi del potere. Non erano ancora amministrate, governate e giudicate da individui indegni. La musica non era ancora spregiata e detestata dal trono come dall’altare.
Nella seconda metà degli anni Settanta, una esigua schiera di studiosi intelligenti ha cominciato a gettare luce su de Sabata compositore, suscitando polemiche civili ma acute nei confronti di una consuetudine musicologica e critica che si era mostrata miope e torpida nei confronti della figura di de Sabata considerata nel suo insieme. Ma anche a questo proposito si è configurata una dicotomia. Un’attenzione viva e costante si è indirizzata verso i lavori orchestrali di de Sabata, soprattutto i più maturi: un crescente interesse, anche a fini discografici, ha preso in esame non tanto la Suite del 1909 o le due Ouvertures del 1910, quanto i poemi sinfonici Juventus (1918), La notte di Platon (1923) e Gethsemani (1925). L’attenzione di cui parliamo è finalmente uscita dalla fase della “curiositas”, avendo preso coscienza della bellezza sapiente e ispirata di quelle pagine e dell’eccellenza strumentale di cui l’autore dà sempre alta prova (non parliamo, poi, della sensibilità poetica e della salda dottrina filosofica di de Sabata), e si sta rafforzando. Molto cammino resta da compiere per restituire alla cultura musicale non soltanto italiana i lavori ideati da questo luminoso artista per il teatro. Parzialmente privilegiata è stata, finora, l’azione coreografica Mille e una notte (Milano, 1931). Si offre ancora alla ricerca e allo studio pionieristico l’opera Il macigno (Milano, 1917, poi con il titolo mutato in Driada), di cui sopravvivono uno spartito per canto e pianoforte e altre scritture da cui si potrebbe ricostruire ai fini di renderlo eseguibile, questo lavoro distrutto in un incendio. Si attende una ripresa delle musiche di scena per Il mercante di Venezia di Shakespeare, eseguite a tutt’oggi una sola volta nel 1934 a Venezia (a San Trovaso) con la regia di Max Reinhardt e con Renzo Ricci, Marta Abba e Memo Benassi fra gli attori. Incompiuta e inedita è la musica per Lisistrata, su un soggetto tratto da una “contaminatio” di due commedie di Aristofane.
Restava da compiere il primo passo per quanto riguarda il lascito pianistico; è questa la dicotomia “interna” di cui si parlava. In assoluto, il primissimo passo è la registrazione e incisione presentata da questo CD. Si deve ad Alessandro Marangoni l’iniziativa davvero eroica di una ricerca sistematica, svolta nelle biblioteche dei Conservatori “Giuseppe Verdi” di Milano e “Santa Cecilia” a Roma. Il risultato è stato un’insperata serie di manoscritti e di edizioni rarissime, uniche, dimenticate, in ogni caso introvabili oggi. . Questo ha permesso di ricostruire, anche con la consulenza attenta e fervida di Eliana de Sabata Ceccato, l’appassionante sviluppo di una concezione della scrittura pianistica che prende le mosse da un abile “pastiche” di stili, ora parodiati ora affettuosamente ma sempre ironicamente “citati”, e raggiunge una cifra interamente originale, del tutto “altra” e non assimilabile ad altri esiti d’invenzione strumentale.
Le composizioni pianistiche qui raccolte, alcune scritte come pagine d’occasione o come prestazione professionale di un giovane musicista impegnato a guadagnarsi da vivere con la propria arte, sono collocate da Alessandro Marangoni in un ordine cronologico. Quest’ordine, fin dove è possibile, corrisponde a realtà. Ciò avviene là dove l’editore è Ricordi: in calce alla prima pagina è sempre rintracciabile la data di edizione che, trattandosi di pezzi pianistici quasi sempre scritti su commissione e in vista di finalità pratiche legate a spettacoli di vario genere, sembra escludere un significativo divario di tempo tra il momento della composizione e quello dell’uscita editoriale. In altri casi si tratta di una diversa firma editoriale, milanese come Ricordi ma molto meno resistente al fluire del tempo e allo svanire della memoria storica. Si tratta dei Riuniti Stabilimenti Musicali Giudici & Strada – A. Demarchi – A. Tedeschi, di Paolo Mariani fu Carlo. In questi fascicoli, dalle copertine illustrate in stile “Ballo Excelsior”, la cronologia è soltanto plausibile e congetturale. Possiamo argomentare, grazie allo stile grafico e iconografico, all’identificazione della firma editoriale poi scomparsa da Milano, alla fisionomia della scrittura rispetto a lavori esplicitamente datati e certo più maturi, che tutti il gruppo di marce e ballabili collocati da Marangoni al principio risalga ad anni anteriori o coevi alla prima guerra mondiale. Tutte queste brevi composizioni in sequenza reale o probabile sono state inquadrate dal pianista ricercatore e curatore, all’inizio e alla fine di questo CD, tra due lavori che invece rappresentano la fase più avanzata negli anni. Si tratta delle trascrizioni per pianoforte − realizzate dallo stesso autore quasi contemporaneamente agli originali per orchestra − di due partiture orchestrali che oggi cominciano ad essere note e ammirate da un novero sempre meno ristretto di ascoltatori: Gethsemani e Juventus.
Gethsemani, “poema contemplativo per orchestra”, è il più tardo e il più maturo fra tutti i lavori presentati da questo CD. Datato 1925, fu edito a Milano da Ricordi, e questa trascrizione pianistica reca il copyright 1926. Che si tratti di musica a programma, si può indurre dall’analogia con Juventus e con La notte di Platon, anche se qui l’indicazione del genere poetico e tematico (non della “forma”, che dato il carattere “durchkomponiert” del discorso musicale sarebbe comunque una “non-forma”) è diversa. Siamo dunque dinanzi a una situazione letteraria dal referente religioso, evangelico, paragonabile al referente dell’oratorio Christus am Ölberge op. 85 di Beethoven. L’assenza di un testo e la veste puramente strumentale (fra l’altro, “in bianco e nero” qui nella trascrizione per pianoforte) ci obbligano a interpretare la programmaticità suggerita dal titolo come un “inneres Programm”. L’autore trentatreenne intende la propria “meditazione” come libera dagli obblighi di storicizzazione, sicché questa non è per così dire “musica in costume”, così come sono i personaggi di certi sciagurati film hollywoodiani di genere biblico e in particolare cristologico. Perciò, niente abuso di modi ecclesiastici, niente arcaismi di prammatica; piuttosto, un forte uso di esatonia e di pentafonia, al fine di immergerci in un’atmosfera insolita e disincarnata dalla fisicità quotidiana. Anche l’invenzione melodica vuol essere strana, come fuori dal mondo. La struttura è tendenzialmente ternaria: un movimento veloce e concitato (Un po’ più vivo), racchiuso tra due movimenti più lenti, l’iniziale Calmo, contemplativo in Fa diesis maggiore, e un Grave (con raccoglimento), che ci scuote nel profondo con l’iniziale ed elementare cellula motivica discendente La 2 - Sol 2 su un pedale (tremolo) di Re bemolle nel registro più grave. La sezione centrale Un po’ più vivo si lega al Grave mediante un episodio la cui stessa didascalia agogica ed espressiva merita attenzione: Con grande pace, estaticamente (dolcissimo pp, come stellata [sic]).
Per il ballo Sui Pirenei, di cui ci sfugge l’autore, de Sabata scrisse un Gran Valzer in Mi maggiore, databile al periodo 1908-1915. Esso ci risulta edito dai citati Riuniti Stabilimenti Musicali, senza anno di edizione: in copertina, il nome dell’autore compare come “Vittorio De Sabata”, con il prenome italianizzato e con la “D” maiuscola nella preposizione del cognome. Questa variante onomastica è anche sulle copertine dei tre pezzi pianistici della serie Studenti di Parigi (sempre edita dai Riuniti Stabilimenti), mentre l’altra serie edita dai suddetti Giudici & Strada eccetera, Fra nastri e cappellini, reca soltanto l’iniziale del prenome, e sia prenome che cognome sono stampati in tutto maiuscolo, per cui non è possibile stabilire la scelta grafica relativa alla “D”. Il valzer è strutturato secondo il classico modello viennese: una breve introduzione con scaleggi ascendenti e discendenti, e una serie di ezioni di cui la prima è la briosa esposizione. La scrittura pianistica è spiritosa e mai “ordinaria” , con un fraseggio morbidi pur nella convenzionalità dell’accompagnamento in stile “un’ottava, due accordi”. Bellissima la sezione centrale, in pianissimo, nella quale l’accompagnamento mantiene il suo carattere mentre la mano destra fraseggia con una serie di tremoli delicati da cui emerge le linea melodica.
Studenti di Parigi fu a quanto pare un’azione coreografica di A. Bigiarelli (non ci è possibile per ora svelare in prenome nascosto dall’iniziale). Per essa, “Vittorio” de Sabata (anzi, “De” Sabata…) scrisse una sorta di piccola suite costituita da una Marcia, un Valzer e una Polka. La Marcia in Re maggiore fa uso abbondante di cromatismi dal significato parodistico: deformazione e destrutturazione dominano anche nel Valzer in La maggiore preceduto dalla consueta introduzione in 2/4. La scrittura non pretende nulla: neppure l’originalità. Ma…quale mano! Quale scioltezza di riflessi, quante idee, come per esempio il divertirsi a “cantare” su una nota sola mentre la mano sinistra svolge un elaborato disegno! Nella Polka in Sol maggiore (ma conclusa in Do maggiore) ritorna il cromatismo, a colorire il ritmo stupidello connaturato in questo tipo di danza.
Principe è un fox-trot in Re maggiore (ma concluso in Sol maggiore), non databile (ma, a nostro avviso, sempre degli anni anteguerra). Qui ci manca l’indicazione editoriale: l’unico testo a disposizione di Marangoni (presumibilmente, di qualsiasi futuro ricercatore) è una stampa privata che lo stesso de Sabata ventenne o giù di lì si fece preparare da qualche tipografia, a quanto si vede non eccelsa. È un lavoretto spiritoso, in stile accentuatamente comico, con molti cromatismi e acciaccature, e scivola via divertendoci un mondo. Chiunque conosca il de Sabata degli anni d’oro, sacerdotale e circondato da cerchi magici di austera bellezza, proverà un effetto straniante ascoltando queste nugae tanto poco pretenziose quanto abili. E il “principe” del titolo? Umberto di Savoia era allora bambino.
Per l’azione coreografica Fra nastri e cappellini, dedicata «al gentilissimo signor Salvatore Danielli», de Sabata scrisse un’altra serie di danze: qui Marangoni esegue un Gran valzer in Sol maggiore, una Marinaresca in La bemolle maggiore e una Polka in Re maggiore (conclusa in Sol maggiore) seguita da un Galopp in Do maggiore. Vale la solita datazione approssimativa, anteriore alla prima guerra mondiale. Nel Valzer è frequente la clausola a cadenza sospesa, spesso con la sensibile come suono portante, ciò che dà un effetto reiterato grazie al quale ci rammentiamo per esempio, della Rondine di Puccini. La Marinaresca (ossia una “barcarola”) non ha proprio nulla di italiano: ci sono momenti incantevoli soprattutto nella sezione finale in Fa maggiore, dove i molti accordi alterati e ammorbiditi da appoggiature respirano un ‘aura “boema” alla Zdeněk Fibich o alla Josef Suk. Quanto alla spassosa Polka e al Galopp che ne trae per così dire le logiche conseguenze, avvertiamo consanguineità con l’ironia sferzante della Diva de l’Empire di Erik Satie.
Tra “Vittorio” e Victor de Sabata, tra il giovanissimo musicista straordinariamente dotato di talento e di spirito, e il giovane direttore d’orchestra già riconosciuto come artista di genio e avviato sulla sua luminosa strada, c’è un salto di stile e di impegno addirittura traumatico. Non è fuori luogo usare l’aggettivo “irriconoscibile”, se non forse con l’eccezione dell’ultimo dei tre piccoli e preziosi lavori di cui stiamo per dire. Nel 1918, l’anno in cui l’autore assunse il suo incarico direttoriale all’Opéra di Montecarlo, Ricordi pubblicò di Victor de Sabata i Tre pezzi, così brevemente intitolati. Essi sono: Câline, piccolo studio di “legato”, in Si maggiore; 2. Habanera, in Fa diesis maggiore; 3. Do you want me, quasi “cake-walk”, in Fa maggiore (ma senza alterazioni nell’armatura di chiave). Câline è una scrittura raffinatissima, pianisticamente ardua con il suo esercizio rigoroso di accordi pieni, corposi, fortissimamente alterati, e continuamente legati. Soltanto un eccellente pianista può ricavare dall’esecuzione il suono carezzevole adatto alla sensazione evocata dal titolo francese: la tenerezza e la grazia maliziosa di una “fille en fleur” tra adolescenza e giovinezza. Il fascino arcano di questa composizione nasce dal colore politonale ed è il primo vero ingresso di de Sabata compositore nell’aura novecentesca di ciò che è stato il secolo di Adorno, di Benjamin, di De Chirico, di Mondrian e di Proust. Incantevole e melodicamente inafferrabile la Habanera (di per sé, questo è un o dei ritmi più fascinosi della Galassia), e dispettosamente difficilissimo a suonarsi il “cake-walk”, certo mèmore dell’omonimo pezzo che conclude il Children’s Corner di Claude Debussy.
L’eccezionale rassegna, che per ciascun ascoltatore sarà un’assoluta sorpresa, si conclude con la trascrizione pianistica che de Sabata realizzò di Juventus, “poema sinfonico per orchestra”, composto nel 1918 edito da Ricordi nel 1920. Diversamente da Gethsemani, questo ampio e potente lavoro si apre in fortissimo, ed è percorso da cima a fondo da un‘energia inesauribile. La prima sezione, in La maggiore, ci aggredisce con un’irruenza forse non immemore dell’incipit di Don Juan di Richard Strauss. L’idea centrale di questa composizione “a programma” rientra nella tradizione cui si ascrivono Franz Liszt con Von der Wiege bis zum Grabe (1882), Josef Suk con Zrání (“Maturazione”, 1917) , e lo stesso Richard Strauss con Tod und Verklärung (1890): la vita individuale del compositore descritta in musica, e, controluce l’esistenza di ognuno, di. “Jedermann”. La giovinezza è rappresentata in suoni da de Sabata senza alcuna banale caduta nel descrittivismo: c’è soltanto temperatura colore, dinamica. Segnaliamo all’ascolto la splendida sezione in La maggiore, Molto più largamente, che verso la fine della composizione riesce ad evocare, in questa trascrizione, il timbro e la sonorità delle trombe mediante un tremolo fortissimo della mano sinistra e raddoppi d’ottava della mano destra. Da questo lavoro del 1918 non emerge, come qualcuno si aspetterebbe, un clima espressionistico. Tuttavia, verso la metà, l’ascoltatore è improvvisamente colpito da una successione armonica che si trova al principio della Sonata op.1 di Alban Berg.
Per l’azione coreografica Fra nastri e cappellini, dedicata «al gentilissimo signor Salvatore Danielli», de Sabata scrisse un’altra serie di danze: qui Marangoni esegue un Gran valzer in Sol maggiore, una Marinaresca in La bemolle maggiore e una Polka in Re maggiore (conclusa in Sol maggiore) seguita da un Galopp in Do maggiore. Vale la solita datazione approssimativa, anteriore alla prima guerra mondiale. Nel Valzer è frequente la clausola a cadenza sospesa, spesso con la sensibile come suono portante, ciò che dà un effetto reiterato grazie al quale ci rammentiamo per esempio, della Rondine di Puccini. La Marinaresca (ossia una “barcarola”) non ha proprio nulla di italiano: ci sono momenti incantevoli soprattutto nella sezione finale in Fa maggiore, dove i molti accordi alterati e ammorbiditi da appoggiature respirano un ‘aura “boema” alla Zdeněk Fibich o alla Josef Suk. Quanto alla spassosa Polka e al Galopp che ne trae per così dire le logiche conseguenze, avvertiamo consanguineità con l’ironia sferzante della Diva de l’Empire di Erik Satie.
Tra “Vittorio” e Victor de Sabata, tra il giovanissimo musicista straordinariamente dotato di talento e di spirito, e il giovane direttore d’orchestra già riconosciuto come artista di genio e avviato sulla sua luminosa strada, c’è un salto di stile e di impegno addirittura traumatico. Non è fuori luogo usare l’aggettivo “irriconoscibile”, se non forse con l’eccezione dell’ultimo dei tre piccoli e preziosi lavori di cui stiamo per dire. Nel 1918, l’anno in cui l’autore assunse il suo incarico direttoriale all’Opéra di Montecarlo, Ricordi pubblicò di Victor de Sabata i Tre pezzi, così brevemente intitolati. Essi sono: Câline, piccolo studio di “legato”, in Si maggiore; 2. Habanera, in Fa diesis maggiore; 3. Do you want me, quasi “cake-walk”, in Fa maggiore (ma senza alterazioni nell’armatura di chiave). Câline è una scrittura raffinatissima, pianisticamente ardua con il suo esercizio rigoroso di accordi pieni, corposi, fortissimamente alterati, e continuamente legati. Soltanto un eccellente pianista può ricavare dall’esecuzione il suono carezzevole adatto alla sensazione evocata dal titolo francese: la tenerezza e la grazia maliziosa di una “fille en fleur” tra adolescenza e giovinezza. Il fascino arcano di questa composizione nasce dal colore politonale ed è il primo vero ingresso di de Sabata compositore nell’aura novecentesca di ciò che è stato il secolo di Adorno, di Benjamin, di De Chirico, di Mondrian e di Proust. Incantevole e melodicamente inafferrabile la Habanera (di per sé, questo è un o dei ritmi più fascinosi della Galassia), e dispettosamente difficilissimo a suonarsi il “cake-walk”, certo mèmore dell’omonimo pezzo che conclude il Children’s Corner di Claude Debussy.
L’eccezionale rassegna, che per ciascun ascoltatore sarà un’assoluta sorpresa, si conclude con la trascrizione pianistica che de Sabata realizzò di Juventus, “poema sinfonico per orchestra”, composto nel 1918 edito da Ricordi nel 1920. Diversamente da Gethsemani, questo ampio e potente lavoro si apre in fortissimo, ed è percorso da cima a fondo da un‘energia inesauribile. La prima sezione, in La maggiore, ci aggredisce con un’irruenza forse non immemore dell’incipit di Don Juan di Richard Strauss. L’idea centrale di questa composizione “a programma” rientra nella tradizione cui si ascrivono Franz Liszt con Von der Wiege bis zum Grabe (1882), Josef Suk con Zrání (“Maturazione”, 1917) , e lo stesso Richard Strauss con Tod und Verklärung (1890): la vita individuale del compositore descritta in musica, e, controluce l’esistenza di ognuno, di. “Jedermann”. La giovinezza è rappresentata in suoni da de Sabata senza alcuna banale caduta nel descrittivismo: c’è soltanto temperatura colore, dinamica. Segnaliamo all’ascolto la splendida sezione in La maggiore, Molto più largamente, che verso la fine della composizione riesce ad evocare, in questa trascrizione, il timbro e la sonorità delle trombe mediante un tremolo fortissimo della mano sinistra e raddoppi d’ottava della mano destra. Da questo lavoro del 1918 non emerge, come qualcuno si aspetterebbe, un clima espressionistico. Tuttavia, verso la metà, l’ascoltatore è improvvisamente colpito da una successione armonica che si trova al principio della Sonata op.1 di Alban Berg.
di Quirino Principe (note al CD "Victor de Sabata - Composizioni per pianoforte", BDI 165)
2 commenti:
Grazie per questo regalo metasettimanale...
E' un caso?
Un abbraccio
Cecilia
Sì, direi un caso!
Ciao ciao.
HvT
Posta un commento