Quando ci si accosta a una personalità bizzarra, per certi certi versi «romanzesca» come quella di Hugo Wolf è difficile riuscire a prescindere dall'aneddotica e tracciare un profilo rigorosamente artistico: complice, in questo caso, persino Thomas Mann, che nel Doktor Faustus riuscì a sovrapporre alla figura umana di Wolf il credo estetico di Schönberg, ricavandone il personaggio di Adrian Leverkühn. E come mai la figura umana di Wolf si prestava così bene a ospitare la crisi creativa che indirizzerà prima verso il ripudio del sistema tonale, poi verso le geometrie dodecafoniche? Proprio per via del tracollo intellettuale che segna il cammino terreno di Wolf, consegnato già nel 1897, appena trentasettenne, alla notte della follia e rimasto ancora per sei anni a vegetare, come Schumann, in una clinica psichiatrica. Il temperamento lunatico e imprevedibile, l'ipersensibiltà estrema, l'altemanza incontrollabile di fasi creative rigogliose e fasi di totale aridità, infine la fisionomia di «vagabondo» alla ricerca di qualcosa che gli sfuggì evidentemente per tutta la vita: viene spontaneo cercare di scoprire nelle sue composizioni una traccia di questi drammi personali. Nella realtà storica, però, e nella concretezza del suo messaggio artistico, Wolf non è affatto Schönberg e soprattutto non è il Leverkühn del romanzo di Thomas Mann. E piuttosto un poeta dell'intimità, un cesellatore di piccole forme la cui genialità è consegnata per intero (tolte piccole eccezioni) a un solo genere musicale, quello del Lied, a cui consacrò tutta la vita. Dopo Wolf, che ne pubblicò oltre duecento, il Lied per voce e pianoforte tacerà, cedendo il passo alla fioritura del Lied per voce e orchestra. A testimonianza, se ce ne fosse bisogno, dello sviluppo a cui era approdato l'accompagnamento pianistico, ormai maturo per riversarsi in sontuosi organici orchestrali. L'impressione generale data dalla lirica wolfiana è quella di un desiderio di canto che non riesce a trovare il suo sbocco e a dirsi per intero. Questa non è impotenza di epigono, quanto piuttosto estremo autocontrollo, pudore del sentimento. Schumann, tanto venerato da Wolf, aveva l'abitudine di sdoppiare le linee tematiche creando echi nascosti, «voci segrete», che sfuggono al profano frettoloso e si rivelano solo a chi decifri la pagina in umiltà e comunione di spirito, sapendo scavare nei sottintesi. La scrittura di Wolf è tutta intessuta di riverberi segreti: una scrittura senza dubbio elusiva e poco accattivante, ma di una precisione ed essenzialità estreme. Viene in mente la narrativa di Schnitzler, scrittore della Vienna fine secolo di cui Wolf era cittadino adottivo. Fra giri di valzer, frivolezze e bon ton l'Impero imbocca il sentiero del tramonto, dissimulando la rovina sotto l'insegna del Prater. E con l'Impero se ne va alla deriva l'individuo, disancorato dalla realtà, lento all'azione e incapace di decifrare i suoi stessi sentimenti. In Wolf (come in Schnitzler, come in Hofmannsthal) la crisi dell'io e l'insufficienza del linguaggio sono ormai dati di fatto incontrovertibili; lo si capisce dalla tortuosità delle armonie, dalla ricerca inesausta di soluzioni timbriche nuove, dal mutuo intrecciarsi di canto e strumento (mai così interdipendenti prima d'ora).
Si parla spesso di Wolf come di un post-wagneriano, anzi come di un operista mancato che ripiegò sul Lied per consolarsi come meglio sapeva della sua scarsa attitudine a maneggiare l'orchestra. Ascoltando i suoi Lieder, però, non si percepiscono quasi mai echi wagneriani. Certo, fra i Goethe-Lieder ce n'è almeno uno, Mignon (Kennst du das Land), che raccoglie in tutta evidenza l'eredità, se non del Tristano, almeno dei Wesendonck-Lieder. Ma sono casi sporadici, da non scegliere come pietre di paragone. Le strategie tonali dei due compositori sono molto diverse, il fatto che entrambe facciano ampiamente ricorso al cromatismo non è garanzia di identità né di dipendenza, conferma l'assimilazione dei canoni wagneriani, ma anche l'indipendenza e l'originalità con cui vennero rielaborati. Ecco i tranelli della biografia: ricollegare Wolf a Wagner viene spontaneo, perché si sa che il nostro compositore trascorreva pomeriggi e notti a ripassare al pianoforte i drammi wagneriani; perché si sa che stravedeva per Wagner al punto da convertirsi, come lui, alla dieta vegetariana e alla fobia per Mendelssohn; perché si sa che, alla notizia della sua morte, scappò ad appollaiarsi su un albero, per leggere il Parsifal in solitudine e raccoglimento. Queste stravaganze sono ciò che più falsa l'immagine di Wolf e che rischia di consegnarla ad alcuni luoghi comuni. Prendiamo un esempio di natura biografica: Wolf ebbe numerosi amori, veri e propri incendi affettivi che poi dileguavano all'improvviso, senza un perché. O meglio, un perché ci sarà ben stato, ma per noi è sepolto nella nebbia più fitta. Wolf l'emotivo, Wolf l'irruente era in realtà segretissimo riguardo alla sua sfera privata, o quantomeno era così accorto e sensibile nello scegliersi i confidenti che nulla mai ne trapelò. Al biografo non resta che attribuire certe metamorfosi inattese alla pazzia infieri. Oppure rassegnarsi a riportare i fatti, ammettendo di non poter fornire spiegazioni che vadano al di là dell'ipotesi.
Restiamo quindi anche noi ai fatti e atteniamoci all'unico «fatto» che un artista possa produrre, vale a dire le sue manifestazioni creative. Tralasciamo anche le critiche, tra incensi (per Wagner, per Bruckner) e fiele (per Brahms, per gli italiani, per Mendelssohn), scritte da Wolf negli anni della gavetta per un pettegolo giornale viennese, il Salonblatt.
Non c'è niente di più semplice da riassumere e memorizzare del catalogo wolfiano: a parte il Poema Sinfonico Penthesilea, la Serenata Italiana e l'opera Il Corregidor, è costituito unicamente da Lieder. Non Lieder sparsi, però, tratti volta per volta da autori diversi, ma quaderni «monografici» costituiti quasi tutti da una cinquantina di pagine tutte dello stesso poeta. Il quaderno più breve, l'unico a comprendere «soltanto» una ventina di Lieder, è quello su testi di Eichendorff. Seguono i Mörike-Lieder, i Goethe-Lieder, e infine i due «canzonieri» su poesie popolari rispettivamente spagnole e italiane. Non si tratta di «cicli» nel senso schubertiano o schumanniano, con un filo conduttore interno, una sorta di trama che lega i diversi testi. Questi sono piuttosto «ritratti» di poeti, simbiosi artistiche, oggi con Mörike, domani con Goethe. Questo è già un fatto significativo: pur mantenendo inalterate certe caratteristiche di scrittura, i vari fascicoli acquistano ciascuno un'identità propria, in relazione al contesto poetico. Beninteso, non attribuiamo queste capacità mimetiche a un presunto eclettismo, la scrittura di Wolf è sempre, troppo densa e scavata per poter venir accostata anche lontanamente all'eclettismo. Però senza dubbio l'autocontrollo di stile, la bravura e l'acume con cui la pagina musicale è modellata su quella poetica pur senza esserne succube sfatano l'idea del compositore impulsivo. Wolf sa fare appello all'estrosità nel quaderno eichendorffiano, allo spleen in quello mörikiano, a un classicismo mai calligrafico quando affronta Goethe. E poi ci sorprende ancora con le due ultime raccolte, il Canzoniere spagnolo e il Canzoniere italiano, dove tutti questi ingredienti ritornano, irrorati da un umorismo delicato e amaro nello stesso tempo.
Nei Canzonieri si dipanano battibecchi immaginari fra innamorati, simulando dialoghi costellati di alti e bassi: ecco perchè la tradizione sia concertistica sia discografica ne affida sempre l'esecuzione a una coppia di interpreti. «L'artista è colui nella cui anima è passata una vita», diceva Busoni. E la vita inquieta, ardente, delusa di Wolf palpita in queste pagine meglio che in tante «esternazioni» provvisorie. La fantasmagoria di affetti, reazioni e situazioni che sboccia da queste vignette alla Callot sembra improvvisata, ma non lo è affatto: Wolf è scrupolosissimo nelle annotazioni espressive e ricorre sistematicamente all'uso della didascalia per mettere l'interprete sulla strada giusta. La matrice di queste indicazioni («selvaggio», «affettuoso», «sfacciato», «teneramente», il tutto rigorosamente in tedesco) è nella Ballata, il filone più colloquiale e pittoresco della liederistica, quello più consanguineo al dramma, quello più incline a evocare sfondi «scenografici» e non solo emozioni spirituali, e che pertanto attinge alla pratica tutta teatrale delle didascalie. In conclusione, Wolf mostra davvero di raccogliere per intero l'eredità storica del Lied, dal versante più lirico e schubertiano fino a quello più oggettivo e loewiano, cosi, se da un lato risulta difficilmente classificabile in questa o in quella tendenza, dall'altro offre all'interprete la responsabilità e la gioia di intuire questo patrimonio di sfumature e addentellati, trasmettendoli al pubblico. Fondamentale sarà in primo luogo la chiarezza della dizione, su cui aveva già insistito Loewe (autore soprattutto di Ballate) in alcuni appunti conservati dalla figlia Julie e su cui tornò a più riprese Strauss, invitando i cantanti a esercitarsi preventivamente nella declamazione, in modo tale che all'atto del canto niente del testo risultasse incomprensibile, neanche nel fassaggi vocalmente più ostici. A Wolf sembrava tanto preziosa la conoscenza del testo da premurarsi personalmente di darne lettura prima dell'esecuzione del Lied, e guai al distratto che non se ne desse per inteso e continuasse a chiacchierare col vicino! Il punto di vista di Wolf è comprensibile; la musica non è affatto una tautologia della parola, si capisce. Però in un Lied ben scritto entrambe le componenti partecipano della stessa ispirazione e non possono essere scollegate. Quindi il decorso musicale è in parte sorretto da leggi proprie, in parte veicolato dal contenuto poetico. Se il contenuto
poetico è sconosciuto o risulta poco intellegibile all'atto dell'esecuzione, a essere compromesso è il significato stesso del Lied. L'interprete dovrà quindi essere un cantante-attore: non conta solo la bellezza della voce, ma la sua duttilità, la sua abilità nell'inflettersi anche a toni parlati, la sua forza di penetrazione psicologica nel portare allo scoperto ombreggiature minime, variazioni impercettibili nel ritmo o nell'armonia, particolari che non vanno appiattiti, ma nemmeno enfatizzati. E poi c'è la difficoltà dell'apporto pianistico: nei Lieder di Wolf non è quasi mai pensabile una scissione fra canto e accompagnamento strumentale, perchè l'uno completa l'altro sia armonicamente sia come senso melodico. L'affiatamento fra i due interpreti è fondamentale. Sembra un'osservazione scontata, ma in questo caso rispecchia una necessità imprescindibile. Senza quest'intesa assoluta il Lied wolfiano rischia in genere di perdere la sua coerenza e di apparire come un coacervo di dissonanze. Ormai il pubblico moderno è ben lontano dalla severità di giudizio del secolo scorso, quando il brahmsiano Max Kalbeck accusava il linguaggio di Wolf di patire le «convulsioni armoniche». Ma dal momento che la scrittura di Wolf non è in ogni caso fra le più accessibili (e la lingua complica ancor più le cose, per l'ascoltatore non germanofilo) è articolarmente preziosa un'interpretazione che metta in luce la policromia interna, il superbo incastonarsi di frammenti pianistici e frammenti vocali, l'unitarietà complessiva e insieme la varietà. Sarà per questi motivi che, nonostante trascorrano gli anni, certe incisioni non appaiono mai invecchiate e non si avverte il desiderio di sostituirle con edizioni più recenti, anche se in realtà resta probabilmente ancora molto da aggiungere e una nuova «versione» ben condotta delle miscellanee più celebri (Mörike-Lieder, Italienisches e Spanisches Liederbuch) potrebbe persino consacrare una carriera, per l'importanza e la difficoltà dell'impresa. Solo il grande «interprete» (qualcosa di riù del bravo cantante, quindi) azzarda l'approccio con Wolf . La melodia è spesso (a dir poco) disadorna e per far apprezzare il Lied bisogna di conseguenza intervenire con la fantasia e le doti colloquiali. In una parola, sono necessari i «cantanti-attori», che riescono a fondere parola e canto, lirismo e oggettività, tragedia e commedia aiutando anche chi ascolta a entrare nell'universo in miniatura del Lied. In un momento che sembra assistere a una crisi della figura carismatica dell'interprete, che qualche volta pare voler omologare le esecuzioni secondo un cliché comune di esattezza un po' anodina, l'opera liederistica di Wolf è ancora una sfida aperta all'originalità. Questo un po' perché bisogna misurarsi con le incisioni strepitose dei cantanti-attori, per l'appunto, da Fischer-Dieskau a Elisabeth Schwarzkopf e Irmgard Seefried. E un po' perché in Wolf l'esattezza esecutiva non potrà mai essere soddisfacente e non riuscirà mai a soppiantare il contributo personale e l'estro dell'interprete, che ritorna a essere un vero medium tra compositore e pubblico.
Si parla spesso di Wolf come di un post-wagneriano, anzi come di un operista mancato che ripiegò sul Lied per consolarsi come meglio sapeva della sua scarsa attitudine a maneggiare l'orchestra. Ascoltando i suoi Lieder, però, non si percepiscono quasi mai echi wagneriani. Certo, fra i Goethe-Lieder ce n'è almeno uno, Mignon (Kennst du das Land), che raccoglie in tutta evidenza l'eredità, se non del Tristano, almeno dei Wesendonck-Lieder. Ma sono casi sporadici, da non scegliere come pietre di paragone. Le strategie tonali dei due compositori sono molto diverse, il fatto che entrambe facciano ampiamente ricorso al cromatismo non è garanzia di identità né di dipendenza, conferma l'assimilazione dei canoni wagneriani, ma anche l'indipendenza e l'originalità con cui vennero rielaborati. Ecco i tranelli della biografia: ricollegare Wolf a Wagner viene spontaneo, perché si sa che il nostro compositore trascorreva pomeriggi e notti a ripassare al pianoforte i drammi wagneriani; perché si sa che stravedeva per Wagner al punto da convertirsi, come lui, alla dieta vegetariana e alla fobia per Mendelssohn; perché si sa che, alla notizia della sua morte, scappò ad appollaiarsi su un albero, per leggere il Parsifal in solitudine e raccoglimento. Queste stravaganze sono ciò che più falsa l'immagine di Wolf e che rischia di consegnarla ad alcuni luoghi comuni. Prendiamo un esempio di natura biografica: Wolf ebbe numerosi amori, veri e propri incendi affettivi che poi dileguavano all'improvviso, senza un perché. O meglio, un perché ci sarà ben stato, ma per noi è sepolto nella nebbia più fitta. Wolf l'emotivo, Wolf l'irruente era in realtà segretissimo riguardo alla sua sfera privata, o quantomeno era così accorto e sensibile nello scegliersi i confidenti che nulla mai ne trapelò. Al biografo non resta che attribuire certe metamorfosi inattese alla pazzia infieri. Oppure rassegnarsi a riportare i fatti, ammettendo di non poter fornire spiegazioni che vadano al di là dell'ipotesi.
Restiamo quindi anche noi ai fatti e atteniamoci all'unico «fatto» che un artista possa produrre, vale a dire le sue manifestazioni creative. Tralasciamo anche le critiche, tra incensi (per Wagner, per Bruckner) e fiele (per Brahms, per gli italiani, per Mendelssohn), scritte da Wolf negli anni della gavetta per un pettegolo giornale viennese, il Salonblatt.
Non c'è niente di più semplice da riassumere e memorizzare del catalogo wolfiano: a parte il Poema Sinfonico Penthesilea, la Serenata Italiana e l'opera Il Corregidor, è costituito unicamente da Lieder. Non Lieder sparsi, però, tratti volta per volta da autori diversi, ma quaderni «monografici» costituiti quasi tutti da una cinquantina di pagine tutte dello stesso poeta. Il quaderno più breve, l'unico a comprendere «soltanto» una ventina di Lieder, è quello su testi di Eichendorff. Seguono i Mörike-Lieder, i Goethe-Lieder, e infine i due «canzonieri» su poesie popolari rispettivamente spagnole e italiane. Non si tratta di «cicli» nel senso schubertiano o schumanniano, con un filo conduttore interno, una sorta di trama che lega i diversi testi. Questi sono piuttosto «ritratti» di poeti, simbiosi artistiche, oggi con Mörike, domani con Goethe. Questo è già un fatto significativo: pur mantenendo inalterate certe caratteristiche di scrittura, i vari fascicoli acquistano ciascuno un'identità propria, in relazione al contesto poetico. Beninteso, non attribuiamo queste capacità mimetiche a un presunto eclettismo, la scrittura di Wolf è sempre, troppo densa e scavata per poter venir accostata anche lontanamente all'eclettismo. Però senza dubbio l'autocontrollo di stile, la bravura e l'acume con cui la pagina musicale è modellata su quella poetica pur senza esserne succube sfatano l'idea del compositore impulsivo. Wolf sa fare appello all'estrosità nel quaderno eichendorffiano, allo spleen in quello mörikiano, a un classicismo mai calligrafico quando affronta Goethe. E poi ci sorprende ancora con le due ultime raccolte, il Canzoniere spagnolo e il Canzoniere italiano, dove tutti questi ingredienti ritornano, irrorati da un umorismo delicato e amaro nello stesso tempo.
Nei Canzonieri si dipanano battibecchi immaginari fra innamorati, simulando dialoghi costellati di alti e bassi: ecco perchè la tradizione sia concertistica sia discografica ne affida sempre l'esecuzione a una coppia di interpreti. «L'artista è colui nella cui anima è passata una vita», diceva Busoni. E la vita inquieta, ardente, delusa di Wolf palpita in queste pagine meglio che in tante «esternazioni» provvisorie. La fantasmagoria di affetti, reazioni e situazioni che sboccia da queste vignette alla Callot sembra improvvisata, ma non lo è affatto: Wolf è scrupolosissimo nelle annotazioni espressive e ricorre sistematicamente all'uso della didascalia per mettere l'interprete sulla strada giusta. La matrice di queste indicazioni («selvaggio», «affettuoso», «sfacciato», «teneramente», il tutto rigorosamente in tedesco) è nella Ballata, il filone più colloquiale e pittoresco della liederistica, quello più consanguineo al dramma, quello più incline a evocare sfondi «scenografici» e non solo emozioni spirituali, e che pertanto attinge alla pratica tutta teatrale delle didascalie. In conclusione, Wolf mostra davvero di raccogliere per intero l'eredità storica del Lied, dal versante più lirico e schubertiano fino a quello più oggettivo e loewiano, cosi, se da un lato risulta difficilmente classificabile in questa o in quella tendenza, dall'altro offre all'interprete la responsabilità e la gioia di intuire questo patrimonio di sfumature e addentellati, trasmettendoli al pubblico. Fondamentale sarà in primo luogo la chiarezza della dizione, su cui aveva già insistito Loewe (autore soprattutto di Ballate) in alcuni appunti conservati dalla figlia Julie e su cui tornò a più riprese Strauss, invitando i cantanti a esercitarsi preventivamente nella declamazione, in modo tale che all'atto del canto niente del testo risultasse incomprensibile, neanche nel fassaggi vocalmente più ostici. A Wolf sembrava tanto preziosa la conoscenza del testo da premurarsi personalmente di darne lettura prima dell'esecuzione del Lied, e guai al distratto che non se ne desse per inteso e continuasse a chiacchierare col vicino! Il punto di vista di Wolf è comprensibile; la musica non è affatto una tautologia della parola, si capisce. Però in un Lied ben scritto entrambe le componenti partecipano della stessa ispirazione e non possono essere scollegate. Quindi il decorso musicale è in parte sorretto da leggi proprie, in parte veicolato dal contenuto poetico. Se il contenuto
poetico è sconosciuto o risulta poco intellegibile all'atto dell'esecuzione, a essere compromesso è il significato stesso del Lied. L'interprete dovrà quindi essere un cantante-attore: non conta solo la bellezza della voce, ma la sua duttilità, la sua abilità nell'inflettersi anche a toni parlati, la sua forza di penetrazione psicologica nel portare allo scoperto ombreggiature minime, variazioni impercettibili nel ritmo o nell'armonia, particolari che non vanno appiattiti, ma nemmeno enfatizzati. E poi c'è la difficoltà dell'apporto pianistico: nei Lieder di Wolf non è quasi mai pensabile una scissione fra canto e accompagnamento strumentale, perchè l'uno completa l'altro sia armonicamente sia come senso melodico. L'affiatamento fra i due interpreti è fondamentale. Sembra un'osservazione scontata, ma in questo caso rispecchia una necessità imprescindibile. Senza quest'intesa assoluta il Lied wolfiano rischia in genere di perdere la sua coerenza e di apparire come un coacervo di dissonanze. Ormai il pubblico moderno è ben lontano dalla severità di giudizio del secolo scorso, quando il brahmsiano Max Kalbeck accusava il linguaggio di Wolf di patire le «convulsioni armoniche». Ma dal momento che la scrittura di Wolf non è in ogni caso fra le più accessibili (e la lingua complica ancor più le cose, per l'ascoltatore non germanofilo) è articolarmente preziosa un'interpretazione che metta in luce la policromia interna, il superbo incastonarsi di frammenti pianistici e frammenti vocali, l'unitarietà complessiva e insieme la varietà. Sarà per questi motivi che, nonostante trascorrano gli anni, certe incisioni non appaiono mai invecchiate e non si avverte il desiderio di sostituirle con edizioni più recenti, anche se in realtà resta probabilmente ancora molto da aggiungere e una nuova «versione» ben condotta delle miscellanee più celebri (Mörike-Lieder, Italienisches e Spanisches Liederbuch) potrebbe persino consacrare una carriera, per l'importanza e la difficoltà dell'impresa. Solo il grande «interprete» (qualcosa di riù del bravo cantante, quindi) azzarda l'approccio con Wolf . La melodia è spesso (a dir poco) disadorna e per far apprezzare il Lied bisogna di conseguenza intervenire con la fantasia e le doti colloquiali. In una parola, sono necessari i «cantanti-attori», che riescono a fondere parola e canto, lirismo e oggettività, tragedia e commedia aiutando anche chi ascolta a entrare nell'universo in miniatura del Lied. In un momento che sembra assistere a una crisi della figura carismatica dell'interprete, che qualche volta pare voler omologare le esecuzioni secondo un cliché comune di esattezza un po' anodina, l'opera liederistica di Wolf è ancora una sfida aperta all'originalità. Questo un po' perché bisogna misurarsi con le incisioni strepitose dei cantanti-attori, per l'appunto, da Fischer-Dieskau a Elisabeth Schwarzkopf e Irmgard Seefried. E un po' perché in Wolf l'esattezza esecutiva non potrà mai essere soddisfacente e non riuscirà mai a soppiantare il contributo personale e l'estro dell'interprete, che ritorna a essere un vero medium tra compositore e pubblico.
di Elisabetta Fava ("MUSICA" n.111, aprile-maggio 1999)
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