(Il polso sinistro di Nikolaus Harnoncourt porta il segno d'una cicatrice, di tempi lontani)
Da ragazzo scolpivo il legno.
(Dice. Mostra il braccio, stringe un poco le mani, come volesse chiudervi un suono o un pensiero. Ride)
Sono entrato in orchestra, non ho più scolpito. Non si possono fare le due cose. La scultura era troppo vulnerante.
(Vulnerante l'ha detto in italiano, non nel suo rapido tedesco; io non ho idea di come fossero le figure che tentava di sbozzare il ragazzetto Nikolaus con lo scalpello; ma per parecchie ore avevo cercato la giusta parola per scrivere com'era la sua Incompiuta, che continuava a ferirmi, e la sentivo pronunciare da lui. Vulnerante.)
Suonavo dunque il violoncello, nell'orchestra. Mi piaceva, era esaltante a volte. Ho conosciuto grandi direttori, li ho ammirati. La grandezza ha un suo segno, è assurdo e inutile discutere. Ma sono arrivato a un punto in cui non riuscivo più a farcela. Mi dicevo: divento matto. Suono una musica sul violoncello e ne sento un'altra. Eran due cose totalmente diverse. In questi casi non c'è altra alternativa che provare a fare venire fuori la musica da solo. Il suono, il pensiero. Ho cominciato a cercare, e a dirigere.
Partendo da che cosa?
Ah, dalle note. Restando nelle note. La mia interpretazione è tutta dentro le note. Le note come sono scritte dal compositore. La mia interpretazione credo sia nelle note: cosa dice la scrittura delle note. Il punto di partenza è questo. Leggere quello che il compositore ha scritto. L'autografo, naturalmente, non le edizioni. Ogni edizione è un'interpretazione dell'editore. Noi siamo qui a Feldkirch per suonare Schubert, e cerchiamo le note scritte dalla mano di Schubert. Penso all'edizione corrente, rivista da Brahms. E' piena di Brahms, di bellissimo Brahms. Ha tolto, ha allungato, è intervenuto dove Schubert ha sbagliato, cioè dove Schubert era troppo poco Brahms. Non c'è da scandalizzarsi, però è un'interpretazione da cui non si può partire, altrimenti si resta già spostati in partenza dall'idea creatrice.
Lei tiene un corso a Salzburg sulla lettura delle partiture autografe. Penso ai problemi di filologia e d'interpretazione che nasceranno continuamente.
No. (Si concentra, guarda avanti, come avesse un foglio su un tavolino immaginario. Siamo seduti nella saletta d'un albergo, in tutta semplicità. Fuori c'è la lucida chiarità un po' pallida dell'umida estate austriaca, da una finestra dietro a lui si avverte l'inizio d'un paesaggio. E' la sua luce, i testi dicono che è nato a Berlino, ma lo si sente un uomo moderatamente nordico).
No. E' un corso che riguarda una cosa precisa: la lettura dei segni. Ha un titolo: "Istruzioni per l'uso".
Come nelle medicine, come negli elettrodomestici?
Sì, bisogna sapere come si leggono i segni. I segni scritti dai compositori. Ho studiato tutta la vita questo problema. Ho scoperto che cambiano ad ogni generazione. Noi diciamo Mozart, e la sua è una vita breve; ma anche i suoi segni, ad esempio, non sono gli stessi e non vogliono dire le stesse cose nel Mozart giovane e nel Mozart maturo. Occorre un lungo lavoro di decodificazione, di confronti, di conoscenza della prassi di quei giorni, delle lettere e delle dichiarazioni dell'autore. Molto complesso, ma alla fine spesso tutto diventa semplice, si risolvono problemi che sembravano distrazioni o contraddizioni, perché si era partiti da un equivoco. Con gli allievi ci fermiamo proprio su questa piccola cosa che è il segno, ma concretamente, con l'idea di capire come usarlo, volta per volta.
La scrittura è affascinante.
La scrittura è magica. Meravigliosa. Io sono sopraffatto ogni volta al pensiero di come possa essere espressa una melodia da una serie di punti. E sappiamo che c'è un complesso di regole per saperne il tracciato. Anche queste leggi non esauriscono l'idea musicale, cioè non permettono di scriverla compiutamente, a parte in ogni caso gli infiniti modi di eseguirla. Ma leggendo le pagine scritte di pugno dell'autore, si capisce subito che nessuna edizione a stampa può sostituirla. L'edizione a stampa deve partire dal fatto che ci sia una realtà scientifica trasportabile con altre cifre. Ad esempio, l'edizione moderna sposta le posizioni delle parti per un criterio di leggibilità pratico, comune anche fra epoche diverse; e scioglie le incertezze con precise decisioni. Ma la scrittura non è scientifica, deve invece essere magica. Nessun fisico potrebbe risponderci su quanto sia alto un diesis o un bemolle, quanto lunga una pausa. I parametri non stanno tutti scritti. La convenzione di un insieme di regole tramandate, ed interpretate anche storicamente momento per momento, permette al compositore di esprimersi per iscritto, ma lo scritto è più di quanto sia l'ordine dei segni nelle regole. Lo scritto è il segno, concreto, irreperibile. I vecchi copisti lo sapevano: non che il loro lavoro ci ripeta l'autografo, perché la mano è un'altra; ma ci offrono una lettura molto più vicina a quella dell'autografo che non le edizioni a stampa. Ci possono essere più errori, e si tratterà di capirli. Ma sono mani che scrivono, non lastre che stampano. La scrittura è meravigliosa.
E adesso, col computer?
Disastro, disastro.
O forse si troverà il modo, senza volere, di lasciare anche qui un'impronta.
Disastro, disastro.
L'autore pero si esprime naturalmente con i mezzi che ha, secondo il suo tempo.
Ma l'interprete davanti alla scrittura dell'autore non prende nota che c'è un crescendo, lo sente quel crescendo. E' riportato al gesto diretto.
Come la scultura?
(Stringe la mano sinistra. Sorride, come si fa quando gli intervistatori dicono una frase giusta da intervistatori, che collegano. Ma negli occhi chiari c'è il lampo del dubbio: avrà capito, chi gli parla, che la scrittura è magica, che il segno è importante, che la libertà dell'interpretesta tutta nella fedeltà con cui si rende responsabile di ciò che ha letto nella scrittura?)
E dopo la scultura ha lasciato anche il violoncello?
Ormai sì. Non si possono fare troppe cose, quando richiedono ciascuna troppo. Mi sono concentrato nel lavoro dell'interpretazione da direttore.
E ha cominciato la rivoluzione. Prima, gli autori classici. Poi la "musica antica". Lo scandalo dell'eloquenza romantica e postromantica tolta al Settecento, la fine dell'assimilazione delle partiture barocche all'epoca successiva: quei suoi duri e freddi, in confronto al ricco e tondo sound berlinese, al luccicante appagamento americano. Quei lenti, quegli allegri precipitati. Le peripezie dell'arco corto che insegue la linea melodica, anziché il legato che la domina. E, dietro allo scavo nell'epoca lontana, la celebrazione dei linguaggio, nel tempo dello strutturalismo e delle grandi verifiche linguistiche sui meccanismi del parlare e dell'agire degli uomini e della società. Rivoluzione sessantottina nella musica, sempre che il Sessantotto non fosse il momento politico d'una revisione generale della storia umana. Insomma, un rovesciamento definitivo dell'interpretazione, l'apertura d'una costante alternativa e dell'esigenza che l'interprete cerchi e si faccia responsabile.
Io non ho mai voluto fare la rivoluzione. Io sentivo che Bach era diverso da come lo dovevo suonare. E ho cominciato a cercare perché. Le cose si sono sovrapposte. Altri, intanto, cominciavano lo stesso percorso.
Noi ci siamo molto occupati, dall'inizio, su Musica Viva, di questa riscoperta. Ma c'è fra voi una colleganza, il senso di condividere questa grande avventura?
Ognuno ha un percorso suo. Ci sono incontri. A Ferrara, ho diretto Mendelssohn e Mozart. C'era Gardiner, ad ascoltare. E' venuto da me, entusiasta: "Mendelssohn fan-ta-stico!" Un'altra volta, ha ascoltato un mio concerto di Mozart e Schubert. E' arrivato in camerino: "Schubert magnifico!". Si vede che non gli piace proprio come faccio Mozart.
E' un Mozart meno "cantato", e forse anche meno rigoroso nei tempi, di quanto uno non si aspetti.
Non canto, io? Non canto in Mozart? Sì, che canto. Ma è un canto nato da piccoli elementi. Non la grande melodia, come sarà poi nella storia la lunga linea di Wagner, di Mahler anche con le sue contrapposizioni e rotture, di Brahms. E' un (pausa, poi lento, in italiano) tetto di tante tegole piccole (guarda in che scioglilingua è andato ad imbarcarsi, forse sta studiando l'opera buffa italiana); è una (in italiano, ma deciso) frase di cui devo sentire ogni parola. Sì, il tempo non è rigoroso. Non so che cosa volesse dire dentro la sua battuta Mozart nella Jupiter. "Do, sol-la-si-do, sol-la-si-do" (sta cantando, con una certa agiata libera scorrevolezza, poi nella pausa si ferma ma muovendo istintivamente il corpo tanto da suggerire la perdita del tempo di metronomo), "do-do, si-re do-sol, fa".
Sol, re-mi-fa-sol, re-mi-fa-sol.
Re re, do sol, fa la, sol. Anche Mendelssohn è ancora nella linea grande, ma costruita con piccoli frammenti: come Schubert, naturalmente. Ma Mendelssohn è già verso un'altra cosa. Parla, più che non con parole, con colori.
Schubert...
Schubert. Non è paragonabile a nessuno. Non si può prendere per lui nessun punto di riferimento nella grande tradizione. Non Mozart, non Beethoven. Parla un dialetto come i grandi isolati. Mi viene in mente John Dowland, o Johann Strauss. Schubert in musica parla in dialetto viennese. Non si riesce a trovare alcun parametro storico per afferrarlo. E' musica che trascina nota per nota. Bisogna lasciarsi prendere dal flusso dell'esecuzione.
E qui, con il Concertgebouw, accadeva, trascinando anche noi. Quante prove avete avuto per arrivare ad un accordo così straordinario?
Non moltissime. Un numero normale. Però con questa orchestra ho lavorato recentemente per sei settimane; ed è maturata una grandissima intesa. Io non sono (si mette ben diritto, trincia l'aria con gesto molto secco, bene a tempo) un direttore militare. Mi piace ricordare semplicemente quello che abbiamo vissuto e stabilito durante le prove. Per Schubert, poi, c'è bisogno che tutti pensino ed inventino in armonia. La difficoltà è che Schubert non ci arriva per vie storiche, ma direttamente per quelle dell'immaginazione. Ed è un'immaginazione sottile, sfumata, intensa... C'è in tutte le sue opere una tristezza con un piccolo sorriso. (Aggrotta le ciglia, cerca una frase italiana espressiva, la trova nel repertorio, in Monteverdi): un mare di pianti. Non si può dirigere una partitura di Schubert, bisogna guidare il flusso dell'interpretazione di tutti. C'è bisogno di una grande fantasia collettiva. (In italiano) Insieme.
Sempre partendo dalle note autografe...
Sì, e anche partendo da un'altra cosa, che c'è sempre in Schubert, si sente. Un testo. Io sento Schubert (mostra un foglio immaginario, poi parla in italiano) e io ascolto un poesia (Poesia maschile, con bel senso di attesa fra l'articolo e il sostantivo. Poi riprende nella sua lingua, ma non più rapido, adesso è preso dalla necessità d'essere chiaro, come deve succedergli quando ha qualcosa di lirico e segreto da comunicare). Sento un forte che non si oppone al pianissimo, ma parte dal pianissimo. Sento una canzone, di linee brevi, intonata dall'uno e dall'altro, e gli altri che rispondono con altro canto, sempre di frasi precise. Ogni entrata è un'emozione, non bisogna accentuare, non bisogna organizzare, bisogna lasciare fluire. La complessità della forma, se c'è, si scioglie o si intrica da sola, non bisogna avere paura. Se la si è capita, si rivela.
Curiosamente questo è l'anno Schubert. Lo si ascolta un po' dappertutto. Eppure non è il suo anniversario. Invece tocca a Rossini, poi a Monteverdi...
Ah, Monteverdi, uno dei miei numi. A Salzburg dirigerò Poppea. Sono vent'anni che non la dirigo. Sarà un lavoro tutto diverso, ogni volta bisogna ricominciare da capo in ogni caso, in musica. Ho controllato i manoscritti in quel pasticcio di edizioni diverse per città diverse, uno dei nodi più intricati della musicologia; ho esaminato i libretti per venirne a capo; e poi ho venti anni di più! Non c'è più, purtroppo, Jean Pierre Ponnelle, e in ogni caso non si potrebbe ripetere quel lavoro eccitante che avevamo fatto allora. Ci sarà un regista che stimo molto, Flimm, con cui ho appena lavorato nel Fidelio a Zurigo. E' pieno d'una grande fantasia, sente per Monteverdi ed in particolare per L'incoronazione di Poppea, provo a dirlo in italiano che viene meglio: "il paesaggio mediterraneo cattolico". Ci sarà da cantare veramente. Non credo al canto senza fuoco, la voce umana è sempre la stessa, degli specialisti barocchi non mi fido, non ha senso cercare le stilizzazioni fredde dopo avere letto le lettere di Monteverdi, che cosa dice sul "recitar cantando" o sul "cantare recitando".
E Rossini?
Rossini no. Non m'appartiene. Un Verdi potrà accadere, sì, ne ho un grande rispetto, vorrei affrontar presto Otello, Falstaff, Don Carlo. Rossini non mi fa sentir qualcosa. Beethoven non capiva perché il pubblico andasse tanto a Rossini, neanche Schubert. Io capisco, ma dentro non mi accende. I direttori italiani a volte mi dicono: è il nostro Mozart. Ma mi sembra tutt'un'altra cosa. Anche le opere di Vivaldi non mi fanno cominciare a pensare di dirigerle. Neanche Wagner, nemmeno Mahler, dico per adesso, poi cambierò forse, non so. Ora mi premono altri. A Salzburg dirigerò la Missa solemnis di Beethoven, e quel pensiero mi prende molto.
Al Festspielhaus, dirigerà. Anche qui, non luoghi suggestivi, ma auditorium con acustica eccellente.
La musica va ascoltata, non si può solo immaginarla. Per le Messe, si può cercare un compromesso. Viene da piangere al pensiero della Messa nella gran sala, anziché in una chiesa. Ma a Salzburg non ci sono chiese disponibili con un'acustica sufficiente per garantire un livello buono. Ho un gran ricordo della Chiesa della Passione, da voi a Milano, con la Passione secondo Matteo, l'acustica era un po' irregolare, ma avevamo disposto le persone e gli strumenti al meglio, e il compromesso teneva. A Salzburg non s'è trovato. Salzburg è importante, però, anche per il suo futuro. Adesso con Mortier cambierà molto, cambierà anche il pubblico.
Anche in Italia ci sono molti dirigenti nuovi. Cambierà.
In Italia non mi chiamano molto; e quando mi chiamano lo fanno in tempi brevi, quando l'agenda è già tutta occupata. (Anche questa frase è vulnerante. Dal paese di Feldkirch, con un grande conservatorio, due auditorium perfetti ed il festival più intelligente dell'estate, parte un pensiero alla nostra cara terra di parole sulla musica, di riflettori accesi sussiegosamente su ciò che casualmente capita).
Cambierà.
(Ma siam passati dal forte al pianissimo. Da quel pianissimo che nasce dal forte, al contrario che in Schubert. Non lui, ma noi, siamo gli autori di innumerevoli Incompiute.)
Da ragazzo scolpivo il legno.
(Dice. Mostra il braccio, stringe un poco le mani, come volesse chiudervi un suono o un pensiero. Ride)
Sono entrato in orchestra, non ho più scolpito. Non si possono fare le due cose. La scultura era troppo vulnerante.
(Vulnerante l'ha detto in italiano, non nel suo rapido tedesco; io non ho idea di come fossero le figure che tentava di sbozzare il ragazzetto Nikolaus con lo scalpello; ma per parecchie ore avevo cercato la giusta parola per scrivere com'era la sua Incompiuta, che continuava a ferirmi, e la sentivo pronunciare da lui. Vulnerante.)
Suonavo dunque il violoncello, nell'orchestra. Mi piaceva, era esaltante a volte. Ho conosciuto grandi direttori, li ho ammirati. La grandezza ha un suo segno, è assurdo e inutile discutere. Ma sono arrivato a un punto in cui non riuscivo più a farcela. Mi dicevo: divento matto. Suono una musica sul violoncello e ne sento un'altra. Eran due cose totalmente diverse. In questi casi non c'è altra alternativa che provare a fare venire fuori la musica da solo. Il suono, il pensiero. Ho cominciato a cercare, e a dirigere.
Partendo da che cosa?
Ah, dalle note. Restando nelle note. La mia interpretazione è tutta dentro le note. Le note come sono scritte dal compositore. La mia interpretazione credo sia nelle note: cosa dice la scrittura delle note. Il punto di partenza è questo. Leggere quello che il compositore ha scritto. L'autografo, naturalmente, non le edizioni. Ogni edizione è un'interpretazione dell'editore. Noi siamo qui a Feldkirch per suonare Schubert, e cerchiamo le note scritte dalla mano di Schubert. Penso all'edizione corrente, rivista da Brahms. E' piena di Brahms, di bellissimo Brahms. Ha tolto, ha allungato, è intervenuto dove Schubert ha sbagliato, cioè dove Schubert era troppo poco Brahms. Non c'è da scandalizzarsi, però è un'interpretazione da cui non si può partire, altrimenti si resta già spostati in partenza dall'idea creatrice.
Lei tiene un corso a Salzburg sulla lettura delle partiture autografe. Penso ai problemi di filologia e d'interpretazione che nasceranno continuamente.
No. (Si concentra, guarda avanti, come avesse un foglio su un tavolino immaginario. Siamo seduti nella saletta d'un albergo, in tutta semplicità. Fuori c'è la lucida chiarità un po' pallida dell'umida estate austriaca, da una finestra dietro a lui si avverte l'inizio d'un paesaggio. E' la sua luce, i testi dicono che è nato a Berlino, ma lo si sente un uomo moderatamente nordico).
No. E' un corso che riguarda una cosa precisa: la lettura dei segni. Ha un titolo: "Istruzioni per l'uso".
Come nelle medicine, come negli elettrodomestici?
Sì, bisogna sapere come si leggono i segni. I segni scritti dai compositori. Ho studiato tutta la vita questo problema. Ho scoperto che cambiano ad ogni generazione. Noi diciamo Mozart, e la sua è una vita breve; ma anche i suoi segni, ad esempio, non sono gli stessi e non vogliono dire le stesse cose nel Mozart giovane e nel Mozart maturo. Occorre un lungo lavoro di decodificazione, di confronti, di conoscenza della prassi di quei giorni, delle lettere e delle dichiarazioni dell'autore. Molto complesso, ma alla fine spesso tutto diventa semplice, si risolvono problemi che sembravano distrazioni o contraddizioni, perché si era partiti da un equivoco. Con gli allievi ci fermiamo proprio su questa piccola cosa che è il segno, ma concretamente, con l'idea di capire come usarlo, volta per volta.
La scrittura è affascinante.
La scrittura è magica. Meravigliosa. Io sono sopraffatto ogni volta al pensiero di come possa essere espressa una melodia da una serie di punti. E sappiamo che c'è un complesso di regole per saperne il tracciato. Anche queste leggi non esauriscono l'idea musicale, cioè non permettono di scriverla compiutamente, a parte in ogni caso gli infiniti modi di eseguirla. Ma leggendo le pagine scritte di pugno dell'autore, si capisce subito che nessuna edizione a stampa può sostituirla. L'edizione a stampa deve partire dal fatto che ci sia una realtà scientifica trasportabile con altre cifre. Ad esempio, l'edizione moderna sposta le posizioni delle parti per un criterio di leggibilità pratico, comune anche fra epoche diverse; e scioglie le incertezze con precise decisioni. Ma la scrittura non è scientifica, deve invece essere magica. Nessun fisico potrebbe risponderci su quanto sia alto un diesis o un bemolle, quanto lunga una pausa. I parametri non stanno tutti scritti. La convenzione di un insieme di regole tramandate, ed interpretate anche storicamente momento per momento, permette al compositore di esprimersi per iscritto, ma lo scritto è più di quanto sia l'ordine dei segni nelle regole. Lo scritto è il segno, concreto, irreperibile. I vecchi copisti lo sapevano: non che il loro lavoro ci ripeta l'autografo, perché la mano è un'altra; ma ci offrono una lettura molto più vicina a quella dell'autografo che non le edizioni a stampa. Ci possono essere più errori, e si tratterà di capirli. Ma sono mani che scrivono, non lastre che stampano. La scrittura è meravigliosa.
E adesso, col computer?
Disastro, disastro.
O forse si troverà il modo, senza volere, di lasciare anche qui un'impronta.
Disastro, disastro.
L'autore pero si esprime naturalmente con i mezzi che ha, secondo il suo tempo.
Ma l'interprete davanti alla scrittura dell'autore non prende nota che c'è un crescendo, lo sente quel crescendo. E' riportato al gesto diretto.
Come la scultura?
(Stringe la mano sinistra. Sorride, come si fa quando gli intervistatori dicono una frase giusta da intervistatori, che collegano. Ma negli occhi chiari c'è il lampo del dubbio: avrà capito, chi gli parla, che la scrittura è magica, che il segno è importante, che la libertà dell'interpretesta tutta nella fedeltà con cui si rende responsabile di ciò che ha letto nella scrittura?)
E dopo la scultura ha lasciato anche il violoncello?
Ormai sì. Non si possono fare troppe cose, quando richiedono ciascuna troppo. Mi sono concentrato nel lavoro dell'interpretazione da direttore.
E ha cominciato la rivoluzione. Prima, gli autori classici. Poi la "musica antica". Lo scandalo dell'eloquenza romantica e postromantica tolta al Settecento, la fine dell'assimilazione delle partiture barocche all'epoca successiva: quei suoi duri e freddi, in confronto al ricco e tondo sound berlinese, al luccicante appagamento americano. Quei lenti, quegli allegri precipitati. Le peripezie dell'arco corto che insegue la linea melodica, anziché il legato che la domina. E, dietro allo scavo nell'epoca lontana, la celebrazione dei linguaggio, nel tempo dello strutturalismo e delle grandi verifiche linguistiche sui meccanismi del parlare e dell'agire degli uomini e della società. Rivoluzione sessantottina nella musica, sempre che il Sessantotto non fosse il momento politico d'una revisione generale della storia umana. Insomma, un rovesciamento definitivo dell'interpretazione, l'apertura d'una costante alternativa e dell'esigenza che l'interprete cerchi e si faccia responsabile.
Io non ho mai voluto fare la rivoluzione. Io sentivo che Bach era diverso da come lo dovevo suonare. E ho cominciato a cercare perché. Le cose si sono sovrapposte. Altri, intanto, cominciavano lo stesso percorso.
Noi ci siamo molto occupati, dall'inizio, su Musica Viva, di questa riscoperta. Ma c'è fra voi una colleganza, il senso di condividere questa grande avventura?
Ognuno ha un percorso suo. Ci sono incontri. A Ferrara, ho diretto Mendelssohn e Mozart. C'era Gardiner, ad ascoltare. E' venuto da me, entusiasta: "Mendelssohn fan-ta-stico!" Un'altra volta, ha ascoltato un mio concerto di Mozart e Schubert. E' arrivato in camerino: "Schubert magnifico!". Si vede che non gli piace proprio come faccio Mozart.
E' un Mozart meno "cantato", e forse anche meno rigoroso nei tempi, di quanto uno non si aspetti.
Non canto, io? Non canto in Mozart? Sì, che canto. Ma è un canto nato da piccoli elementi. Non la grande melodia, come sarà poi nella storia la lunga linea di Wagner, di Mahler anche con le sue contrapposizioni e rotture, di Brahms. E' un (pausa, poi lento, in italiano) tetto di tante tegole piccole (guarda in che scioglilingua è andato ad imbarcarsi, forse sta studiando l'opera buffa italiana); è una (in italiano, ma deciso) frase di cui devo sentire ogni parola. Sì, il tempo non è rigoroso. Non so che cosa volesse dire dentro la sua battuta Mozart nella Jupiter. "Do, sol-la-si-do, sol-la-si-do" (sta cantando, con una certa agiata libera scorrevolezza, poi nella pausa si ferma ma muovendo istintivamente il corpo tanto da suggerire la perdita del tempo di metronomo), "do-do, si-re do-sol, fa".
Sol, re-mi-fa-sol, re-mi-fa-sol.
Re re, do sol, fa la, sol. Anche Mendelssohn è ancora nella linea grande, ma costruita con piccoli frammenti: come Schubert, naturalmente. Ma Mendelssohn è già verso un'altra cosa. Parla, più che non con parole, con colori.
Schubert...
Schubert. Non è paragonabile a nessuno. Non si può prendere per lui nessun punto di riferimento nella grande tradizione. Non Mozart, non Beethoven. Parla un dialetto come i grandi isolati. Mi viene in mente John Dowland, o Johann Strauss. Schubert in musica parla in dialetto viennese. Non si riesce a trovare alcun parametro storico per afferrarlo. E' musica che trascina nota per nota. Bisogna lasciarsi prendere dal flusso dell'esecuzione.
E qui, con il Concertgebouw, accadeva, trascinando anche noi. Quante prove avete avuto per arrivare ad un accordo così straordinario?
Non moltissime. Un numero normale. Però con questa orchestra ho lavorato recentemente per sei settimane; ed è maturata una grandissima intesa. Io non sono (si mette ben diritto, trincia l'aria con gesto molto secco, bene a tempo) un direttore militare. Mi piace ricordare semplicemente quello che abbiamo vissuto e stabilito durante le prove. Per Schubert, poi, c'è bisogno che tutti pensino ed inventino in armonia. La difficoltà è che Schubert non ci arriva per vie storiche, ma direttamente per quelle dell'immaginazione. Ed è un'immaginazione sottile, sfumata, intensa... C'è in tutte le sue opere una tristezza con un piccolo sorriso. (Aggrotta le ciglia, cerca una frase italiana espressiva, la trova nel repertorio, in Monteverdi): un mare di pianti. Non si può dirigere una partitura di Schubert, bisogna guidare il flusso dell'interpretazione di tutti. C'è bisogno di una grande fantasia collettiva. (In italiano) Insieme.
Sempre partendo dalle note autografe...
Sì, e anche partendo da un'altra cosa, che c'è sempre in Schubert, si sente. Un testo. Io sento Schubert (mostra un foglio immaginario, poi parla in italiano) e io ascolto un poesia (Poesia maschile, con bel senso di attesa fra l'articolo e il sostantivo. Poi riprende nella sua lingua, ma non più rapido, adesso è preso dalla necessità d'essere chiaro, come deve succedergli quando ha qualcosa di lirico e segreto da comunicare). Sento un forte che non si oppone al pianissimo, ma parte dal pianissimo. Sento una canzone, di linee brevi, intonata dall'uno e dall'altro, e gli altri che rispondono con altro canto, sempre di frasi precise. Ogni entrata è un'emozione, non bisogna accentuare, non bisogna organizzare, bisogna lasciare fluire. La complessità della forma, se c'è, si scioglie o si intrica da sola, non bisogna avere paura. Se la si è capita, si rivela.
Curiosamente questo è l'anno Schubert. Lo si ascolta un po' dappertutto. Eppure non è il suo anniversario. Invece tocca a Rossini, poi a Monteverdi...
Ah, Monteverdi, uno dei miei numi. A Salzburg dirigerò Poppea. Sono vent'anni che non la dirigo. Sarà un lavoro tutto diverso, ogni volta bisogna ricominciare da capo in ogni caso, in musica. Ho controllato i manoscritti in quel pasticcio di edizioni diverse per città diverse, uno dei nodi più intricati della musicologia; ho esaminato i libretti per venirne a capo; e poi ho venti anni di più! Non c'è più, purtroppo, Jean Pierre Ponnelle, e in ogni caso non si potrebbe ripetere quel lavoro eccitante che avevamo fatto allora. Ci sarà un regista che stimo molto, Flimm, con cui ho appena lavorato nel Fidelio a Zurigo. E' pieno d'una grande fantasia, sente per Monteverdi ed in particolare per L'incoronazione di Poppea, provo a dirlo in italiano che viene meglio: "il paesaggio mediterraneo cattolico". Ci sarà da cantare veramente. Non credo al canto senza fuoco, la voce umana è sempre la stessa, degli specialisti barocchi non mi fido, non ha senso cercare le stilizzazioni fredde dopo avere letto le lettere di Monteverdi, che cosa dice sul "recitar cantando" o sul "cantare recitando".
E Rossini?
Rossini no. Non m'appartiene. Un Verdi potrà accadere, sì, ne ho un grande rispetto, vorrei affrontar presto Otello, Falstaff, Don Carlo. Rossini non mi fa sentir qualcosa. Beethoven non capiva perché il pubblico andasse tanto a Rossini, neanche Schubert. Io capisco, ma dentro non mi accende. I direttori italiani a volte mi dicono: è il nostro Mozart. Ma mi sembra tutt'un'altra cosa. Anche le opere di Vivaldi non mi fanno cominciare a pensare di dirigerle. Neanche Wagner, nemmeno Mahler, dico per adesso, poi cambierò forse, non so. Ora mi premono altri. A Salzburg dirigerò la Missa solemnis di Beethoven, e quel pensiero mi prende molto.
Al Festspielhaus, dirigerà. Anche qui, non luoghi suggestivi, ma auditorium con acustica eccellente.
La musica va ascoltata, non si può solo immaginarla. Per le Messe, si può cercare un compromesso. Viene da piangere al pensiero della Messa nella gran sala, anziché in una chiesa. Ma a Salzburg non ci sono chiese disponibili con un'acustica sufficiente per garantire un livello buono. Ho un gran ricordo della Chiesa della Passione, da voi a Milano, con la Passione secondo Matteo, l'acustica era un po' irregolare, ma avevamo disposto le persone e gli strumenti al meglio, e il compromesso teneva. A Salzburg non s'è trovato. Salzburg è importante, però, anche per il suo futuro. Adesso con Mortier cambierà molto, cambierà anche il pubblico.
Anche in Italia ci sono molti dirigenti nuovi. Cambierà.
In Italia non mi chiamano molto; e quando mi chiamano lo fanno in tempi brevi, quando l'agenda è già tutta occupata. (Anche questa frase è vulnerante. Dal paese di Feldkirch, con un grande conservatorio, due auditorium perfetti ed il festival più intelligente dell'estate, parte un pensiero alla nostra cara terra di parole sulla musica, di riflettori accesi sussiegosamente su ciò che casualmente capita).
Cambierà.
(Ma siam passati dal forte al pianissimo. Da quel pianissimo che nasce dal forte, al contrario che in Schubert. Non lui, ma noi, siamo gli autori di innumerevoli Incompiute.)
Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XVI n.8/9, agosto/settembre 1992)
2 commenti:
è sempre di grande interesse il tema interpretativo, se cioè l'esecutore sia un medium della volontà dell'artista, ovvero un faber, che la ricrea.
Dopo la grande stagione tardoromantica tedesca (e tiriamoci pure dentro anche Schoenberg & C., che va bene...), l'esecutore è divenuto quasi wagneriano, incidendo potentemente sulla natura dell'opera. Per contro esistono i puristi, come Harnoncourt e Muti, che insistono sull'attenzione alla volontà dell'Autore. Anche se, ad essere onesti, io non sono convinta di essere pienamente cosciente di come, ad esempio, Beethoven desiderasse che le sue Sonate fossero eseguite.
Potrà forse ricostruirlo, attraverso un attento lavoro filologico, storico, musicologico, ma sappiamo tutti benissimo come anche in quest'attività ci sia molto del filtro personale dello studioso.
Forse è meglio che un'opera risenta potentemente della volontà dell'interprete, a patto naturalmente che non ci si trovi di fronte ad un mero, brillantissimo Hanon.
Un caro saluto
Cecilia
[Schubert. Non è paragonabile a nessuno. Non si può prendere per lui nessun punto di riferimento nella grande tradizione. Non Mozart, non Beethoven. Parla un dialetto come i grandi isolati. Mi viene in mente John Dowland, o Johann Strauss. Schubert in musica parla in dialetto viennese. Non si riesce a trovare alcun parametro storico per afferrarlo. E' musica che trascina nota per nota. Bisogna lasciarsi prendere dal flusso dell'esecuzione.]
Non sono d'accordo! Schubert, il primo Schubert, ha una chiara derivazione haydniana e mozartiana e, essendo un fedele allievo di Salieri, nella sua musica si sente anche l'impronta del maestro italiano. Maestro italiano che influenzò molto il giovane Schubert circa, l'astrusità di molta musica di Beethoven. Nel 1816, venendo a conoscenza della reale grandezza musicale di Beethoven, cominciò ad essere influenzato anche dalla sua musica: tipico esempio è la sua Sinfonia n.4, detta tragica dove si possono trovare tanti spunti beethoveniani. Poi, però – ed è qui che si può cominciare a parlare di un suo percorso autonomo e originale – cercò, e direi con pieno successo, un suo percorso autonomo da quello di Beethoven. Sono i suoi ultimi otto anni della sua breve vita dove, nasceranno i capolavori massimi e dove, come Beethoven, ma in una maniera completamente opposta, forzò al massimo la forma-sonata, non uscendone però, come fece Beethoven.
[Ah, Monteverdi, uno dei miei numi. A Salzburg dirigerò Poppea. Sono vent'anni che non la dirigo. Sarà un lavoro tutto diverso, ogni volta bisogna ricominciare da capo in ogni caso, in musica. Ho controllato i manoscritti in quel pasticcio di edizioni diverse per città diverse, uno dei nodi più intricati della musicologia; ho esaminato i libretti per venirne a capo; e poi ho venti anni di più! Non c'è più, purtroppo, Jean Pierre Ponnelle, e in ogni caso non si potrebbe ripetere quel lavoro eccitante che avevamo fatto allora. Ci sarà un regista che stimo molto, Flimm, con cui ho appena lavorato nel Fidelio a Zurigo. E' pieno d'una grande fantasia, sente per Monteverdi ed in particolare per L'incoronazione di Poppea, provo a dirlo in italiano che viene meglio: "il paesaggio mediterraneo cattolico". Ci sarà da cantare veramente. Non credo al canto senza fuoco, la voce umana è sempre la stessa, degli specialisti barocchi non mi fido, non ha senso cercare le stilizzazioni fredde dopo avere letto le lettere di Monteverdi, che cosa dice sul "recitar cantando" o sul "cantare recitando".]
E qui sono completamente d'accordo!
[Rossini no. Non m'appartiene. Un Verdi potrà accadere, sì, ne ho un grande rispetto, vorrei affrontar presto Otello, Falstaff, Don Carlo. Rossini non mi fa sentir qualcosa. Beethoven non capiva perché il pubblico andasse tanto a Rossini, neanche Schubert. Io capisco, ma dentro non mi accende. I direttori italiani a volte mi dicono: è il nostro Mozart. Ma mi sembra tutta un'altra cosa. Anche le opere di Vivaldi non mi fanno cominciare a pensare di dirigerle. Neanche Wagner, nemmeno Mahler, dico per adesso, poi cambierò forse, non so. Ora mi premono altri. A Salzburg dirigerò la Missa solemnis di Beethoven, e quel pensiero mi prende molto.]
Qui come sempre si entra nei gusti personali e c'è poco da eccepire. Io adoro Rossini e sono convinto che Rossini non sia stato né “il Mozart italiano” né un “genio pigro”. Penso che Rossini sia stato “semplicemente” Rossini, e cioè, uno dei massimi geni della musica colta occidentale. Quanto a Beethoven che si domandò il perché il pubblico andasse tanto a Rossini, c'è da dire che non conosceva il suo repertorio di opere serie e, comunque, egli ritenne che Cherubini fosse superiore a Rossini e qui, con il dovuto rispetto per entrambi, si sbagliò.
[La musica va ascoltata, non si può solo immaginarla.]
Grande, grandissima verità e, allora Harnoncourt la prego: riascolti Rossini e...anche Vivaldi, Mahler e Wagner!
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