Alla fine del 1991 l'Ermitage pubblicava un'esecuzione delle Quattro Stagioni di Vivaldi, diretta da Bernardino Molinari con gli archi dell'Accademia Nazionale di S. Cecilia. In quella circostanza cercai di spiegare com'era nato in Italia, su quali motivazioni culturali e anche in quali circostanze politiche, il culto di Vivaldi. Riprenderò ora, completandolo, il discorso. Prima di Bernardino Molinari e di Alceo Toni, direttori d'orchestra, Vivaldi era stato appannaggio dei violinisti, che ne eseguivano alcune pagine in versione per violino e pianoforte collocandole nel settore dell'"antico" con cui usavano aprire i loro recitals. Di questo settore non faceva parte soltanto Vivaldi: gli tenevano compagnia Corelli, nume tutelare del violinismo italiano barocco, e Tartini, Pugnani, Geminiani, Nardini, Tomaso Vitali, Valentini, ecc. ecc.. Le revisioni e trascrizioni di Tivadar Nachéz, ungherese, nato nel 1859 e che suonò in pubblico fino al 1926, lanciarono una moda e furono onorate da tutti i violinisti. Se pensiamo che il Nachéz fu anche autore di due celebrati fascicoli di Zigeunertänze, Danze tzigane, possiamo possiano immaginare da quale angolo egli osservasse Vivaldi o Geminiani o Tartini. E se pensiamo che i pastiches di Fritz Kreisler nello stile Pugnani e di altri non destarono per parecchio tempo alcun sospetto, possiamo capire come il pubblico si divertisse - è il caso di dirlo - con quei simpaticoni del periodo barocco che sembravano i profeti della belle époque e presso i quali veniva scoperta musica che non sarebbe stata fuor di luogo nei vaudevilles parigini o nelle operette viennesi.
Con Bemardino Molinari le cose cambiano. In meglio, per quanto riguarda la ricerca della fedeltà storica, necessariamente per quanto riguarda gli esiti artistici. Perché i "falsi" Kreisler sono tali solo in senso filologico ma non presentano pecche estetiche, e meno che mai quando sono da lui eseguiti.
Ho già cercato di spiegare le motivazioni culturali da cui muovevano Alceo Toni e Bernardino Molinari. Ad essi si aggiungono prima della guerra Alfredo Casella, che però si occupa soprattutto del Vivaldi sacro, e nel dopoguerra Gianfrancesco Malipiero, che comincia a pubblicare sistematicamente le opere strumentali. Si conclude cosà il lavoro della "generazione, dell'"Ottanta" e arriva Renato Fasano, nato nel 1902, che dopo la cacciata di Bernardino Molinari, compromesso con il fascismo, lavora dal 1944 al 1947 come direttore artistico dell'Accademia Nazionale di S.Cecilia.
Nel 1948 Fasano fonda il Collegium Musicum Italicum, che dal 1952 prcsenta il suo complesso strumentale sotto il nome più "americano" di I Virtuosi di Roma.
Fasano riprendeva un'idea che era stata lanciata nel 1939 da Adriano Lualdi, direttore del conservatorio di Napoli e fondatore dell'Orchestra da camera del Conservatorio di Napoli, formata da professori del conservatorio stesso. Dal 1939 al 1943 il Lualdi aveva assicurato alla sua orchestra un'attività concertistica intensa, in Italia, ma anche nella Germania alleata e nella Francia occupata. Una manna per i professori del conservatorio, che venivano gratificati artisticamente, guadagnavano, e non dovevano trepidare nel richiedere permessi perché i permessi glieli organizzava anche pro domo sua, il loro capo di istituto e direttore del complesso. Il Lualdi si occupò specialmente di compositori barocchi napoletani, e puntò in particolare su Francesco Durante, che grazie all'Orchestra da camera dei Conservatorio di Napoli, acquistò una certa fama. Renato Fasano formò il suo complesso con strumentisti che in gran parte insegnavano in vari Conservatori. Abilissimo nell'organizzare le tourneés, molto introdotto nei Ministeri dell'Estero e della Pubblica Istruzione, autentico autentico mastino che sapeva porsi obbiettivi raggiungibili e non demordeva finché non li aveva raggiunti, Renato Fasano portò i suoi Virtuosi in tutto il mondo, ebbe a New York un solenne benedicite di Toscanini e creò fanatismi intorno a Vivaldi e ad alcuni compositori del barocco italiano, a cominciare da Albinoni.
I Virtuosi di Roma suonavano strumenti montati m modo moderno; per qualche, anno impiegarono per il continuo il pianoforte, poi lo sostituirono con il clavicembalo: clavicembalo - vada sè - moderno. Il passo in avanti che essi compirono rispetto a Bernardino Molinari fu di non usare trascrizioni o adattamenti ma di rifarsi ad edizioni testualmente attendibili e di rifiutare le grazie e i languori, che erano state le delizie della belle époque in favore della vitalità e del vitalisino ritmico. Suono brillante ma corposo e arco che correva rapido negli allegri, espressività intensissima ma contenuta negli adagi. Questa idea del barocco non era figlia né della storia né della filologia, ma dello Stravinsky neoclassico: l'ideale sonoro, in senso lato, era quello del Concerto per violino, eseguito magari da David Oistrach. E i Virtuosi di Roma, che coglievano sagacemente un momento di evoluzione del gusto del pubblico, dominarono la vita concertistica internazionale con i loro Vivaldi e soci, mentre l'Orchestra da camera di Stoccarda diretta da Kart Münchinger la dominava nel repertono bachiano.
I Musici, che nascevano come gruppo nel 1952, seguivano la scia dei Virtuosi di Roma. Felix Ayo, il loro primo violino, era anzi allievo di Remy Principe, che sedeva allora al primo leggio dei Virtuosi, e i Musici erano un po' i Giovani Virtuosi di Roma, i cadetti. Così per lo meno, furono visti dal pubblico, che li adottò come si adottano le mascottes. I Musici seguirono poi, almeno in parte, un loro cammino, che li portò ad affrontare Bach e Händel, Mozart (alcune splendide incisioni di Divertimenti e Serenate), Haydn e Rossini, autori del Novecento (Britten, Bucchi, Hindemith, Martin, Roussel), e persino il tardo novecento con il Carl Nielsen della Little Suite op.l. Più complesso d'archi aperto verso un repertono differenziato, dunque, che ambasciatore nel mondo del barocco italiano. Nel concerto di Lugano che ascoltiamo nel disco i Musici si presentavano però come i cadetti dei Virtuosi di Roma, con una programma interamente setecentesco che culminava in Vivaldi. Tipico di quegli anni è l'inserimento di un compositore preclassico - o rococò che dir si voglia - in un contesto barocco. Il Concerto in do maggiore di Giovanni Paisiello fu composto verso il 1780, quando Mozart aveva già scritto parecchi dei suoi concerti, compreso il K 271, ed è un'opera "leggera", adatta al gusto dei dilettanti e più ancora, come si diceva a quel tempo, del beau sexe. La sua storia è curiosa. Dopo essere circolato manoscritto nel Settecento venne completamente dimenticato. Attilio Brignoli, nel clima di esaltazione nazionalistica che era esploso dopo gli studi di Fausto Torrefranca sul Settecento clavicembalistico italiano, lo pubblicò in una trascrizione per pianoforte molto elaborata e nettamente più antiquata delle trascrizioni vivaldiane di Bemardino Molinari. Adriano Lualdi lo ripubblicò in un'edizione più "pulita" e lo portò in giro con la sua Orchestra da camera del Conservatorio di Napoli affidandolo al pianoforte. I Musici lo ripresero nella versione del Lualdi ma con il clavicembalo moderno.
Oggi, naturalmente, si darebbe la preferenza ad un fortepiano viennese, oppure ad un clavicembalo del tardo Settecento, magari con saltarelli "armati" in cuoio invece che in penne di corvo. La scelta dell'uno o dell'altro strumento dipenderebbe da motivazioni stilistiche, cioè da scelte interpretative indirizzate verso la messa in luce, rispettivamente, degli elementi di relativa novità o di tradizione barocca del Concerto. Negli anni Sessanta queste concezioni critiche non erano ancora maturate e il clavicembalo, moderno, veniva impiegato in contrapposizione all'uso tutto-fare che nella prima metà del secolo si era affidato al pianoforte. Così, ad esempio, il clavicembalo era di rigore non solo per una scrittura in realtà ambivalente come quella di Paisiello ma anche in contesti, come il Barbiere di Siviglia di Rossini, in cui risultava chiaramente anacronistico. E oggi, ad ascoltare il Concerto di Paisiello sul clavicembalo moderno, si ricava sì l'impressione di una testimonianza su un momento importante della nostra storia culturale, ma ancor più di un buon tempo antico in cui non si andava tanto, per il sottile e ci si tuffava nel Settecento con la fresca ingenuità dei neofiti. Oggi non è più così. Oggi siamo diventati adulti, o per lo meno più attempatati, e certamente più consapevoli. Ma la musica antica "leggera" come quella di Paisiello, non abbiamo più occasione di ascoltarla.
di Piero Ratialino (Ermitage, 1993)
Con Bemardino Molinari le cose cambiano. In meglio, per quanto riguarda la ricerca della fedeltà storica, necessariamente per quanto riguarda gli esiti artistici. Perché i "falsi" Kreisler sono tali solo in senso filologico ma non presentano pecche estetiche, e meno che mai quando sono da lui eseguiti.
Ho già cercato di spiegare le motivazioni culturali da cui muovevano Alceo Toni e Bernardino Molinari. Ad essi si aggiungono prima della guerra Alfredo Casella, che però si occupa soprattutto del Vivaldi sacro, e nel dopoguerra Gianfrancesco Malipiero, che comincia a pubblicare sistematicamente le opere strumentali. Si conclude cosà il lavoro della "generazione, dell'"Ottanta" e arriva Renato Fasano, nato nel 1902, che dopo la cacciata di Bernardino Molinari, compromesso con il fascismo, lavora dal 1944 al 1947 come direttore artistico dell'Accademia Nazionale di S.Cecilia.
Nel 1948 Fasano fonda il Collegium Musicum Italicum, che dal 1952 prcsenta il suo complesso strumentale sotto il nome più "americano" di I Virtuosi di Roma.
Fasano riprendeva un'idea che era stata lanciata nel 1939 da Adriano Lualdi, direttore del conservatorio di Napoli e fondatore dell'Orchestra da camera del Conservatorio di Napoli, formata da professori del conservatorio stesso. Dal 1939 al 1943 il Lualdi aveva assicurato alla sua orchestra un'attività concertistica intensa, in Italia, ma anche nella Germania alleata e nella Francia occupata. Una manna per i professori del conservatorio, che venivano gratificati artisticamente, guadagnavano, e non dovevano trepidare nel richiedere permessi perché i permessi glieli organizzava anche pro domo sua, il loro capo di istituto e direttore del complesso. Il Lualdi si occupò specialmente di compositori barocchi napoletani, e puntò in particolare su Francesco Durante, che grazie all'Orchestra da camera dei Conservatorio di Napoli, acquistò una certa fama. Renato Fasano formò il suo complesso con strumentisti che in gran parte insegnavano in vari Conservatori. Abilissimo nell'organizzare le tourneés, molto introdotto nei Ministeri dell'Estero e della Pubblica Istruzione, autentico autentico mastino che sapeva porsi obbiettivi raggiungibili e non demordeva finché non li aveva raggiunti, Renato Fasano portò i suoi Virtuosi in tutto il mondo, ebbe a New York un solenne benedicite di Toscanini e creò fanatismi intorno a Vivaldi e ad alcuni compositori del barocco italiano, a cominciare da Albinoni.
I Virtuosi di Roma suonavano strumenti montati m modo moderno; per qualche, anno impiegarono per il continuo il pianoforte, poi lo sostituirono con il clavicembalo: clavicembalo - vada sè - moderno. Il passo in avanti che essi compirono rispetto a Bernardino Molinari fu di non usare trascrizioni o adattamenti ma di rifarsi ad edizioni testualmente attendibili e di rifiutare le grazie e i languori, che erano state le delizie della belle époque in favore della vitalità e del vitalisino ritmico. Suono brillante ma corposo e arco che correva rapido negli allegri, espressività intensissima ma contenuta negli adagi. Questa idea del barocco non era figlia né della storia né della filologia, ma dello Stravinsky neoclassico: l'ideale sonoro, in senso lato, era quello del Concerto per violino, eseguito magari da David Oistrach. E i Virtuosi di Roma, che coglievano sagacemente un momento di evoluzione del gusto del pubblico, dominarono la vita concertistica internazionale con i loro Vivaldi e soci, mentre l'Orchestra da camera di Stoccarda diretta da Kart Münchinger la dominava nel repertono bachiano.
I Musici, che nascevano come gruppo nel 1952, seguivano la scia dei Virtuosi di Roma. Felix Ayo, il loro primo violino, era anzi allievo di Remy Principe, che sedeva allora al primo leggio dei Virtuosi, e i Musici erano un po' i Giovani Virtuosi di Roma, i cadetti. Così per lo meno, furono visti dal pubblico, che li adottò come si adottano le mascottes. I Musici seguirono poi, almeno in parte, un loro cammino, che li portò ad affrontare Bach e Händel, Mozart (alcune splendide incisioni di Divertimenti e Serenate), Haydn e Rossini, autori del Novecento (Britten, Bucchi, Hindemith, Martin, Roussel), e persino il tardo novecento con il Carl Nielsen della Little Suite op.l. Più complesso d'archi aperto verso un repertono differenziato, dunque, che ambasciatore nel mondo del barocco italiano. Nel concerto di Lugano che ascoltiamo nel disco i Musici si presentavano però come i cadetti dei Virtuosi di Roma, con una programma interamente setecentesco che culminava in Vivaldi. Tipico di quegli anni è l'inserimento di un compositore preclassico - o rococò che dir si voglia - in un contesto barocco. Il Concerto in do maggiore di Giovanni Paisiello fu composto verso il 1780, quando Mozart aveva già scritto parecchi dei suoi concerti, compreso il K 271, ed è un'opera "leggera", adatta al gusto dei dilettanti e più ancora, come si diceva a quel tempo, del beau sexe. La sua storia è curiosa. Dopo essere circolato manoscritto nel Settecento venne completamente dimenticato. Attilio Brignoli, nel clima di esaltazione nazionalistica che era esploso dopo gli studi di Fausto Torrefranca sul Settecento clavicembalistico italiano, lo pubblicò in una trascrizione per pianoforte molto elaborata e nettamente più antiquata delle trascrizioni vivaldiane di Bemardino Molinari. Adriano Lualdi lo ripubblicò in un'edizione più "pulita" e lo portò in giro con la sua Orchestra da camera del Conservatorio di Napoli affidandolo al pianoforte. I Musici lo ripresero nella versione del Lualdi ma con il clavicembalo moderno.
Oggi, naturalmente, si darebbe la preferenza ad un fortepiano viennese, oppure ad un clavicembalo del tardo Settecento, magari con saltarelli "armati" in cuoio invece che in penne di corvo. La scelta dell'uno o dell'altro strumento dipenderebbe da motivazioni stilistiche, cioè da scelte interpretative indirizzate verso la messa in luce, rispettivamente, degli elementi di relativa novità o di tradizione barocca del Concerto. Negli anni Sessanta queste concezioni critiche non erano ancora maturate e il clavicembalo, moderno, veniva impiegato in contrapposizione all'uso tutto-fare che nella prima metà del secolo si era affidato al pianoforte. Così, ad esempio, il clavicembalo era di rigore non solo per una scrittura in realtà ambivalente come quella di Paisiello ma anche in contesti, come il Barbiere di Siviglia di Rossini, in cui risultava chiaramente anacronistico. E oggi, ad ascoltare il Concerto di Paisiello sul clavicembalo moderno, si ricava sì l'impressione di una testimonianza su un momento importante della nostra storia culturale, ma ancor più di un buon tempo antico in cui non si andava tanto, per il sottile e ci si tuffava nel Settecento con la fresca ingenuità dei neofiti. Oggi non è più così. Oggi siamo diventati adulti, o per lo meno più attempatati, e certamente più consapevoli. Ma la musica antica "leggera" come quella di Paisiello, non abbiamo più occasione di ascoltarla.
di Piero Ratialino (Ermitage, 1993)
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