Haydn non ha mai goduto, qui da noi, in Italia, di una grande fama. Alla sua Creazione (la stessa che noi ascolteremo a Mantova la sera del 19 aprile 2009) arrise, è vero, un certo successo di pubblico, al punto da esser fatto oggetto, nella sola Italia, di almeno ventuno esecuzioni tra il 1804 e il 1855 e di numerose riduzioni per banda, eppure quel grande, anzi sommo, oratorio sta alla fortuna di Haydn in generale – specie alla fortuna di Haydn nel nostro Paese – così come ogni eccezione sta alla propria regola. Ha probabilmente contribuito alla scarsa comprensione di Haydn, da parte del pubblico nostrano, e ad una insoddisfacente presenza del maestro austriaco nei programmi delle istituzioni concertistiche di casa nostra, oggi come anche in passato, la larvata, ma neanche troppo, polemica che da sempre oppone la sensibilità italiana, prevalentemente melodica e lineare, al culto dell’armonia e del contrappunto che è il contrassegno specifico dell’Europa continentale (l’annosa polemica tra verdiani e wagneriani lo testimonia ampiamente). Impossibile impresa è quella di voler accontentare le due antitetiche tipologie di ascoltatori al di qua e al di là delle Alpi. La “predilezione assoluta per il melodramma” da parte del pubblico italiano (almeno fino alla nascita delle prime istituzioni votate all’esecuzione della musica strumentale, come le Società del Quartetto); l’ignoranza del grande repertorio europeo; il radicato provincialismo degl’intellettuali e artisti di casa nostra, l’ostilità, infi ne, degli italiani nei confronti della musica tedesca: queste, or ora citate, sono fra le ragioni principalissime, o fra le più evidenti, che possono aver contribuito a rallentare, a ostacolare, in taluni casi a impedire, la diffusione della produzione musicale del cosiddetto Classicismo viennese nella penisola.
La rassegna delle recensioni mette in luce, tuttavia, un atteggiamento in certa misura ambivalente. Spesso l’ammirazione per le capacità descrittive della musica di Haydn non va disgiunta da una certa perplessità riguardo alla sua capacità di commuovere (capacità che agli italiani certo non manca). L’oratorio haydniano viene giudicato in basea due differenti parametri, riconducibili da una parte alla “dottrina” – cioè alla perizia tecnico-compositiva –, dall’altra all’”ispirazione poetica”, con una netta prevalenza della prima. Nel nostro Paese Haydn è da sempre considerato il bravo maestro di accademia, il mentore di Mozart, il modello di Rossini (che per questo suo ispirarsi all’autore della Creazione, per questo suo farne il nume tutelare della propria musica, era familiarmente detto “il tedeschino”), il parruccone incipriato che sta all’esatta metà fra Händel e Mozart. Non di rado il nome di Haydn appare associato a quello di Luigi Cherubini, il grande neoclassico, l’aedo della Restaurazione post-napoleonica. Il maestro di cappella degli Este-rappresenta, voce populi, una sorta di chiave di volta, o di passaggio obbligato, o di transizione fatale, fra il vecchio mondo illuministico, quello del Neoclassico, quello nel quale a dominare e a dettar legge sono le famiglie principesche e, in Germania, i vescovi elettori, e il nuovo mondo mercantile e industriale della modernità e del Romanticismo.
Il fatto – in sé incontestabile – che l’aspetto descrittivo della Creazione fosse a quel tempo avvertito come una chiave di lettura privilegiata dell’opera – a discapito delle sue qualità melodiche – trova conferma in alcuni scritti di carattere estetico della prima metà del secolo come le Haydine di Giuseppe Carpani, la Vie de Haydn di Stendhal, nonché la Filosofia della musica di Raimondo Boucheron. In questi testi proprio la Creazione si presta allo scopo di chiarire i diversi modi in cui la musica può assolvere al suo scopo: la neoclassica imitazione della natura. Valutata con tale metro, è chiaro che l’opera di Haydn dovrà ai posteri apparire come il frutto di una sapiente falsificazione. Considerati in prospettiva diacronica – i primi due lavori citati sono anteriori di circa un ventennio al testo di Boucheron –, le tre letture dell’opera di Haydn – in particolare i giudizi relativi alla rappresentazione del Caos – documentano un interessante mutamento dell’orizzonte d’attesa degli italiani nel corso della prima metà dell’Ottocento. In primo luogo, si assiste al progressivo riconoscimento dell’autonomia espressiva della musica strumentale, autonomia favorita dal carattere sempre meno sporadico e privato delle accademie di musica “classica”, con una cospicua presenza dei compositori d’oltralpe. In secondo luogo, il linguaggio armonico di Haydn – a tratti definito troppo tedesco, come nel brano orchestrale che apre la Creazione –, viene pienamente assimilato.
V’è poi un fatto oggettivo, che riguarda non solo il nostro sventurato Paese. Per via di una conoscenza molto limitata della sua opera e di giudizi che lo ritenevano l’esemplare incarnazione di un’epoca galante, razionalista, ingenua, dalla superficiale chiarezza e dagli elementari contenuti drammatici, la fortuna di Haydn – lo notava Paolo Maurizi in un suo contributo – decadde sin dall’inizio del XIX secolo. Gli si riconobbe il merito di aver tecnicamente ‘inventato’ la sinfonia e il quartetto d’archi, ma non gli si vollero accordare la grandezza e l’unicità del creatore, dello scopritore di nuovi mondi sonori, dello sperimentatore di nuove, forti, inedite sonorità orchestrali. Haydn, questo si diceva di lui, si sarebbe limitato a “elaborare” – ossia a “rimaneggiare”, senz’altro apporto che quello di una rilettura sagace, quella tipica del mestierante di talento – forme del passato, ormai morte. Haydn fu privato, a torto, della trasfigurante aureola del genio. L’intero secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle non ha mai messo seriamente in discussione l’egemonica centralità di Mozart. Del pari, il Novecento ha sì scoperto l’enorme ricchezza tecnica e stilistica di Haydn; ma non ha davvero e fino in fondo sondato i contenuti poetici, estetici, profondi della sua opera. Resta ancora tutto da cogliere, da valutare, da interpretare, il senso storico della presenza e dell’attività di entrambi su una stessa e coeva “platea”, quello, insomma, della “presa” su una stessa tipologia di pubblico, individuando nelle rispettive produzioni due percorsi differenti della musica nel periodo cruciale in cui giunse a piena maturazione lo stile classico.
Un fatto curioso va notato: la musica di Haydn viene da tutti, consciamente o meno, retrodatata nel tempo. Nel senso che essa pare regolarmente più vecchia, più parruccona, più incipriata, di quanto in realtà non sia. Spiega Paolo Isotta: “O per malvezzo storicistico, o per il predominio ancora universale d’una idea del Classico come Arcadia degl’impotenti, rituale di settecentesche galanterie, la sua musica viene privata d’ogni tensione tematica, armonica, strutturale: diviene manifestazione d’esangue formalismo” (la stessa cosa, si osservi, era già accaduta per Bach). Toccò a Leonard Bernstein il compito di mettere in luce, nella sua stupefacente interpretazione dell’ultima Messa di Haydn, che è anche la sua ultima opera in assoluto, un’aggressività, una potenza plastica, una monumentalità tutte già, non vi sono dubbi, beethoveniane. Un curioso paradosso vuole che proprio a un americano sia toccato il privilegio di rimediare, almeno in parte, alla colpevole incuria degli europei.
di Carlo Alessandro Landini ("Musicalmente", Anno 4, numero 3, novembre 2008)
"...avec l'Art de la Fugue commence l'existence véritable de la musique." (Hermann Scherchen)
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...
sabato, ottobre 31, 2009
Haydn: e il Classicismo divenne europeo
Il difficile rapporto tra l’Italia e la musica strumentale, le falsificazioni del suo profilo estetico, le geniali interpretazioni di Leonard Bernstein hanno accompagnato l’affermazione del maestro viennese, grande moderno del suo tempo.
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