Il pomeriggio del 13 aprile 1737 il domestico di Georg Friedrich Händel sedeva alla finestra della stanza al piano terra della casa in Brook Street dedito a un'occupazione quanto mai singolare. Si era accorto con disappunto che la sua scorta di tabacco era terminata, e per procurarsi del trinciato fresco sarebbero bastati due passi più in là, nella bottega della sua amica Dolly, ma non osava allontanarsi da casa per paura del suo irascibile signore e padrone. Georg Friedrich Händel era rincasato dalla prova d'orchestra schiumante di rabbia, paonazzo in viso, le vene alle tempie gonfie e pulsanti. Aveva sbattuto la porta di casa con violenza e ora, il domestico lo sentiva benissimo, camminava su e giù nella sua stanza al primo piano, a passi tanto pesanti da far tremare il soffitto. Era altamente sconsigliabile incorrere in qualche manchevolezza in simili giorni di burrasca.
Così, per sconfiggere la noia, il servitore provava a far salire dalla sua pipetta di terracotta, anziché i soliti anelli di fumo azzurrognolo, delle bolle di sapone. Teneva accanto a sé una piccola ciotola di liscivia da bucato e si divertiva a sospingere fin sulla strada le bolle iridescenti. I passanti si fermavano, facevano scoppiare con la punta del bastone l'una o l'altra sfera colorata e ridevano indicandole con cenni della mano, senza però meravigliarsi. Perché da questa casa in Brook Street c'era da aspettarsi di tutto: talvolta di notte ne erompeva all'improvviso un suono di cembalo, e accadeva spesso che si udissero i pianti e i singhiozzi delle cantanti incorse nell'ira furiosa del collerico tedesco, perché avevano preso una nota di un ottavo di tono troppo alta o troppo bassa. Gli abitanti di Grosvenor Square consideravano già da tempo Brook Street una gabbia di matti.
Il domestico seguitava, calmo e tranquillo, a produrre bolle. Dopo un po' di tempo la sua abilità si era visibilmente affinata, le sfere iridescenti erano sempre più grandi e leggere e volavano sempre più in alto, una aveva perfino superato la cima del tetto della casa di fronte. Ma ad un tratto l'uomo sobbalzò di spavento: un tonfo sordo e greve aveva fatto tremare l'intera casa, tintinnare i vetri e smuovere le tende. Qualcosa di massiccio e pesante doveva essere crollato al piano di sopra. Il servitore si alzò di scatto e infilò di corsa le scale che portavano allo studio.
La poltrona occupata abitualmente dal maestro era vuota, come vuota sembrava tutta la stanza... Il domestico già si stava affrettando verso la camera da letto quando scorse Händel riverso al suolo, immobile, con gli occhi sbarrati. Poi, appena si fu ripreso dallo spavento iniziale, udì un rantolo affannoso: quell'uorno grande e robusto giaceva a terra supino, e gemeva debolmente o, per meglio dire, gemiti brevi e sempre più flebili gli sfuggivano dalle labbra.
Muore, pensò il domestico terrorizzato, e gli si inginocchiò accanto per prestargli i primi soccorsi.
Tentò di sollevarlo, di adagiarlo sul divano, ma quel corpo grosso e inerte era troppo pesante. Gli slacciò il colletto che lo soffocava, e il rantolo cessò immediatamente.
Ma ecco che dal piano di sotto già accorreva Christof Schmidt, l'assistente di Händel atteso per copiare alcune arie; entrando in casa aveva udito il forte tonfo e si era spaventato. In due riuscirono a sollevare la corpulenta figura - ma le braccia subito ricaddero penzoloni come quelle di un morto - e a distendere il maestro sul letto tenendogli il capo rialzato. «Spoglialo,» ordinò Schmidt al domestico «io corro a chiamare il dottore. E spruzzagli acqua fredda sul viso finché non rinviene».
Christof Schmidt si precipitò in strada senza nemmeno infilarsi la giacca, e da Brook Street corse indirezione Bond Street facendo un segno a tutte le carrozze che gli passavano accanto, a trotto lento e maestoso, ma i vetturini proseguivano senza degnare d'uno sguardo quell'uomo grasso, ansante, in maniche di camicia. Finalmente una vettura si fermò, il cocchiere di Lord Chandos aveva riconosciuto Schmidt e questi, dimentico di qualsiasi etichetta, spalancò la portiera della carrozza. «Händel muore! » gridò al duca, che conosceva come un appassionato di musica e il più fido mecenate del suo amato maestro. «Devo correre dal medico». Subito il duca gli fece posto in vettura, i cavalli assaggiarono la frusta e i due prelevarono senza riguardi dal suo studio in Fleet Street il dottor Jenkins, che stava procedendo all'analisi urgente di un campione d'urina. Il medico partì di gran carriera con Schmidt alla volta di Brook Street sul suo hansom cab leggero e veloce. «E' colpa delle eccessive preoccupazioni,» si lamentava l'assistente disperato mentre il cocchio correva all'impazzata «l'hanno tormentato a morte quei dannati: i cantantì, i castrati, gli adulatori, i critici da strapazzo, tutto un ripugnante vermicaio. Quattro opere ha scritto in un solo anno per salvare il teatro, ma gli altri si interessano unicamente delle donne e della vita di Corte, e quel che è peggio vanno tutti pazzi per quell'italiano, il maledetto castrato, il bercione mezzo epilettico. Ah, quanto male hanno fatto al nostro caro Händel! Si è giocato tutti i suoi risparmi, diecimila sterline, e ora lo assillano con i titoli di credito, lo fanno morire di crepacuore. Ha fatto cose straordinarie, si è dato anima e corpo come nessun altro; neanche un gigante reggerebbe a un peso simile! Oh, che uomo, che genio!». Il dottor Jenkins ascoltava, silenzioso e impassibile. Prima di entrare in casa si soffermò un attimo sulla soglia, tirò una boccata di fumo, scosse la cenere dalla pipa. «Quanti anni ha?».
«Cinquantadue» rispose Schmidt.
«Brutta età. Si è ammazzato di fatica, ma è forte come un toro. Bene, vediamo che cosa si può fare».
Il domestico reggeva la bacinella, Christof Schmidt sollevò un braccio a Händel, il dottore incise la vena. Ne sgorgò un fiotto di sangue caldo, rosso vivo, e un attimo dopo un sospiro di sollievo schiuse le labbra serrate del malato. Händel trasse un profondo respiro e aprì gli occhi. Ma lo sguardo era vitreo, vuoto, assente. La sua abituale luminosità si era spenta.
Il medico fasciò il braccio. Non c'era più molto da fare ormai. Si stava già alzando quando si accorse che Händel muoveva le labbra. Si chinò verso di lui. Con un filo di voce, appena un sospiro, il maestro mormorò: «è finita... per me è finita ... non ho più forze... non voglio vivere senza forze ...». Il dottor Jenkins gli si fece ancora più da presso. Si accorse che un occhio, il destro, aveva uno sguardo fisso, mentre l'altro era animato. A riprova di quanto già temeva sollevò al paziente il braccio destro, che ricadde come morto. Sollevò il sinistro, e quello rimase nella nuova posizione. Ora il dottor Jenkins ne sapeva abbastanza.
Quando il medico uscì dalla stanza, Schmidt lo rincorse sulle scale, inquieto e preoccupato: «Che cos'ha?»
«Un colpo apoplettico. Il lato destro è paralizzato».
«E potrà... » ora Schmidt balbettava «potrà guarire?».
Il dottor Jenkins estrasse con molta lentezza una presa di tabacco. Non amava quel genere di domande.
«Forse. Tutto è possibile».
«Resterà paralizzato?».
«E' probabile, a meno che non intervenga un miracolo».
Ma Schmidt, dedito al maestro con tutto se stesso, non si dava per vinto.
«Ma almeno... potrà almeno lavorare? Non può vivere senza la sua musica».
Il dottor Jenkins stava già scendendo le scale.
«No, questo no» disse a bassa voce. «Forse riusciremo a mantenere in vita l'uomo, ma il musicista è perduto. Sono compromesse le funzioni cerebrali».
Schmidt lo fissava impietrito, con gli occhi sbarrati. Il suo sguardo rivelava una disperazione così profonda che il dottore ne rimase impressionato. «A meno che non intervenga un miracolo, come dicevo,» soggiunse «anche se a me non è ancora capitato di vederne».
Per quattro mesi Georg Friedrich Händel giacque privo di forze - e la forza era la sua vita. Il lato destro del corpo era come morto. Non poteva camminare, non poteva scrivere, con la mano destra non riusciva neppure a premere un tasto. Lo strappo terribile che gli aveva lacerato il corpo gli impediva di parlare, la bocca pendeva sbieca e le parole gli colavano dalle labbra in un balbettio confuso. Talvolta gli amici suonavano per lui qualcosa, e allora lo sguardo gli si accendeva di una luce fioca e il grosso corpo ribelle prendeva a muoversi, come se il malato sognasse, quasi volesse accompagnare il ritmo, ma le membra erano rigide e contratte, muscoli e tendini non rispondevano più, quell'uomo una volta possente si sentiva rinchiuso in una tomba invisibile, senza via di scampo. Appena la musica cessava le palpebre gli ricadevano pesanti sugli occhi, e il corpo giaceva di nuovo inerte. Il dottore per togliersi d'imbarazzo - era evidente che il maestro non sarebbe guarito - consigliò i bagni alle terme di Aquisgrana: forse il calore dell'acqua avrebbe portato qualche giovamento.
Ma sotto la supefficie rigida e immobile scorreva, simile alle misteriose correnti calde ssotterranee, un'irrefrenabile energia: la volontà di Händel, la forza primeva del suo essere era rimasta illesa, e si rifiutava di cedere lo spirito immortale al corpo mortale. Il grande uomo non si era arreso, era ancora capace di volere, voleva vivere, e creare ancora, e fu la sua volontà a operare il miracolo, a dispetto delle leggi di natura. Ad Aquisgrana i medici misero in guardia il maestro: bagni troppo lunghi ne avrebbero compromesso irrimediabilmente il cuore, e gli raccomandarono con insistenza di non rimanere per più di tre ore in quelle acque calde. Ma la sua volontà sfidò la morte per amore della vita, e la vita aveva un unico, incoercibile desiderio: guarire. Lasciando i medici sgomenti, Händel rimaneva anche nove ore al giorno nell'acqua fumante, e insieme alla determinazione crescevano di continuo, seppure a gradi, le sue forze. Dopo una settimana era già capace di trascinarsi sulle gambe, al termine della seconda di muovere il braccio offeso e alla fine, immane trionfo della fiducia e della determinazione, riuscì a sottrarsi alla stretta paralizzante della morte per abbracciare la vita con più calore e passione che mai, traboccante di quell'indicibile felicità nota soltanto al malato in via di guarigione.
L'ultimo giorno, ormai completamente ristabilito, prima di partire da Aquisgrana Händel volle fare una visita in chiesa. Non era mai stato particolarmente religioso, ma, ora che per la benevolenza divina gli era di nuovo concesso di salire con le sue sole forze fino alla cantoria, si sentiva animato da qualcosa d'immenso. Passò rapidamente la mano sinistra sulla tastiera dell'organo. Un suono limpido e puro attraversò l'aria assorta della navata. Allora trepidante sfiorò i tasti con la destra, rimasta così a lungo inerte e rigida, e al suo tocco scaturì uno zampillo di note argentine. Lentamente il maestro cominciò a suonare, a improvvisare, trascinato da una corrente sempre più impetuosa. Meravigliose forme sonore si andavano componendo nei domini dell'invisibile, le aeree costruzioni del suo genio levitavano come figurazioni senz'ombra, sempre più in alto, risonanze incorporee, musica trasfigurata in luce. Più in basso le suore e alcuni anonimi fedeli ascoltavano rapiti. Mai avevano sentito suonare così una creatura mortale. Händel, il capo umilmente chino, suonava, non smetteva di suonare. Aveva ritrovato il suo linguaggio, quel linguaggio in cui parlava a Dio, all'eternità e agli uomini. Poteva di nuovo far musica, poteva rimettersi a comporre. E solo allora si sentì davvero guarito.
«Ho fatto ritorno dall'Ade» diceva fiero, gonfiando l'ampio petto e spalancando le braccia possenti, Georg Friedrich Händel allo strabiliato dottore londinese, costretto ad ammettere un miracolo della medicina. E subito, quasi voracemente, il maestro in via di guarigione si rimise al lavoro con rinnovato ardore, impegnandosi senza risparmio di energie. L'antico spirito battagliero aveva ripreso pieno possesso di quest'uomo di cinquantatré anni. Scrive un'opera la mano risanata gli obbedisce alla perfezione - e ancora una seconda, una terza, poi i grandi oratori Saul e Israele in Egitto, e L'Allegro, il Pensieroso ed il Moderato. La forza creativa erompe gioiosa e inarrestabile come da una sorgente a lungo ostruita. Ma il tempo gli è nemico. Per la morte della regina bisogna sospendere le rappresentazioni, quindi ha inizio la guerra contro la Spagna, le grida e i canti della folla riempiono ogni giorno le pubbliche piazze ma il teatro resta vuoto, e i debiti si accumulano. Sopraggiunge un inverno rigidissimo. Londra è stretta in una morsa di ghiaccio, il Tamigi gela e sulla sua superficie specchiante corrono scampanellando le slitte. In questi tempi difficili tutte le sale restano chiuse, nemmeno una musica divina arriva a mitigarne il freddo glaciale. Poi si ammalano i cantanti, e le rappresentazioni vengono annullate una dopo l'altra: la situazione di Händel, già precaria, si aggrava. I creditori si fanno minacciosi, i critici sarcastici, il pubblico si chiude in un muto disinteresse. A poco a poco s'incrina la capacità di resistenza di questo strenuo lottatore. Organizza ancora un concerto, di cui si riserva il diritto ai proventi come ultima via di scampo prima di finire in prigione per morosità. Ma che vergogna dover mendicare per vivere! Händel si rinchiude sempre di più in se stesso, sempre più tetro si fa il suo umore. Non era meglio avere metà del corpo paralizzata piuttosto che l'anima, come ora, tutta intera? Già nel 1740 Händel si sente di nuovo battuto, sconfitto; della passata gloria non è rimasta che cenere. A fatica gli riescono ancora composizioni raccogliticce tratte da precedenti opere, lavori nuovi ma di poco conto. La vena si è inaridita, e va spegnendosi la grande energia che fluiva nel corpo risanato. Per la prima volta il gigante è stanco, fiacco l'indomito guerriero. Per la prima volta rallenta fino a esaurirsi la corrente di felicità creativa che per ben trentacinque anni si era riversata sul mondo. E' finita, è finita un'altra volta. E ora sa il grand'uomo, nella sua disperazione, o almeno crede di sapere: è finita per sempre. Perché, sospira, Dio mi ha fatto risorgere dalla malattia se poi gli uomini mi affossano? Meglio morire piuttosto che vivere come l'ombra di me stesso nel vuoto e nel gelo di questo mondo. E in un accesso di collera gli accade di pronunciare le parole di Colui che moriva sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Stanco, avvilito, in odio a se stesso, senza più fiducia nelle sue capacità, forse nemmeno in Dio, in quei mesi Händel di sera si aggira a lungo per le strade di Londra. Si arrischia a uscire soltanto a ora tarda, perché di giorno davanti a casa sono appostati i creditori, pronti ad assalirlo con le cambiali in mano, mentre per la strada lo disgustano gli sguardi indifferenti o sprezzanti della gente. Talvolta si chiede se non dovrebbe rifugiarsi in Irlanda, dove la sua fama è ancora ben viva - ah, non s'immaginano quanto siano ormai logore le sue forze! -, o in Germania, o in Italia: forse laggiù si sarebbe sciolto quel gelo interiore, forse il dolce vento del Sud avrebbe di nuovo schiuso al canto le lande desolate dell'anima. Questo è insopportabile: non poter creare, restare inerte. No, Georg Friedrich Händel non tollera l'idea della sconfitta. A volte si sofferma davanti a una chiesa, pur sapendo che le parole non gli arrecano conforto. Altre volte si rifugia in un'osteria, ma a chi ha conosciuto la sublime ebbrezza della creazione i fumi dell'alcol possono solo dare disgusto. Altre volte ancora da un ponte sul Tamigi fissa a lungo la corrente torpida, color della pece, chiedendosi se non sarebbe meglio liberarsi da tutto con un unico gesto risolutore. E non provare più l'assillo di questo vuoto, l'angosciosa solitudine di chi è abbandonato da Dio e dagli uomini.
La notte del 21 agosto 1741 Händel stava ancora una volta vagando senza meta. Il giorno era stato torrido, il cielo gravava su Londra come metallo fuso, l'afa era soffocante. Il maestro si era deciso a uscire solo verso sera, per respirare un po' d'aria ...
Così, per sconfiggere la noia, il servitore provava a far salire dalla sua pipetta di terracotta, anziché i soliti anelli di fumo azzurrognolo, delle bolle di sapone. Teneva accanto a sé una piccola ciotola di liscivia da bucato e si divertiva a sospingere fin sulla strada le bolle iridescenti. I passanti si fermavano, facevano scoppiare con la punta del bastone l'una o l'altra sfera colorata e ridevano indicandole con cenni della mano, senza però meravigliarsi. Perché da questa casa in Brook Street c'era da aspettarsi di tutto: talvolta di notte ne erompeva all'improvviso un suono di cembalo, e accadeva spesso che si udissero i pianti e i singhiozzi delle cantanti incorse nell'ira furiosa del collerico tedesco, perché avevano preso una nota di un ottavo di tono troppo alta o troppo bassa. Gli abitanti di Grosvenor Square consideravano già da tempo Brook Street una gabbia di matti.
Il domestico seguitava, calmo e tranquillo, a produrre bolle. Dopo un po' di tempo la sua abilità si era visibilmente affinata, le sfere iridescenti erano sempre più grandi e leggere e volavano sempre più in alto, una aveva perfino superato la cima del tetto della casa di fronte. Ma ad un tratto l'uomo sobbalzò di spavento: un tonfo sordo e greve aveva fatto tremare l'intera casa, tintinnare i vetri e smuovere le tende. Qualcosa di massiccio e pesante doveva essere crollato al piano di sopra. Il servitore si alzò di scatto e infilò di corsa le scale che portavano allo studio.
La poltrona occupata abitualmente dal maestro era vuota, come vuota sembrava tutta la stanza... Il domestico già si stava affrettando verso la camera da letto quando scorse Händel riverso al suolo, immobile, con gli occhi sbarrati. Poi, appena si fu ripreso dallo spavento iniziale, udì un rantolo affannoso: quell'uorno grande e robusto giaceva a terra supino, e gemeva debolmente o, per meglio dire, gemiti brevi e sempre più flebili gli sfuggivano dalle labbra.
Muore, pensò il domestico terrorizzato, e gli si inginocchiò accanto per prestargli i primi soccorsi.
Tentò di sollevarlo, di adagiarlo sul divano, ma quel corpo grosso e inerte era troppo pesante. Gli slacciò il colletto che lo soffocava, e il rantolo cessò immediatamente.
Ma ecco che dal piano di sotto già accorreva Christof Schmidt, l'assistente di Händel atteso per copiare alcune arie; entrando in casa aveva udito il forte tonfo e si era spaventato. In due riuscirono a sollevare la corpulenta figura - ma le braccia subito ricaddero penzoloni come quelle di un morto - e a distendere il maestro sul letto tenendogli il capo rialzato. «Spoglialo,» ordinò Schmidt al domestico «io corro a chiamare il dottore. E spruzzagli acqua fredda sul viso finché non rinviene».
Christof Schmidt si precipitò in strada senza nemmeno infilarsi la giacca, e da Brook Street corse indirezione Bond Street facendo un segno a tutte le carrozze che gli passavano accanto, a trotto lento e maestoso, ma i vetturini proseguivano senza degnare d'uno sguardo quell'uomo grasso, ansante, in maniche di camicia. Finalmente una vettura si fermò, il cocchiere di Lord Chandos aveva riconosciuto Schmidt e questi, dimentico di qualsiasi etichetta, spalancò la portiera della carrozza. «Händel muore! » gridò al duca, che conosceva come un appassionato di musica e il più fido mecenate del suo amato maestro. «Devo correre dal medico». Subito il duca gli fece posto in vettura, i cavalli assaggiarono la frusta e i due prelevarono senza riguardi dal suo studio in Fleet Street il dottor Jenkins, che stava procedendo all'analisi urgente di un campione d'urina. Il medico partì di gran carriera con Schmidt alla volta di Brook Street sul suo hansom cab leggero e veloce. «E' colpa delle eccessive preoccupazioni,» si lamentava l'assistente disperato mentre il cocchio correva all'impazzata «l'hanno tormentato a morte quei dannati: i cantantì, i castrati, gli adulatori, i critici da strapazzo, tutto un ripugnante vermicaio. Quattro opere ha scritto in un solo anno per salvare il teatro, ma gli altri si interessano unicamente delle donne e della vita di Corte, e quel che è peggio vanno tutti pazzi per quell'italiano, il maledetto castrato, il bercione mezzo epilettico. Ah, quanto male hanno fatto al nostro caro Händel! Si è giocato tutti i suoi risparmi, diecimila sterline, e ora lo assillano con i titoli di credito, lo fanno morire di crepacuore. Ha fatto cose straordinarie, si è dato anima e corpo come nessun altro; neanche un gigante reggerebbe a un peso simile! Oh, che uomo, che genio!». Il dottor Jenkins ascoltava, silenzioso e impassibile. Prima di entrare in casa si soffermò un attimo sulla soglia, tirò una boccata di fumo, scosse la cenere dalla pipa. «Quanti anni ha?».
«Cinquantadue» rispose Schmidt.
«Brutta età. Si è ammazzato di fatica, ma è forte come un toro. Bene, vediamo che cosa si può fare».
Il domestico reggeva la bacinella, Christof Schmidt sollevò un braccio a Händel, il dottore incise la vena. Ne sgorgò un fiotto di sangue caldo, rosso vivo, e un attimo dopo un sospiro di sollievo schiuse le labbra serrate del malato. Händel trasse un profondo respiro e aprì gli occhi. Ma lo sguardo era vitreo, vuoto, assente. La sua abituale luminosità si era spenta.
Il medico fasciò il braccio. Non c'era più molto da fare ormai. Si stava già alzando quando si accorse che Händel muoveva le labbra. Si chinò verso di lui. Con un filo di voce, appena un sospiro, il maestro mormorò: «è finita... per me è finita ... non ho più forze... non voglio vivere senza forze ...». Il dottor Jenkins gli si fece ancora più da presso. Si accorse che un occhio, il destro, aveva uno sguardo fisso, mentre l'altro era animato. A riprova di quanto già temeva sollevò al paziente il braccio destro, che ricadde come morto. Sollevò il sinistro, e quello rimase nella nuova posizione. Ora il dottor Jenkins ne sapeva abbastanza.
Quando il medico uscì dalla stanza, Schmidt lo rincorse sulle scale, inquieto e preoccupato: «Che cos'ha?»
«Un colpo apoplettico. Il lato destro è paralizzato».
«E potrà... » ora Schmidt balbettava «potrà guarire?».
Il dottor Jenkins estrasse con molta lentezza una presa di tabacco. Non amava quel genere di domande.
«Forse. Tutto è possibile».
«Resterà paralizzato?».
«E' probabile, a meno che non intervenga un miracolo».
Ma Schmidt, dedito al maestro con tutto se stesso, non si dava per vinto.
«Ma almeno... potrà almeno lavorare? Non può vivere senza la sua musica».
Il dottor Jenkins stava già scendendo le scale.
«No, questo no» disse a bassa voce. «Forse riusciremo a mantenere in vita l'uomo, ma il musicista è perduto. Sono compromesse le funzioni cerebrali».
Schmidt lo fissava impietrito, con gli occhi sbarrati. Il suo sguardo rivelava una disperazione così profonda che il dottore ne rimase impressionato. «A meno che non intervenga un miracolo, come dicevo,» soggiunse «anche se a me non è ancora capitato di vederne».
Per quattro mesi Georg Friedrich Händel giacque privo di forze - e la forza era la sua vita. Il lato destro del corpo era come morto. Non poteva camminare, non poteva scrivere, con la mano destra non riusciva neppure a premere un tasto. Lo strappo terribile che gli aveva lacerato il corpo gli impediva di parlare, la bocca pendeva sbieca e le parole gli colavano dalle labbra in un balbettio confuso. Talvolta gli amici suonavano per lui qualcosa, e allora lo sguardo gli si accendeva di una luce fioca e il grosso corpo ribelle prendeva a muoversi, come se il malato sognasse, quasi volesse accompagnare il ritmo, ma le membra erano rigide e contratte, muscoli e tendini non rispondevano più, quell'uomo una volta possente si sentiva rinchiuso in una tomba invisibile, senza via di scampo. Appena la musica cessava le palpebre gli ricadevano pesanti sugli occhi, e il corpo giaceva di nuovo inerte. Il dottore per togliersi d'imbarazzo - era evidente che il maestro non sarebbe guarito - consigliò i bagni alle terme di Aquisgrana: forse il calore dell'acqua avrebbe portato qualche giovamento.
Ma sotto la supefficie rigida e immobile scorreva, simile alle misteriose correnti calde ssotterranee, un'irrefrenabile energia: la volontà di Händel, la forza primeva del suo essere era rimasta illesa, e si rifiutava di cedere lo spirito immortale al corpo mortale. Il grande uomo non si era arreso, era ancora capace di volere, voleva vivere, e creare ancora, e fu la sua volontà a operare il miracolo, a dispetto delle leggi di natura. Ad Aquisgrana i medici misero in guardia il maestro: bagni troppo lunghi ne avrebbero compromesso irrimediabilmente il cuore, e gli raccomandarono con insistenza di non rimanere per più di tre ore in quelle acque calde. Ma la sua volontà sfidò la morte per amore della vita, e la vita aveva un unico, incoercibile desiderio: guarire. Lasciando i medici sgomenti, Händel rimaneva anche nove ore al giorno nell'acqua fumante, e insieme alla determinazione crescevano di continuo, seppure a gradi, le sue forze. Dopo una settimana era già capace di trascinarsi sulle gambe, al termine della seconda di muovere il braccio offeso e alla fine, immane trionfo della fiducia e della determinazione, riuscì a sottrarsi alla stretta paralizzante della morte per abbracciare la vita con più calore e passione che mai, traboccante di quell'indicibile felicità nota soltanto al malato in via di guarigione.
L'ultimo giorno, ormai completamente ristabilito, prima di partire da Aquisgrana Händel volle fare una visita in chiesa. Non era mai stato particolarmente religioso, ma, ora che per la benevolenza divina gli era di nuovo concesso di salire con le sue sole forze fino alla cantoria, si sentiva animato da qualcosa d'immenso. Passò rapidamente la mano sinistra sulla tastiera dell'organo. Un suono limpido e puro attraversò l'aria assorta della navata. Allora trepidante sfiorò i tasti con la destra, rimasta così a lungo inerte e rigida, e al suo tocco scaturì uno zampillo di note argentine. Lentamente il maestro cominciò a suonare, a improvvisare, trascinato da una corrente sempre più impetuosa. Meravigliose forme sonore si andavano componendo nei domini dell'invisibile, le aeree costruzioni del suo genio levitavano come figurazioni senz'ombra, sempre più in alto, risonanze incorporee, musica trasfigurata in luce. Più in basso le suore e alcuni anonimi fedeli ascoltavano rapiti. Mai avevano sentito suonare così una creatura mortale. Händel, il capo umilmente chino, suonava, non smetteva di suonare. Aveva ritrovato il suo linguaggio, quel linguaggio in cui parlava a Dio, all'eternità e agli uomini. Poteva di nuovo far musica, poteva rimettersi a comporre. E solo allora si sentì davvero guarito.
«Ho fatto ritorno dall'Ade» diceva fiero, gonfiando l'ampio petto e spalancando le braccia possenti, Georg Friedrich Händel allo strabiliato dottore londinese, costretto ad ammettere un miracolo della medicina. E subito, quasi voracemente, il maestro in via di guarigione si rimise al lavoro con rinnovato ardore, impegnandosi senza risparmio di energie. L'antico spirito battagliero aveva ripreso pieno possesso di quest'uomo di cinquantatré anni. Scrive un'opera la mano risanata gli obbedisce alla perfezione - e ancora una seconda, una terza, poi i grandi oratori Saul e Israele in Egitto, e L'Allegro, il Pensieroso ed il Moderato. La forza creativa erompe gioiosa e inarrestabile come da una sorgente a lungo ostruita. Ma il tempo gli è nemico. Per la morte della regina bisogna sospendere le rappresentazioni, quindi ha inizio la guerra contro la Spagna, le grida e i canti della folla riempiono ogni giorno le pubbliche piazze ma il teatro resta vuoto, e i debiti si accumulano. Sopraggiunge un inverno rigidissimo. Londra è stretta in una morsa di ghiaccio, il Tamigi gela e sulla sua superficie specchiante corrono scampanellando le slitte. In questi tempi difficili tutte le sale restano chiuse, nemmeno una musica divina arriva a mitigarne il freddo glaciale. Poi si ammalano i cantanti, e le rappresentazioni vengono annullate una dopo l'altra: la situazione di Händel, già precaria, si aggrava. I creditori si fanno minacciosi, i critici sarcastici, il pubblico si chiude in un muto disinteresse. A poco a poco s'incrina la capacità di resistenza di questo strenuo lottatore. Organizza ancora un concerto, di cui si riserva il diritto ai proventi come ultima via di scampo prima di finire in prigione per morosità. Ma che vergogna dover mendicare per vivere! Händel si rinchiude sempre di più in se stesso, sempre più tetro si fa il suo umore. Non era meglio avere metà del corpo paralizzata piuttosto che l'anima, come ora, tutta intera? Già nel 1740 Händel si sente di nuovo battuto, sconfitto; della passata gloria non è rimasta che cenere. A fatica gli riescono ancora composizioni raccogliticce tratte da precedenti opere, lavori nuovi ma di poco conto. La vena si è inaridita, e va spegnendosi la grande energia che fluiva nel corpo risanato. Per la prima volta il gigante è stanco, fiacco l'indomito guerriero. Per la prima volta rallenta fino a esaurirsi la corrente di felicità creativa che per ben trentacinque anni si era riversata sul mondo. E' finita, è finita un'altra volta. E ora sa il grand'uomo, nella sua disperazione, o almeno crede di sapere: è finita per sempre. Perché, sospira, Dio mi ha fatto risorgere dalla malattia se poi gli uomini mi affossano? Meglio morire piuttosto che vivere come l'ombra di me stesso nel vuoto e nel gelo di questo mondo. E in un accesso di collera gli accade di pronunciare le parole di Colui che moriva sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Stanco, avvilito, in odio a se stesso, senza più fiducia nelle sue capacità, forse nemmeno in Dio, in quei mesi Händel di sera si aggira a lungo per le strade di Londra. Si arrischia a uscire soltanto a ora tarda, perché di giorno davanti a casa sono appostati i creditori, pronti ad assalirlo con le cambiali in mano, mentre per la strada lo disgustano gli sguardi indifferenti o sprezzanti della gente. Talvolta si chiede se non dovrebbe rifugiarsi in Irlanda, dove la sua fama è ancora ben viva - ah, non s'immaginano quanto siano ormai logore le sue forze! -, o in Germania, o in Italia: forse laggiù si sarebbe sciolto quel gelo interiore, forse il dolce vento del Sud avrebbe di nuovo schiuso al canto le lande desolate dell'anima. Questo è insopportabile: non poter creare, restare inerte. No, Georg Friedrich Händel non tollera l'idea della sconfitta. A volte si sofferma davanti a una chiesa, pur sapendo che le parole non gli arrecano conforto. Altre volte si rifugia in un'osteria, ma a chi ha conosciuto la sublime ebbrezza della creazione i fumi dell'alcol possono solo dare disgusto. Altre volte ancora da un ponte sul Tamigi fissa a lungo la corrente torpida, color della pece, chiedendosi se non sarebbe meglio liberarsi da tutto con un unico gesto risolutore. E non provare più l'assillo di questo vuoto, l'angosciosa solitudine di chi è abbandonato da Dio e dagli uomini.
La notte del 21 agosto 1741 Händel stava ancora una volta vagando senza meta. Il giorno era stato torrido, il cielo gravava su Londra come metallo fuso, l'afa era soffocante. Il maestro si era deciso a uscire solo verso sera, per respirare un po' d'aria ...
... continua a pag.80 e fino a 94 sul libro:
"Momenti Fatali" di Stefan Zweig (Biblioteca Adelphi 479, 2005)
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