La sala non è piena e gira nell'aria minaccia di sciopero. Niente stupori, siamo alle solite: quando il piatto offre musica contemporanea, chi sa perché, gli umori all' interno dei teatri si riscaldano, e le curiosità del pubblico all'esterno si afflosciano. É successo di nuovo a Genova, dove in questa settimana (prudentemente, per sole tre repliche) il Carlo Felice ha tributato un dovuto omaggio al compositore ligure Luciano Berio con un programma ben impaginato: due classici degli anni Sessanta, su testo di Edoardo Sanguineti - Passaggio e Laborintus II - e una novità più recente, workwithinwork, in prima esecuzione genovese, da vedere oltre che sentire per la perfetta coreografia di William Forsythe col suo Ballett Frankfurt. La complessa messa in scena, firmata per la regia da Daniele Abbado, con le scene e i costumi di Gianni Carluccio, e con la direzione d'orchestra affidata a Pierre-André Valade (conosciuto come flautista), prevedeva la partecipazione di un drappello notevole di forze esterne: attori e mimi, chiamati per la parte dei contestatori, non si sono limitati a recitarla. E alle loro richieste si sono unite quelle di altri settori del teatro. Di fatto le attenzioni si sono spostate fuori della musica. Peccato. Il trittico - tre atti unici, mezz'ora l'uno - suona come una voce del nostro tempo. Tempo velocissimo, che fa sembrare le due partiture del '63 e del '65 teatro vecchio, mentre workwithinwork, in apparenza composizione esilissima, un castello di carte messo su con gesti delicati e perfetti - ventotto paginette per due violini soli, una manciata di secondi l'una -, dice molto della poesia semplice e fresca, spoglia ed essenziale, di cui oggi si ha bisogno. C'erano letteralmente due generazioni a confronto, nella musica di Berio. Da un lato i rumorosi contestatori di quarant'anni fa, con le loro verbosità iconoclaste, ridenti e irridenti; dall'altro i giovani di oggi, alta perfezione tecnica a colmare i silenzi espressivi. Il fil rouge che scorre interno alle tre partiture di Luciano Berio brilla di una luce adolescente e giovanile, fatta di disagi e solitudini, abiti magici di quelle età.
L'elemento contestatore in Passaggio (debuttante nel 1963 alla Piccola Scala, tra proteste e schiamazzi) è rappresentato dai due "cori", uno nella buca d'orchestra, l'altro mischiato tra le poltrone del pubblico, che contrastano la voce della donna sola sul palcoscenico. Eroina e vittima, viene messa all'asta ("una donna: perfettamente domestica"), e gli acquirenti chiedono di lei tutto, scatenati in fantasie d'epoca, del tipo se sia esotica o mordace ("e se scappa? Cosa mangia?"), concludendo che è troppo cara rispetto alle 610mila lire fissate da un invisibile battitore. "Dio, dio, che prezzi!", grida scandalizzata una dama-bene, alzandosi in piedi dalla sala. La sua vicina di posto, una signora anziana visibilmente turbata dalla baraonda che gioca a fare della realtà un copione di teatro, piano piano fa scattare la molla della borsettina da sera e, attenta a non far rumore, scartoccia una caramella. Ecco come il tempo della realtà - che Berio, come il teatro anni Sessanta, voleva interagisse con la scena - risponde oggi a una dichiarata provocazione dell'arte. Ieri il pubblico della Piccola Scala inveiva vociferando (l'aplomb di Eugenio Montale definì l'esito della prémiere "burrascoso"); oggi le abbonate genovesi del turno A tremolando s'infilano un dolcetto, a mandar giù la pillola un po' amara, mentre gli applausi sanciscono che quei gesti di rottura hanno fatto il loro tempo. Datatissimo, per il gusto odierno, suona Passaggio, sovraccarico nell'ordito, greve negli interventi aleatori in orchestra; insopportabile, ovviamente, dopo i primi tre minuti tutto il gridare degli elegantissimi attori disseminati in sala. Una piccola fiammella di luce viene dalla voce, quella della brava Alda Caiello, presenza minuscola tra quinte gigantesche, opprimenti. Un po' più fluida è la corrente in Laborintus II, non a caso tra i brani più eseguiti e incisi di Berio. Nobilitato da un testo dantesco rivisitato da Sanguineti (qui recitato dal figlio, Federico, appeso in alto a metà scena, imbracato come uno speleologo) e affidato al trio dalla patina arcaica di Nicole Tibbels, Sarah Leonard e Susan Bickley, il brano sprofonda, con scrittura raffinatissima, nel labirinto di un catalogo medioevale, saturo di oggetti e parole. Speculare a questo "tutto tutto tutto" angosciante, la regia di Daniele Abbado riempiva la scena con una sfilata impressionante di oggetti: una lavatrice, due poltrone di fronte a una tv, una bici, una ruota, due braccia e una gamba, una brandina, un bazooka, una scatola di detersivo Tide, per finire con la calata dall'alto di una mezza automobile, la mitica Fiat 1100, unico sguardo "umano" su quel deserto di relitti immoti.
Ma il dulcis, nella serata, era all'inizio. Da siparietti neri, nella scena vuota e nera, uscivano a piccoli gruppi, atletici e discinti in canotte e mutandine, senza un filo di malizia, i fantastici ragazzi del Ballett Frankfurt. Adolescenti tristi, ipercinetici, snodatissimi, perfetti acrobati avviticchiati, esplosivi di energia e velocità. Le loro figurazioni astratte, nelle silhouette di Forsythe, continuamente cangianti, andavano al cuore dell' interpretazione dei Duetti di Berio. Coriandoli in aria, poesia a piccoli sorsi. Suonavano Verena Sommer e Maxim Franke, evocando ora Bach, ora Bartok, ora l'andamento a berceuse di una canzone popolare; la fantasia dei gesti strumentali sposava il rigore di pochi elementi essenziali, spesso evidenti nei richiami delle armonie. Magari con un'amplificazione meno ruvida, di workwithinwork c'era da chiedere il bis.
L'elemento contestatore in Passaggio (debuttante nel 1963 alla Piccola Scala, tra proteste e schiamazzi) è rappresentato dai due "cori", uno nella buca d'orchestra, l'altro mischiato tra le poltrone del pubblico, che contrastano la voce della donna sola sul palcoscenico. Eroina e vittima, viene messa all'asta ("una donna: perfettamente domestica"), e gli acquirenti chiedono di lei tutto, scatenati in fantasie d'epoca, del tipo se sia esotica o mordace ("e se scappa? Cosa mangia?"), concludendo che è troppo cara rispetto alle 610mila lire fissate da un invisibile battitore. "Dio, dio, che prezzi!", grida scandalizzata una dama-bene, alzandosi in piedi dalla sala. La sua vicina di posto, una signora anziana visibilmente turbata dalla baraonda che gioca a fare della realtà un copione di teatro, piano piano fa scattare la molla della borsettina da sera e, attenta a non far rumore, scartoccia una caramella. Ecco come il tempo della realtà - che Berio, come il teatro anni Sessanta, voleva interagisse con la scena - risponde oggi a una dichiarata provocazione dell'arte. Ieri il pubblico della Piccola Scala inveiva vociferando (l'aplomb di Eugenio Montale definì l'esito della prémiere "burrascoso"); oggi le abbonate genovesi del turno A tremolando s'infilano un dolcetto, a mandar giù la pillola un po' amara, mentre gli applausi sanciscono che quei gesti di rottura hanno fatto il loro tempo. Datatissimo, per il gusto odierno, suona Passaggio, sovraccarico nell'ordito, greve negli interventi aleatori in orchestra; insopportabile, ovviamente, dopo i primi tre minuti tutto il gridare degli elegantissimi attori disseminati in sala. Una piccola fiammella di luce viene dalla voce, quella della brava Alda Caiello, presenza minuscola tra quinte gigantesche, opprimenti. Un po' più fluida è la corrente in Laborintus II, non a caso tra i brani più eseguiti e incisi di Berio. Nobilitato da un testo dantesco rivisitato da Sanguineti (qui recitato dal figlio, Federico, appeso in alto a metà scena, imbracato come uno speleologo) e affidato al trio dalla patina arcaica di Nicole Tibbels, Sarah Leonard e Susan Bickley, il brano sprofonda, con scrittura raffinatissima, nel labirinto di un catalogo medioevale, saturo di oggetti e parole. Speculare a questo "tutto tutto tutto" angosciante, la regia di Daniele Abbado riempiva la scena con una sfilata impressionante di oggetti: una lavatrice, due poltrone di fronte a una tv, una bici, una ruota, due braccia e una gamba, una brandina, un bazooka, una scatola di detersivo Tide, per finire con la calata dall'alto di una mezza automobile, la mitica Fiat 1100, unico sguardo "umano" su quel deserto di relitti immoti.
Ma il dulcis, nella serata, era all'inizio. Da siparietti neri, nella scena vuota e nera, uscivano a piccoli gruppi, atletici e discinti in canotte e mutandine, senza un filo di malizia, i fantastici ragazzi del Ballett Frankfurt. Adolescenti tristi, ipercinetici, snodatissimi, perfetti acrobati avviticchiati, esplosivi di energia e velocità. Le loro figurazioni astratte, nelle silhouette di Forsythe, continuamente cangianti, andavano al cuore dell' interpretazione dei Duetti di Berio. Coriandoli in aria, poesia a piccoli sorsi. Suonavano Verena Sommer e Maxim Franke, evocando ora Bach, ora Bartok, ora l'andamento a berceuse di una canzone popolare; la fantasia dei gesti strumentali sposava il rigore di pochi elementi essenziali, spesso evidenti nei richiami delle armonie. Magari con un'amplificazione meno ruvida, di workwithinwork c'era da chiedere il bis.
di Carla Moreni (Il Sole 24 Ore, 25/2/2001)
1 commento:
E' sempre apprezzabile lo sforzo (ottimamente riuscito) di rendere disponibili dei buoni articoli, a volte anche datati. Bella impresa ridare vita (forse, perenne) agli effimeri quotidiani!
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