In anni vicini - nel decennio anteguerra '30-40 - tre eventi musicali fecero balzare con spinta fulminea il concertismo italiano e la direzione d'orchestra a un livello europeo ed extra-continentale: il Trio di Trieste, Arturo Benedetti Michelangeli e Franco Ferrara.
Dopo quasi sessant'anni gli strumentisti sono ancora sulla breccia, il grande pianista anche, il direttore d'orchestra non più, con la carriera iniziata gloriosamente, ma interrotta, per crudelissime ragioni fisiche, ancor prima della morte. Era come fosse sorta una cometa, nei cieli felici della musica, a indicare una palingenesi di gran luce.
Ricordo bene la sorpresa, l'accoglimento stupito, per la rivelazione dei tre ragazzi del Trio di Trieste; dal '33, sino alla piena affermazione pochi anni dopo: De Rosa, Zanettovich, Lana. Insieme al fatto nuovo dell'eseguire "a memoria " in trio. Talvolta la memoria, sia pur sempre ammirevole, resta un fatto esornativo, esterno; talvolta anche un'esibizione. Ma in altri casi significa la sicurezza spinta a limiti estremi; significa approfondimento, appropriazione di un testo musicale nei suoi segreti più fondi. Il caso appunto dei giovanissimi triestini.
I primi incontri con loro, nelle mie perdute stagioni triestine. Il "timbro" di Trieste che ti circuiva con suggestioni quasi fisiche. La femminilità di Trieste e il suo tessuto letterario, senza soluzioni a dividerle. Come se Edda Marty del racconto di Giani Stuparich (il suo capolavoro) e la Bianca dell'Anonimo triestino le incontrassimo in "Corso" o al Caffè Tommaseo, o agli Specchi, con il suono e gli incanti della pronuncia parlata dialettale.
I primi anni del Trio, gli stessi dei miei incontri, quando appunto il "timbro" triestino mi si svelava in un'acustica non somigliante ad altre... Insieme alla bora che avventandosi dall'altipiano faceva più pronto l'udito e più attizzate le energie dello spirito. Mentre crescevano le fortune del Trio mi si arricchivano gli incontri nella città: una caccia a saziare l'inguaribile inseguimento di conoscenza.
Gli incontri, adesso, guardati attraverso il vetro opaco della morte. Erano Giani Stuparich, Saba (le poche volte, arcigno, ironico, nella Libreria di San Nicolò), Virgilio Giotti con Pierantonio Quatantotti Gambini, verso sera nel piccolo caffè, nella strada stretta accanto al Vecchio Ospedale, quando il poeta usciva dall'Economato; Stelio Crise, Anita Pittoni... lunghe conversazioni sui temi del libro tipico L'anima di Trieste, i ricordi di "zio Valentin", le delusioni triestine, i suoi innocui veleni («Quelo xe furbo .. »), persino una mia lettera a Irneri, per tentare invano la sospensione dello sfratto da Via Cassa di Risparmio. Troppi morti alle spalle, sempre, nei ritorni ai luoghi della vita. I triestini sradicati, al Conservatorio di Milano: Romeo Bartoli, identificabile nel maestro di canto de La coscienza di Zeno; Giusto Zampieri, storico geniale e sciamannato, amico di Busoni, carico di racconti. Ecco: a un mio ritorno triestino, dopo anni (autunno '91), resto solo; ripasso soltanto le strade e le memorie. Alcuni morti anche nei miei lontani intelligentissimi cugini. Alcuni sopravvivono: attenti alle letture, ai fatti, alle etnìe frammischiate: i Grego, i Filippi, i Poillucci, i Roli. Spazi vuoti dovunque, nei solchi della morte. Resto solo, a Trieste. Senza cercare i viventi: Magris, Mattioni, Tomizza, Giorgio Voghera... Con il gran patriarca carismatico Vito Levi (mi ha dedicato il suo icastico ritratto di Richard Strauss), appelli di saluto, affettuosità per interposta persona... Forse, nel ritorno dell'autunno '91, si chiudeva la mia temperie triestina. Insieme ad altre. Persiste invece, per fortuna di tutti, il tempo glorioso del Trio di Trieste. Credo che nessun altro complesso cameristico abbia mantenuto durata tanto lunga, anche dopo l'entrata di Amedeo Baldovino al posto di Lana. I tre ragazzi entravano dunque in un tempo anagrafico che a mia memoria non ha altri precedenti, entravano in una storia musicale triestina alzandosi presto in volo fuori della Città, verso il Mondo. Partivano da una tradizione locale di ben alta qualità, in area cameristica, sinfonica, teatrale. Pensiamo al contesto cameristico e sinfonico - mitteleuropeo e germanico -, alla duplice tradizione operistica - tedesca e italiana -, al Quartetto Triestino nella sua prima formazione, alla qualità dell'orchestra, ben accetta nella seconda metà del secolo scorso e nei primi decenni del nostro da direttori primari. La lingua musicale austrogermanica era d'uso, tale da includere Trieste in una geografia europea; senza strettoie regionali o provinciali.
Da ricordare che triestino era uno dei più grandi direttori d'orchestra, Victor De Sabata, mentre in campo creativo l'operismo di Antonio Smareglia realizzava il singolare incrocio e incontro di culture diverse, cioè un crocicchio nevralgico tra naturalismo italiano, slavismo (si pensi a Smetana, Dvorák, il primo Janacek), residui germanizzanti. In una linea di eclettismo agiranno altri, nei tempi successivi: Illersberg, Giulio Viozzi, Bugamelli - oggi dimenticati - e dimenticato, in campo sinfonico, Mario Zafred, che si era però tolto di dosso la "triestinità". Neppure fuori tema è notare che per un musicista come Luigi Dallapiccola l'essere nato in Istria, a Pisino, e l'averci vissuto anni adolescenti, ha pur contato qualche cosa. Si veda infatti nel volume di suoi scritti Parole e musica (Milano, Il Saggiatore 1980, pag. 399 sgg.) un frammento autobiografico inerente al periodo infantile e della prima adolescenza.
Non vorrei aver divagato, nel rendere omaggio affettuosamente amichevole al Trio. Perché nonostante il glorioso cammino dovunque venga praticato l'ascolto cameristico, nei tre "ragazzi" l'etnìa culturale ebbe determinazione primaria. E l'aggancio è continuato, nella fermezza e nella durata. Non mi occorre dire molto sui caratteri interpretativi, sui risultati. I documenti contenuti in questo volume parlano meglio e più di qualunque frase elogiativa. La ricerca aggettivale o lo spreco di avverbi sarebbero oziosi, inutili, di fronte al concreto testimoniale. Basti dire che l'analisi sui testi della letteratura specifica e la maturità furono tanto alte e compiute, sin dai primi anni, da rendere l'atto esecutivo un atto di vita. Interpretazione come vita; come vita dello spirito e realtà sonora coordinata, organizzata. Appunto, l'elaborato tecnico e la vita segreta annidata nei testi; il piacere dell'offerta all'ascolto e il velo calato sui misteri creativi, il volto nascosto della bellezza estetica scoperto e rivelato nell'acutezza esecutiva.
Infine devo ricordare le due occasioni di incontro in concerto con il Trio. Nel '47 concludevo la stagione operistica al Teatro Verdi. Mi venne offerto il primo concerto sinfonico (in programma un brano di un altro nobile compositore triestino, Zuccoli), con i tre giovani per il Triplo di Beethoven. C'era una settimana vuota, prima delle prove orchestrali. Rimasi a Treste. In casa dell'ingegner Negri, suocero di Zanettovich, si poteva disporre di due pianoforti. Per una settimana lavorammo insieme, io sul secondo pianoforte per la parte orchestrale. Giornate che non ho dimenticato. Ho così potuto conoscere, capire, vivere il loro modo studioso ed elaborativo. Cioè entrare nei segreti d'officina. Un'esperienza unica, nella mia vita musicale. Non l'ho più dimenticata. Assisteva talvolta un ragazzo che sarebbe diventato, molti anni dopo, "operatore musicale", e al quale rivolsi poche parole e nessuna attenzione: Giorgio Vidusso.
Passa altro tempo; l'altra occasione insieme: il Concerto dell'albatro di Ghedini (a me dedicato) a Roma, all'Accademia di S. Cecilia. Nel Trio c'è Amedeo Baldovino (che avevo ascoltato in calzoni corti al Conservatorio di Milano); insieme avevamo eseguito Scelomo di Ernst Bloch al Comunale di Bologna; insieme, lungo gli anni, sere di conversazioni a Roma; con lui e con l'intelligente sua consorte, pittrice.
Le siderali suggestioni dell'Albatro ghediniano, con la loro estrema serietà del far musica, senza bellurie. Due sole occasioni, ecco. Troppo, e troppo a lungo invischiato nelle sciaguratezze operistiche, senza dialogo - con uomini e donne -, due momenti di salvezza, questi, non cancellati.
Gianandrea Gavazzeni (Bergamo, ottobre 1992)
Dopo quasi sessant'anni gli strumentisti sono ancora sulla breccia, il grande pianista anche, il direttore d'orchestra non più, con la carriera iniziata gloriosamente, ma interrotta, per crudelissime ragioni fisiche, ancor prima della morte. Era come fosse sorta una cometa, nei cieli felici della musica, a indicare una palingenesi di gran luce.
Ricordo bene la sorpresa, l'accoglimento stupito, per la rivelazione dei tre ragazzi del Trio di Trieste; dal '33, sino alla piena affermazione pochi anni dopo: De Rosa, Zanettovich, Lana. Insieme al fatto nuovo dell'eseguire "a memoria " in trio. Talvolta la memoria, sia pur sempre ammirevole, resta un fatto esornativo, esterno; talvolta anche un'esibizione. Ma in altri casi significa la sicurezza spinta a limiti estremi; significa approfondimento, appropriazione di un testo musicale nei suoi segreti più fondi. Il caso appunto dei giovanissimi triestini.
I primi incontri con loro, nelle mie perdute stagioni triestine. Il "timbro" di Trieste che ti circuiva con suggestioni quasi fisiche. La femminilità di Trieste e il suo tessuto letterario, senza soluzioni a dividerle. Come se Edda Marty del racconto di Giani Stuparich (il suo capolavoro) e la Bianca dell'Anonimo triestino le incontrassimo in "Corso" o al Caffè Tommaseo, o agli Specchi, con il suono e gli incanti della pronuncia parlata dialettale.
I primi anni del Trio, gli stessi dei miei incontri, quando appunto il "timbro" triestino mi si svelava in un'acustica non somigliante ad altre... Insieme alla bora che avventandosi dall'altipiano faceva più pronto l'udito e più attizzate le energie dello spirito. Mentre crescevano le fortune del Trio mi si arricchivano gli incontri nella città: una caccia a saziare l'inguaribile inseguimento di conoscenza.
Gli incontri, adesso, guardati attraverso il vetro opaco della morte. Erano Giani Stuparich, Saba (le poche volte, arcigno, ironico, nella Libreria di San Nicolò), Virgilio Giotti con Pierantonio Quatantotti Gambini, verso sera nel piccolo caffè, nella strada stretta accanto al Vecchio Ospedale, quando il poeta usciva dall'Economato; Stelio Crise, Anita Pittoni... lunghe conversazioni sui temi del libro tipico L'anima di Trieste, i ricordi di "zio Valentin", le delusioni triestine, i suoi innocui veleni («Quelo xe furbo .. »), persino una mia lettera a Irneri, per tentare invano la sospensione dello sfratto da Via Cassa di Risparmio. Troppi morti alle spalle, sempre, nei ritorni ai luoghi della vita. I triestini sradicati, al Conservatorio di Milano: Romeo Bartoli, identificabile nel maestro di canto de La coscienza di Zeno; Giusto Zampieri, storico geniale e sciamannato, amico di Busoni, carico di racconti. Ecco: a un mio ritorno triestino, dopo anni (autunno '91), resto solo; ripasso soltanto le strade e le memorie. Alcuni morti anche nei miei lontani intelligentissimi cugini. Alcuni sopravvivono: attenti alle letture, ai fatti, alle etnìe frammischiate: i Grego, i Filippi, i Poillucci, i Roli. Spazi vuoti dovunque, nei solchi della morte. Resto solo, a Trieste. Senza cercare i viventi: Magris, Mattioni, Tomizza, Giorgio Voghera... Con il gran patriarca carismatico Vito Levi (mi ha dedicato il suo icastico ritratto di Richard Strauss), appelli di saluto, affettuosità per interposta persona... Forse, nel ritorno dell'autunno '91, si chiudeva la mia temperie triestina. Insieme ad altre. Persiste invece, per fortuna di tutti, il tempo glorioso del Trio di Trieste. Credo che nessun altro complesso cameristico abbia mantenuto durata tanto lunga, anche dopo l'entrata di Amedeo Baldovino al posto di Lana. I tre ragazzi entravano dunque in un tempo anagrafico che a mia memoria non ha altri precedenti, entravano in una storia musicale triestina alzandosi presto in volo fuori della Città, verso il Mondo. Partivano da una tradizione locale di ben alta qualità, in area cameristica, sinfonica, teatrale. Pensiamo al contesto cameristico e sinfonico - mitteleuropeo e germanico -, alla duplice tradizione operistica - tedesca e italiana -, al Quartetto Triestino nella sua prima formazione, alla qualità dell'orchestra, ben accetta nella seconda metà del secolo scorso e nei primi decenni del nostro da direttori primari. La lingua musicale austrogermanica era d'uso, tale da includere Trieste in una geografia europea; senza strettoie regionali o provinciali.
Da ricordare che triestino era uno dei più grandi direttori d'orchestra, Victor De Sabata, mentre in campo creativo l'operismo di Antonio Smareglia realizzava il singolare incrocio e incontro di culture diverse, cioè un crocicchio nevralgico tra naturalismo italiano, slavismo (si pensi a Smetana, Dvorák, il primo Janacek), residui germanizzanti. In una linea di eclettismo agiranno altri, nei tempi successivi: Illersberg, Giulio Viozzi, Bugamelli - oggi dimenticati - e dimenticato, in campo sinfonico, Mario Zafred, che si era però tolto di dosso la "triestinità". Neppure fuori tema è notare che per un musicista come Luigi Dallapiccola l'essere nato in Istria, a Pisino, e l'averci vissuto anni adolescenti, ha pur contato qualche cosa. Si veda infatti nel volume di suoi scritti Parole e musica (Milano, Il Saggiatore 1980, pag. 399 sgg.) un frammento autobiografico inerente al periodo infantile e della prima adolescenza.
Non vorrei aver divagato, nel rendere omaggio affettuosamente amichevole al Trio. Perché nonostante il glorioso cammino dovunque venga praticato l'ascolto cameristico, nei tre "ragazzi" l'etnìa culturale ebbe determinazione primaria. E l'aggancio è continuato, nella fermezza e nella durata. Non mi occorre dire molto sui caratteri interpretativi, sui risultati. I documenti contenuti in questo volume parlano meglio e più di qualunque frase elogiativa. La ricerca aggettivale o lo spreco di avverbi sarebbero oziosi, inutili, di fronte al concreto testimoniale. Basti dire che l'analisi sui testi della letteratura specifica e la maturità furono tanto alte e compiute, sin dai primi anni, da rendere l'atto esecutivo un atto di vita. Interpretazione come vita; come vita dello spirito e realtà sonora coordinata, organizzata. Appunto, l'elaborato tecnico e la vita segreta annidata nei testi; il piacere dell'offerta all'ascolto e il velo calato sui misteri creativi, il volto nascosto della bellezza estetica scoperto e rivelato nell'acutezza esecutiva.
Infine devo ricordare le due occasioni di incontro in concerto con il Trio. Nel '47 concludevo la stagione operistica al Teatro Verdi. Mi venne offerto il primo concerto sinfonico (in programma un brano di un altro nobile compositore triestino, Zuccoli), con i tre giovani per il Triplo di Beethoven. C'era una settimana vuota, prima delle prove orchestrali. Rimasi a Treste. In casa dell'ingegner Negri, suocero di Zanettovich, si poteva disporre di due pianoforti. Per una settimana lavorammo insieme, io sul secondo pianoforte per la parte orchestrale. Giornate che non ho dimenticato. Ho così potuto conoscere, capire, vivere il loro modo studioso ed elaborativo. Cioè entrare nei segreti d'officina. Un'esperienza unica, nella mia vita musicale. Non l'ho più dimenticata. Assisteva talvolta un ragazzo che sarebbe diventato, molti anni dopo, "operatore musicale", e al quale rivolsi poche parole e nessuna attenzione: Giorgio Vidusso.
Passa altro tempo; l'altra occasione insieme: il Concerto dell'albatro di Ghedini (a me dedicato) a Roma, all'Accademia di S. Cecilia. Nel Trio c'è Amedeo Baldovino (che avevo ascoltato in calzoni corti al Conservatorio di Milano); insieme avevamo eseguito Scelomo di Ernst Bloch al Comunale di Bologna; insieme, lungo gli anni, sere di conversazioni a Roma; con lui e con l'intelligente sua consorte, pittrice.
Le siderali suggestioni dell'Albatro ghediniano, con la loro estrema serietà del far musica, senza bellurie. Due sole occasioni, ecco. Troppo, e troppo a lungo invischiato nelle sciaguratezze operistiche, senza dialogo - con uomini e donne -, due momenti di salvezza, questi, non cancellati.
Gianandrea Gavazzeni (Bergamo, ottobre 1992)
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